Salvini goes to Amerika
Il Capitone in questi giorni è sbarcato negli States. Il viaggio a lungo preparato si articolerà in diversi incontri di livello, quello con il vicepresidente Mike Pence, con il Segretario di Stato Mike Pompeo e con alcuni think tanks del sovranismo a stelle e strisce (magari ci potrebbe scappare anche un selfie con Trump, ma è prematuro dirlo).
Il tour era stato lungamente preparato dai colonnelli leghisti, in particolare dal sottosegretario agli esteri Guglielmo Picchi e da Giancarlo Giorgetti, ultrà filoatlantista, che già in marzo era volato negli USA. Un viaggio che avviene dopo il cappotto leghista alle europee e l’innalzamento della tensione con l’UE, nonché a cavallo con altri dossier internazionali importanti. Salvini vuole definitivamente accreditarsi come interlocutore privilegiato dell’amministrazione Trump a livello italiano, ma anche a livello europeo. Vuole mostrarsi come uomo forte del governo e possibile futuro premier nel caso in cui gli alleati e il partito di Mattarella (Conte, Tria e Moavero) non si allineino al dettato leghista.
Sono almeno tre i livelli su cui si svolgeranno gli incontri.
In primo luogo, entrambi gli interlocutori hanno interesse che l’Italia si muova come cuneo nella disarticolazione dell’Unione Europea per come la conosciamo, o che per lo meno forzi le politiche di austerity e controllo del debito. Il Capitone perché necessita di ulteriore liquidità e flessibilità per portare avanti il suo programma elettorale, vuole usare gli USA come strumento di pressione verso i tedeschi per una ricontrattazione (e non di più, la base produttiva della Lega non vedrebbe di buon occhio una rottura definitiva degli assetti europei), gli states perché così potrebbero continuare la strategia di accerchiamento dello scomodo alleato germanico e procedere con lo scarico della crisi sulle coste orientali dell’atlantico. Dunque bisogna tastare il terreno, vedere quanta copertura garantiscono gli americani per fare da Cavallo di Troia e dall’altro lato quanto Salvini sia affidabile malgrado il suo lascivo innamoramento per Putin risalente a solo pochi anni fa.
In questo quadro la questione minibot – i titoli di stadio di piccolo taglio emessi per saldare i debiti della pubblica amministrazione – sembra una dimostrazione di intenti belligeranti messa lì sul tavolo. La misura è semplicemente un escamotage per produrre nuova liquidità indipendentemente dalla BCE. Il sottotesto però della promozione di una politica del genere è duplice, perché da un lato confliggerebbe con la sovranità monetaria europea e dall’altro potrebbe essere moneta alternativa già pronta in caso di frantumazione dell’area Euro. Trump e i suoi si staranno sfregando le mani all’idea, sempre che non l’abbiano caldeggiata anticipatamente! Un keynesismo finanziario sotto l’ala protettrice degli Yankee sarebbe la conquista a cui mirano i leghisti.
Un secondo punto, col doppio intento di ostacolare ulteriormente la politica estera europea e continuare la distribuzione di caos controllato, è un avvio di dialogo sulle strategie in Medioriente. Con la guerra all’Iran che si approssima (vedi incidenti delle petroliere in Oman) Trump è in cerca di alleati che forzino la strategia diplomatica delle cancellerie continentali. Neanche a dirlo, da smemorato qual è, Salvini, scordandosi le sue vecchie posizioni filorusse e morbide con l’Iran, negli ultimi giorni si è sperticato a dichiarare: “Questo è un Paese che crede di poter cancellare un altro Paese (Israele) dalla faccia della terra. Questo non può essere qualcuno con cui abbiamo un dialogo” e ad affermare che l’accordo sul nucleare andrebbe riconsiderato. E’ chiaro per chi suona la campana? Un altro dossier che riguarda il Medioriente è quello che riguarda la Siria dove gli Stati Uniti vorrebbero continuare il disimpegno iniziato nell’ultimo anno, ma contenendo comunque l’iniziativa turca e l’influenza iraniana e libanese nel teatro di guerra. A questo fine ha chiesto uno sforzo agli alleati a una gestione più condivisa del conflitto proponendo l’invio di truppe (per addestramento!) da parte di Francia, Gran Bretagna e Italia, oltre che dai paesi che dovrebbero comporre la nuova NATO araba promossa dagli americani vivacemente nei confronti dell’Arabia Saudita. In cambio dell’impegno di truppe italiane sul suolo siriano il pentagono si impegnerebbe ad intervenire diplomaticamente nello scenario libico ponendosi a garanzia degli interessi nostrani.
Questi dossier insieme alla posizione sul Venezuela (la Lega dall’inizio ha sostenuto Guaidò) sarebbero dei bocconi molto indigesti per gli alleati di governo cinquestelle. Ma soprattutto a ricomprendere tutte queste questioni strategiche vi è la guerra commerciale con la Cina: gli USA hanno visto come fumo negli occhi l’accordo siglato dal governo italiano per gli investimenti cinesi e la Belt and Road Initiative. Salvini si è mantenuto defilato dai momenti pubblici che riguardavano l’accordo e ha spesso mostrato una certa freddezza verso l’iniziativa promossa invece con entusiasmo dai grillini.
Insomma Salvini si candida e candida il nostro paese ad essere una pedina nello scacchiere globale della strategia statunitense con sempre minore autonomia di manovra (alla faccia del “sovranismo”). Niente garantisce che una volta usata l’Italia non sarà lasciata alle sue sorti nel caos nella migliore tradizione USA. Sedotti e abbandonati. Nel frattempo si prepara lo scenario per una nuova guerra, questa volta in Iran, che inevitabilmente riverserà ancora più caos di ritorno su un’Europa sempre più fragile e scomposta. Una questione che riguarda da vicino “la sinistra” o ciò che ne resta. Sorgerà una seria proposta di opposizione al conflitto o ci sarà la gara a candidarsi come utili idioti?
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