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Ribellarsi per la Palestina è possibile e necessario più di prima: una riflessione dal casello di Roma Ovest su sabato 5 ottobre e DDL 1660

Con questo articolo vogliamo proporre una riflessione sulla giornata di mobilitazione per la Palestina di sabato 5 ottobre a partire dall’esperienza di lotta e conflitto che abbiamo avuto come studentə e giovani di Pisa partitə con il pullman di Studentə per la Palestina, per arrivare a Roma.

di Collettivo Universitario Autonomo – Pisa

In particolare, pensiamo che vi siano alcuni elementi che consentono di leggere nelle forme di insubordinazione al dispositivo mediatico e poliziesco messo in campo delle possibilità di sviluppo concreto e potente delle mobilitazioni per la Palestina e di autodifesa dell’agibilità delle lotte rispetto ai tentativi di attacco della controparte. Infatti, al netto di episodi specifici, sul piano generale il tentativo di comprimere l’agibilità del movimento per la Palestina da parte dello Stato in quella giornata non ha funzionato, perché la piazza c’è stata ed è stata vitale e ribelle e perché la narrazione che i giornali e il governo hanno provato a costruire parlando di infiltrati e facinorosi risulta debole, per quanto roboante.

Una delle caratteristiche di sabato scorso è stata la funzione del dispositivo messo in campo dallo Stato, che aveva tra i suoi obiettivi quello di governare e filtrare i flussi di persone, più che di reprimerli e impedirne l’accesso, provando a dividere e disarticolare la partecipazione. Questo è uno dei motivi dei centinaia, probabilmente, fogli di via che sono stati comminati a coloro che hanno provato ad arrivare in piazza, di cui 14 allə studentə provenienti da Pisa, nonché dei fermi lunghi ore ai caselli, dei pullman bloccati e via dicendo. Uno degli obiettivi della controparte è stato quello di provare a imporre le condizioni e la compatibilità necessaria per partecipare alla protesta, per accedere alla piazza, di imporre la divisione dei gruppi, l’individuazione di persone ritenute più attive, dunque più “pericolose”, la disarticolazione come possibilità di sviluppare efficacemente la narrativa dei “buoni” e dei “cattivi”. Di fatto la piazza e la giornata hanno mostrato i limiti e la debolezza di questo tentativo, per quanto materialmente imponente, per la capacità dellə manifestanti di partecipare in migliaia e in maniera unita, di sfidare i blocchi di polizia e autodeterminarsi mettendo al centro la politicità dei motivi per cui si è in piazza e la libertà di esprimerli: lo Stop al genocidio, la denuncia della complicità politica, accademica, economica e militare del nostro Paese, la libertà del popolo palestinese e libanese. 

Non vogliamo negare che il dispositivo di polizia e la campagna mediatica che l’hanno accompagnato abbiano avuto degli effetti nel limitare la partecipazione e provare a imporre una certa intimidazione, ma che ci sono le condizioni e le possibilità per vanificarli ben prima che questi limiti all’agibilità diventino reali, e le migliaia di persone di Roma lo dimostrano. L’azione della controparte, dello Stato e dei suoi apparati mediatici, si sta muovendo molto sulla guerra psicologica e ideologica che conduce contro di noi, in particolare contro giovani e studentə che hanno a migliaia protestato e occupato per la Palestina nel corso di quest’anno, e che funziona a partire dal principio della paura come repressione in sé e non come esito della repressione. Questo non vale soltanto rispetto alla giornata del 5 ottobre, ma anche come irrigidimento della controparte su tutta la linea del conflitto sociale che vediamo nel DDL 1660. Senza addentrarci nell’analisi del decreto, vogliamo sottolineare come per questo valga lo stesso principio e come al contempo manifesti la debolezza di uno Stato che di fronte ad alcune contraddizioni centrali, tra cui le proteste connesse con l’avvitamento bellicista del nostro Paese, marca un’assenza di consenso e una difficoltà a recuperare delle spinte che nella società si muovono, soprattutto in questo caso rispetto alle mobilitazioni per lo Stop al genocidio.

L’esempio di quanto successo al pullman pisano è emblematico di come possiamo organizzarci per vanificare questo dispositivo materiale e ideologico e renderlo un problema concreto per la nostra controparte senza negoziare sui contenuti politici della protesta. Nel corso della mattinata, il pullman è stato fermato e bloccato dalla polizia stradale al casello di Roma ovest. Dopo due ore di sequestro, lə studentə hanno sfidato l’imposizione del fermo e occupato l’autostrada con cori, striscioni e bandiere della Palestina, con blocchi a singhiozzo, con l’obiettivo di manifestare per lo stop al genocidio ovunque si fosse e come forma di protesta per poter ripartire. Dopo altre due ore di blocco, tre camionette di celere e 13 volanti di polizia, Digos e carabinieri sono intervenute per caricare lə studentə e ripristinare il traffico. Di fronte all’ulteriore minaccia di essere condottə tuttə in questura, lə studentə si sono rifiutate, venendo aggredite ulteriormente con violenti fermi, ma di fatto nessunə è stato portato via e il pullman è rimasto bloccato dalle forze di polizia fino alla notifica di 14 fogli di via nella serata. Un controllo dei documenti al casello che aveva la volontà di impedire a un pullman di 50 giovani e studentə di arrivare a Roma producendo lunghe attese, divisione e stanchezza, si è trasformato in un luogo di protesta politica per la Palestina e di conflitto reale per la propria libertà.

Fare un blocco stradale in autostrada di fronte al tentativo della polizia di non farci passare e protestare per la Palestina a un casello sono azioni che possono ripristinare l’agibilità e l’autodeterminazione che, oltre che a livello giuridico, sono attaccate a livello ideologico e politico con il Decreto 1660. Un blocco stradale è diventato una maniera semplice e trasparente di difendere la libertà di movimento mentre la polizia la impediva, piuttosto che di metterla a repentaglio!

Queste azioni permettono di non accogliere un ordine del discorso determinato dall’impotenza insinuata dalla controparte, ma immaginare esperienze ricche di possibilità che poche decine di persone possono mettere in campo di fronte a un’ingiustizia palese e a una limitazione dispotica della propria libertà di movimento. È un modo per difendere l’agibilità politica delle lotte e che rafforza la protesta per la Palestina e contro il genocidio in generale. Se, infatti, uno degli obiettivi della controparte era quello di dividere i pullman e i manifestanti, la rigidità che lə studentə hanno posto di fronte al proprio fermo ha dato legittimità a un principio di unità nella lotta e nella scelta di ribellarsi, senza negoziare sulle forme o sui contenuti della protesta. 

Questo è solo un piccolo esempio di una tendenza che si è data anche in piazza e che pensiamo debba crescere e riprodursi per mettere in discussione alla radice la capacità dello Stato di irrigidire e rendere efficace il proprio dispotismo e del futuro decreto di determinare le forme della protesta e del conflitto, oltre che le loro conseguenze penali. Perché dall’altro lato ci siamo noi, c’è l’insopprimibile volontà di agire di migliaia di persone, di organizzarsi, di autodeterminarsi, di esprimere contenuti e messaggi politici giusti e profondi e di farlo con ancora più forza se dall’altro lato c’è un ostacolo che lo impedisce.

Pensiamo che il punto sia riconoscere che lottare e lottare per la Palestina (in questo caso), fare crescere questa vitalità e rabbia, organizzarci rispetto a obiettivi cristallini e giusti come l’interruzione delle complicità delle nostre istituzioni con il genocidio, è il requisito per difendere la nostra agibilità; perché la recrudescenza e la radicalizzazione dei dispositivi di controllo statali è connessa a una debolezza politica profonda rispetto a una contraddizione, come quella dell’escalation bellica, della cultura che esprime e del ruolo del nostro Paese, su cui manca il consenso sociale e su cui si approfondiscono rotture nella mentalità di noi giovani, studenti e studentesse, che siamo alla ricerca di una ricchezza di senso e di valore delle nostre attività e delle nostre vite, di una loro riqualificazione etica e politica profonda rispetto alla disgregazione a cui siamo costrettə nella nostra quotidianità proletaria e precaria a cui il DDL 1660 vorrebbe conservarci con i suoi vincoli materiali e psicologici. 

Collettivo Universitario Autonomo – Pisa

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