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Scienza, Università, studenti e operai nella grande trasformazione italiana

Un dialogo tra Franco Piperno e gli studenti…

da Machina

Siamo felici di pubblicare questo scritto di Franco Piperno in questa sezione di Machina, testo che è stato condiviso con noi dallo stesso autore. Non soltanto perché l’autore è un punto di riferimento di «sudcomune», ma soprattutto perché il suo discorso critico è di fondamentale importanza per chiunque voglia comprendere cosa siano diventate «Scienza» e «Università», ovvero come la loro riorganizzazione capitalistica ne abbia modificato la logica e le stesse finalità.

Il testo proviene da un Seminario organizzato da Luciano Vasapollo all’Università La Sapienza di Roma, il 26 novembre 2021, nel quale Piperno, con la chiarezza che gli è propria, discute della storia nazionale del dopoguerra: dai processi migratori, alla formazione dell’operaio massa, dall’incontro operai studenti all’impatto che questo ha avuto in fabbrica e nelle università. Di particolare interesse le domande degli studenti al termine dell’intervento, tramite le quali vengono approfonditi alcuni concetti e discusse le differenze di approccio alla lotta politica tra i giovani di oggi e quelli di fine anni sessanta. (F.M.P)

 

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Luciano Vasapollo: «Franco Piperno, fisico importantissimo, insegnante presso l’Università di Calabria, ha pubblicato moltissimo, e oltre a questo è un militante politico come me. Abbiamo entrambi militato nel gruppo extraparlamentare di Potere operaio. Franco era già “Franco Piperno” quando avevo quindici anni, perché lui aveva fatto già tutti i movimenti degli anni ’60, mentre io mi affaccio alle lotte e ai movimenti nel ‘69/’70. Abbiamo avuto questa militanza comune in Potere operaio, siamo rimasti molto amici, e ci unisce la cultura, l’intellettualità organica e militante – che così ancora oggi viviamo -, la vecchia militanza politica – che è rimasta ancora giovane oggi perché quando si mantiene la freschezza delle idee esse non muoiono – e, infine, l’origine calabrese di entrambi. A questo proposito tra alcuni libri che ho pubblicato trovate un nostro dialogo, in cui dialoghiamo della nostra storia sociale, politica etc. Vi invito a seguire questo intervento poiché il Professor Piperno andrà al cuore del problema e tratterà la politica economica locale e settoriale, mista con la storia economica e la cultura del paese. Come diceva Martì, “essere colti per essere liberi”: non si può parlare del futuro del paese, se non si parla di cultura. Parleremo dal dopoguerra ad oggi, e soprattutto della cultura dalla quale proveniamo, come migranti, come politici, come professori universitari. Concedo la parola a Franco, che ringrazio tanto per essere con noi».

 

Franco Piperno: «Comincerei con il delineare brevemente l’atmosfera di quegli anni, partendo dal periodo che va dagli anni ‘60 agli anni ‘80. Stasera insisterò particolarmente sul primo periodo, quello che vede protagonista la generazione nata nel dopoguerra, poiché è quella che poi condurrà al conflitto sociale in Italia fino agli anni ‘80/’90. La situazione in Italia era caratterizzata dalla presenza di emigrazione, non solo dal Sud verso il Nord, ma anche dalle campagne verso le città, e dalla terra verso la fabbrica. Questo fenomeno, costantemente presente negli anni precedenti, non è mai arrivato alle dimensioni raggiunte nel dopoguerra, ed è seguito della decisione della Corte Costituzionale di eliminare l’imponibile di manodopera, che consisteva nel fatto che i proprietari terrieri dovevano assumere lavoratori e contadini per alleviare la disoccupazione. Nel ’56 questo era stato lo strumento principale di assistenza da parte dello Stato soprattutto nel Sud, e poiché viene abolito dalla Corte Costituzionale, si perde questo diritto a lavorare attraverso l’imponibile di manodopera, chiamato così poiché proporzionato alla superficie coltivabile a disposizione. Dentro questo movimento migratorio se ne forma un altro inerente agli studenti, poiché nel frattempo in Italia c’erano state una serie di riforme nel sistema scolastico, si era allargata la base scolastica in maniera significativa, e con essa anche il numero degli studenti iscritti all’Università. Intendiamoci, tra la migrazione operaia e quella degli studenti verso l’Università c’è ovviamente una differenza, poiché gli studenti erano di gran parte origine borghese, anche se per la prima volta erano massicciamente presenti. Questo quadro generale si può delineare anche per altri paesi, come Italia, Germania, Giappone, ossia tutti paesi che avevano perso la guerra, e allo stesso tempo avevano raggiunto ritmi di produttività più accentuati. Bisogna tener conto di questo fatto, perché così capisce come si è effettuata nell’arco di dieci anni circa, una grande trasformazione nei comportamenti e nelle aspettative. La tradizionale passività contadina, che si esprimeva di tanto in tanto e poi ricadeva nel silenzio e nell’accettazione, non c’era più. I contadini diventati operai, ad esempio, nella città di Torino, avevano un rapporto con il loro lavoro, che era di convenienza: andavano in fabbrica non perché fossero attirati, ma perché questo lavoro costituiva la loro più immediata capacità di avere dei soldi. Nelle campagne italiane e in quelle del Sud in particolare, non si moriva di fame ma la gente che partiva era quella che stava meno male, e quindi il rapporto con la fabbrica, in particolare a Torino, era un rapporto di mera convenienza, basato sul salario diretto e indiretto.

Per questo i contadini si confrontano con il problema della terra, nel senso che perdono la possibilità di vivere con essa, l’imponibile di manodopera non c’è più, e i proprietari tendono a minimizzare la presenza di lavoro agricolo; mentre gli operai sono confrontati con la vita di fabbrica rispetto alla dimensione contadina, gli studenti si confrontano con la divisione del lavoro. In questo quadro, infatti, si inserisce la loro politicizzazione che ha diverse origini: la principale è stata il diffondersi di un atteggiamento critico per quella divisione del lavoro che appare più eclatante, ossia quella tra lavoro manuale e lavoro intellettuale.

Sono dei temi, come possiamo vedere, che oltre ad avere un valore politico culturale, sono significativi dal punto di vista della totalità, del modo di essere e dell’umanità. Sono tutte grandi trasformazioni sociali, che avvengono grazie alle loro diramazioni politiche: abbiamo gli operai e i contadini che hanno rapporti non sempre felici con il PCI e i sindacati; per quanto riguarda gli studenti invece ci sono le istituzioni universitarie, in particolare l’UGI, l’Unione goliardica italiana, che tradizionalmente erano associazioni goliardiche, le quali diventano rapidamente organizzazioni politiche degli studenti, riportando per essi la stessa divisione politica che c’è nel paese; l’UGI è di sinistra, poi c’è la Democrazia Cristiana e infine varie piccole associazioni di estrema destra. Questa è la situazione in cui si viene a creare una generazione di intellettuali che mette in discussione non le singole regole, ma la regola principale della società italiana, ossia quella della produzione di profitto, che tradotto in termini di senso comune, corrisponde alla possibilità di arricchirsi, che riguarda sia chi si impadronisce di capitale che chi si arricchisce per mezzo di uno stipendio fisso e sicuro. In questa situazione gli elementi più interessanti si traggono dal comportamento degli studenti, poiché si confrontano con una divisione del lavoro a cui non erano abituati e che era in crisi. Le Università europee, infatti, rivedono il loro corso e il rapporto che avevano con il mercato del lavoro, motivo per cui scoppiano le occupazioni che toccano problemi fondamentali, di tipo propriamente filosofico ed epistemologico. Se è vero, infatti, che gli studenti sono soliti espimersi all’interno delle Università, in questo caso si mette a critica il significato di Scienza, chi decide dei programmi scientifici, e qual è il suo funzionamento. Accade spesso, infatti, che gli esami siano una sorta di controllo sull’addomesticamento dello studente.

Da qui il passaggio successivo è l’incontro dei giovani operai. Bisogna tener conto che la crisi delle campagne finisce col mandare i figli dei giovani contadini a lavorare in fabbrica, processo che avviene perché questo lavoro non è più pesante di quello contadino e con esso si può ottenere un salario. Allo stesso tempo il lavoro in fabbrica è osteggiato perché introduce un tempo a cui i nuovi operai non sono abituati. Nella campagna, infatti, il tempo è sostanzialmente scelto e cadenzato da colui che lavora, dal contadino, non ha una scansione in minuti; in fabbrica, invece, sono necessari gesti coerenti coi movimenti delle macchine e questo rende il tempo «vuoto». Inoltre, in campagna si può decidere di non coltivare un giorno o una settimana, in fabbrica questo non è possibile.

È il cambiamento della temporalità che stravolge e radicalizza questi contadini diventati operai, in un processo simile a quello che possiamo ritrovare nell’Università a proposito della divisione del sapere in discipline.

Per Università, come si presuppone già dalla parola stessa, si intende un’unità delle diverse discipline che abbiano tutte un verso, che abbiano come riferimento la conoscenza come fatto unitario. Invece il capitalismo introduce la segmentazione del lavoro, non solo in fabbrica, ma anche nelle Università. Si tende ad aziendalizzare e ad avere corsi legati alle progressioni, ad avere specializzazioni preventive, e a perdere quella forza del sapere che aveva un suo carattere unitario. Alla base di tutto ciò c’è la legittimazione della divisione del lavoro nei diversi saperi, mentre la tradizione universitaria era quella di unificarli, non rifiutando la specializzazione, ma facendo di essa un momento di un sapere più generale.

Qui si va a toccare un elemento fondamentale della legittimazione gerarchica dell’Università: la divisione in saperi che non comunicano tra di loro fa sì che si perda l’importanza dei due filoni principali di formazione, la storia e la matematica.

Nella nostra tradizione del conoscere, infatti, il racconto, e quindi la storia, cioè quello che abbiamo incontrato da bambini, continua ad essere un elemento fondamentale per la comprensione del mondo. L’altro modello di conoscenza è la forma: ad esempio in fisica il piano inclinato è uno strumento creato per capire e per maneggiarlo concettualemente non c’è bisogno di storia, basta semplicemente seguire quello che oggi vengono chiamati algoritmi e protocolli. Pensandoci bene, la conoscenza in termini di algoritmo prevale nella vita sociale e economica: il meccanico, ad esempio, non conosce la termodinamica.

Questo per dire che la Scienza è stata usata soprattutto come applicazione, e dunque come generatrice di tecnica: quest’ultima non ha bisogno di capire perché basta la sua capacità di imitare.

Questa constatazione si può verificare nella vita quotidiana. Ad esempio il confine culturale degli specialisti e degli scienziati è chiuso per sempre a differenza di quanto accadeva precedentemente. L’Università medievale aveva infatti un carattere maggiormente unitario; ancora oggi in America, le Università migliori, che sono due o tre, hanno come fondamento una visione totale del sapere, dove gli studenti di ingegneria fanno degli esami di lettere e quelli di lettere svolgono delle prove di fisica. Ovviamente questo non basta a dare una dimensione unitaria al sapere, ma è significativo che i paesi capitalisticamente più sviluppati abbiano conservato un impianto medievale in cui l’universalità del sapere resta elemento fondamentale.

Tra gli obiettivi del movimento nato nelle Università c’era proprio quello di tentare conquistare l’unità del sapere, che si univa al tentativo di rinsaldare lavoro intellettuale e lavoro manuale. Così succede che i giovani operai meridionali facciano amicizia con i giovani studenti meridionali che hanno la loro stessa età.

L’operaio non era come l’artigiano perché segue meccanicamente dei compiti che gli vengono ordinati. L’esempio tipico di quegli anni è l’operaio di linea – dove quest’ultima è la porzione di fabbrica su cui vengono messi gli oggetti, come le automobili, da montare – che compie un lavoro completamente atomizzato, è assente quell’elemento colloquiale che aveva caratterizzato la produzione nei vecchi stabilimenti; ciò rende più semplice la penetrazione delle parole d’ordine degli studenti che davanti alla fabbriche rivendicano una diversa modalità di lavoro. Ci sono anche alcune esperienze, soprattutto in Francia, di giovani studenti e giovani operai che creano delle cooperative utili a mostrare che si può lavorare in maniera differente, puntando sulla cooperazione e non sulla concorrenza.

L’unione tra studenti e operai ha un effetto etico, morale, che dispiega un mondo, favorendo la creazione di amicizie fraterne tra giovani operai e meridionali e giovani studenti, anche loro in parte provenienti dal Sud Italia. È questa la vera carica sovversiva in senso positivo di quegli anni, un’unità tra operai e studenti in cui i meridionali hanno avuto un ruolo importante. Non sto parlando semplicemente di accordo tra leader, ma di una vera e propria educazione sentimentale, attestata anche, lasciatemelo dire, dal numero di matrimoni tra studenti e operai. Questo aspetto, secondo me, ha cambiato nel profondo i sentimenti della società italiana.

Se dovessimo riassumere cosa stava accadendo a questa generazione, nata verso gli ultimi anni della guerra o nel dopoguerra, possiamo dire che essa affrontava uno dei temi che ancora oggi costituiscono un aspetto centrale delle nostre vite, ossia quello dell’automazione. Quello che la FIAT ha fatto, non solo in Italia ma anche per esempio in Russia, è stato sperimentare forme di automazione che neanche in America venivano ancora praticate; l’azienda torinese, inoltre, è stata all’avanguardia da un punto di vista capitalistico, elemento che ha ridotto il fabbisogno di operai. Agnelli aveva compreso infatti che l’abbondanza di manodopera che si era creata in conseguenza dell’agricoltura avrebbe comportato un afflusso massiccio di persone a Torino, più di quanto la città fosse abituata ad ospitare. L’automazione serviva per «scartare» una parte di quel proletariato, ed aveva delle conseguenze anche sul lavoro intellettuale. Vi faccio un esempio semplice: poniamo caso che io vi chieda se conoscete Masaniello. Fate uno sforzo mentale per ricordarvi chi sia, collocandolo in un ambiente preciso, in un dato periodo storico, è il modo tradizionale con cui attiviamo i ricordi, facoltà fondamentale del pensare. Oggi invece si è soliti cecare sul telefonino per ricevere tutte le informazioni possibili; la cosa drammatica è che una volta chiuso il dispositivo, non rimane nulla impresso in mente perché le reti neuronali, per dirla usando un linguaggio scientifico, non sono state messe al lavoro come quando bisogna elaborare il ricordo. Quindi ogni ricordo che c’è nella nostra testa è frutto di un vero e proprio lavoro ancorché inconsapevole; questo è solo un esempio di come l’automazione ha trasformato prima le fabbriche, rendendole via via luoghi in cui la presenza umana è secondaria, poi il lavoro intellettuale, sempre sulla stessa scia della specializzazione.

Quindi quella generazione ha lottato e perso contro la forma di industrializzazione moderna, non solo in Italia ma anche negli Stati Uniti, in Giappone e Francia. Il ’68, data simbolica in un processo iniziato prima, è stato simile al 1848, segnando un passaggio d’epoca, per alcuni versi non ancora completato.

Aggiungo un aneddoto, per aiutare a ricordare… quando dico che il tempo contadino e quello operaio erano profondamente diversi, intendo che il contadino non era perseguitato dall’inesorabile fretta per cui un gesto di lavoro deve essere fatto in cinque o in sei secondi, e quindi egli in realtà era più vicino all’uomo che alla macchina, contrariamente all’operaio. Il contadino ha un tipo di saggezza perché non è specializzato, era capace di costruirsi la casa da solo ed era un mezzo veterinario. A volte sbagliava, ma il rapporto con l’animale esisteva a differenza di oggi, dove essi non vivono per essere mangiati: questo, se ci fosse ancora una religione dovrebbe essere considerato un peccato mortale, ed ovviamente è una responsabilità di tutti e non solo degli allevatori. Citavo questo esempio per dirvi che il tempo e il rapporto con gli animali, con le piante e con la natura era diverso perché basato sulla tradizione, seppur il contadino non sia stato istruito in una scuola.

Negli anni ’60 tutto ciò ha comportato una cosa curiosa: che gli operai di un determinato paese, supponiamo di Acri in Calabria, il giorno del Santo patronale non andavano in fabbrica. Ci sono voluti quasi dieci anni di minacce e licenziamenti per abituare gli operai a rispettare il tempo della fabbrica anche il giorno della festa del patrono, che era per loro l’immagine della religiosità.

Un altro aspetto interessante, sempre relativo al tempo, è che operai e contadini spesso si trasferivano a Torino con la famiglia insieme al prete, conservando di conseguenza un legame in quanto paesani, sostitutivo del legame sindacale. Non avevano mai conosciuto il sindacato, e in alcuni casi bisogna dire per loro fortuna: perché la solidarietà di paese era enormemente più forte, e più capace di esistere. Ci tenevo a fare questi due esempi per potervi dire cosa significasse concretamente “tempo diverso”…

L’ultima riflessione è sulla Scienza. In quegli anni in Italia e negli altri paesi europei abbiamo uno sviluppo molto intenso della ricerca; allo stesso tempo i giovani cominciano a criticare l’organizzazione della ricerca, non solo per gli stipendi che consentivano appena di vivere in una città che non fosse la tua d’origine, ma per un altro aspetto che coinvolgeva anche i professori: la critica alla Scienza in quanto tecnoscienza.

La costruzione di grandi laboratori, aveva trasformato la ricerca, che una volta avveniva in luoghi più piccoli, spesso negli scantinati dell’Università, con un rapporto tra i ricercatori anche di tipo amicale o inimicale, una relazione tra corpi, basata sul fatto di essere nello stesso posto, di doversi esprimere anche per gli altri. La Scienza era diventata nel frattempo una vera e propria fabbrica con tutti gli aspetti di divisione che gli sono propri: per fare un esempio, un fisico delle alte energie non sapeva niente di una lampadina.

I ricercatori in quegli anni hanno scioperato ed i professori erano indignati del fatto che lo sciopero si potesse introdurre come una cosa plebea, nei laboratori di ricerca più importanti del mondo.

Bisogna aggiungere che poi perdemmo su tutta la linea e che i ricercatori sono ritornati ad essere come prima; ma l’importante è stato aver provato, un tentativo che resterà nella nostra memoria e soprattutto nella storia del paese, per cui ci saranno senz’altro altri tentativi…

La Scienza non è più quella dell’Ottocento, i professori universitari non sono più appartenenti unicamente alla grande borghesia. Quindi se da una parte l’Università si è proletarizzata, con degli inconvenienti che sono spesso, per l’appunto, la mancanza di cultura e la specializzazione, dall’altra è diventata più umana, in cui c’è molta più gente che si iscrive. Entrando in un dipartimento negli anni ’60, ti rendevi conto subito di come l’Università appartenesse a tutti gli studenti. Ora invece non è più di nessuno, ma proprio per questo può tornare ad essere degli studenti, di quelli che lavorano, con tutte le riforme che sarebbero necessarie.

Affronterei poi, un ultimo tema, sugli anni decisivi che sono stati il ’74 e il ’75 che hanno cambiato tante cose, a partire dalla considerazione che abbiamo perso. Cambia anche il clima che si respirava in Unviersità e fuori, dopo il rovesciamento del ’68.

Per fare un esempio storicamente fondato, “Potere operaio” era un gruppo di studenti e di operai giovani che avevano come piattaforma strategica il rifiuto del lavoro salariato del regime capitalistico; e c’erano tutti i motivi per farlo, perché una parte di loro era effettivamente operaia. Quando arriva la crisi del petrolio e la FIAT comincia a licenziare, la parola d’ordine del «rifiuto del lavoro» diventa, per così dire suicida. Faccio questo esempio per dirvi come una crisi di portata internazionale, la prima del dopoguerra, che è stata la crisi del petrolio, ha di nuovo ribaltato i rapporti in fabbrica; per la prima volta ci sono stati cortei fatti dai capi squadra, coloro che stavano gerarchicamente sopra agli operai e ne controllavano i ritmi di lavoro. È rispetto a questo panorama che bisogna ricomprendere la nascita del fenomeno della lotta armata: alla sconfitta s’aggiungeva l’assenza dei partiti riformisti diventati guardiani della proprietà e del capitale.

Quindi si trattava di masse di migliaia di giovani che avevano perso il loro riferimento strategico, ossia la lotta per non essere licenziati, e subivano l’inasprimento della repressione padronale. Difronte a ciò, alcuni di loro hanno scelto la lotta armata. Non mi soffermo sul perché questa scelta fosse sbagliata, mi limito a ricomprenderne le ragioni, poiché si trattava delle stesse persone che per dieci anni avevano lottato nelle Università e nei quartieri e perché, come nelle guerre civili, l’avversario non si limitava a voler vincere ma voleva stravincere. La lotta armata si distingue dalla guerra civile, fatta da agguati e uccisioni: c’è una differenza di livello. Scegliere la guerra civile era un errore evidente, poiché non c’era possibilità di confronto tra l’apparato militare dello Stato e quello delle Brigate Rosse, per citare ad esempio un’organizzazione più nota…».

 

Discussione

Eleonora (Studentessa): «Può approfondire il concetto di Scienza che ha citato prima? ».

 

F.P.: «Il cuore della critica che il movimento degli studenti, dei ricercatori e degli operai faceva era che la Scienza era una tecnoscienza, cioè i filoni di ricerca che venivano coltivati e finanziati erano quelli che interessavano il complesso militare industriale. Notate che questo nome non è un nome affibbiato dai sinistri, è il modo in cui Eisenhower, già Presidente degli Stati Uniti, e aveva chiaro che al di là degli aspetti istituzionali c’era un settore militare industriale, che si era impadronito dell’accademia. Per cui, a partire dalla costruzione della bomba atomica, le Università americane, soprattutto per quanto riguarda le discipline scientifiche, sono state subordinate alle necessità del settore prima di tutto militare, per la concorrenza con l’Unione Sovietica, ma poi anche dalla necessità di fornire all’industria nuove tecnologie volte a maggiorare e rendere più forte il controllo sugli operai, e a risparmiare il lavoro operaio. Quindi il complesso militare industriale permette di fare ricerca nell’interesse loro, tenendo soggiogati gli operai e negando loro il posto di lavoro. Bisogna aggiungere che questo è l’aspetto esterno, poi c’è un aspetto che riguarda la crisi della Scienza che viene dalle sue stesse categorie. Per esempio la fisica, basata sul linguaggio della matematica, pretende di essere la principale scienza della natura, basandosi su un qualcosa che nel mondo moderno nessuno ha mai visto, come gli elettroni, che sono particelle ipotetiche volte a spiegare fenomeni; la Scienza stessa non vuole capire la natura, ma prevedere gli esperimenti che danno la possibilità di creare nuovi strumenti tecnici. Il laser, per esempio, questa concentrazione estrema di luce che non si sparpaglia, non è una cosa che sta in natura, ma una costruzione degli esseri umani a partire dalla teoria elettromagnetica, che però non ha un fondamento sperimentale come per la Scienza di una volta. Avrete sentito come altre scoperte sono il risultato di qualcosa che non si rivela direttamente, quindi per dirla in termini epistemologici, non ha le caratteristiche popperiane. Questo ha reso sempre più astratta la Scienza, l’ha staccata da un senso comune, e l’ha messa in mano al ministero dell’industria e della difesa. Quello che proponevano gli studenti di allora, è, invece, di partire non dagli atomi, che nessuno ha mai visto, ma da alcune considerazioni di senso comune, come suggeriva Einstein. Se aprite un libro di fisica, vi chiedete come questi esperimenti possono essere capiti non sulla base della teoria fisica, ma sulla base dello sviluppo della società. L’elettricità si è introdotta perché era un elemento di dominio e di comodità nel mondo; quindi è possibile pensare ad una Scienza che non sia così invasiva, fatta per il ministero dell’industria e per i capitalisti, ma che recuperi gli elementi razionali che nella Scienza attuale ovviamente ci sono, altrimenti non si capirebbe il suo successo. Quindi il compito delle nuove generazioni, non è solo criticare, ma tentare di praticare una Scienza nuova. Così come gli atomi aiutano a capire gli esperimenti come un trucco di calcolo, e non come delle entità che veramente esistono, perché se esistessero veramente sarebbero in contraddittorio con la nostra logica fondamentale e locale: secondo i fisici un elettrone può essere contemporaneamente in due posti separati, solo che è più alta la probabilità di stare in un posto rispetto ad un altro. Questa base è in contraddizione totale con il senso comune e quindi è destinata non solo a spaventare ma anche a isolare gli scienziati dal resto dell’umanità».

 

Luca (Studente): «Cosa spingeva i giovani alla lotta politica e ad avvicinarsi alla Scienza per cambiare la società? La Scienza veniva intesa come uno strumento in funzione della lotta oppure era un’aggiunta?».

 

F.P.: «Possiamo dire che ci sono stati diversi atteggiamenti… al mio liceo ad esempio, si era sviluppata una curiosità per un tipo di fisica legata alla filosofia, in quanto ai tempi di Galileo non esisteva la vera e propria fisica ma la filosofia della natura. Un libro famoso di Newton si chiama ad esempio I principi matematici della filosofia naturale, che conferma come la fisica era rivolta a comprendere la natura con degli elementi scientifici, e non qualitativamente o emotivamente. Ad esempio gli ellissi, le parabole, le equazioni, sono uguali e determinati per tutti; questo accoppiamento filosofia, matematica, esperimento aveva un grande fascino su di noi, perché teneva insieme lavoro manuale, esperimento, lavoro intellettuale,matematica e filosofia, come amore del sapere, nel senso di comprendere perché mettiamo al primo posto il sapere, anziché il guadagno o il denaro. Noi eravamo frutto della generazione che aveva degli ideali, che poi siano stati maltrattati fa parte della storia. Poi all’Università le cose son cambiate, in parte, perché non avevamo più dei corsi in cui si mettessero insieme filosofia e fisica, salvo l’attitudine di qualche professore, che era aperto da questi interrogativi… Parisi, fisico che ha vinto il premio Nobel, è uno degli esempi che dimostra come i fisici teorici parlano di temi appartenenti alla sfera della filosofia mentre i fisici sperimentali di aspetti che conosce il fabbro, per quanto vi sembri strano».

 

Carlo (studente): «Perché ha parlato della specializzazione come confine culturale chiuso? Non ci si può specializzare pur avendo una visione generale del sapere?».

 

F.P: «Prendiamo un esempio o qualcosa che ci è familiare, come l’Università. Voi potete avere dei corsi specializzati, che arrivano ad occuparsi di campi molto specifici, come ad esempio lo studio dello sviluppo della formica come animale sociale. Potete arrivare a conoscere tutto sulle formiche, ma questo significherebbe sapere tutto su nulla, perché non avverrà nessun progresso nella comprensione delle formiche, specializzandosi solo su di esse. Molte delle cose che noi sappiamo sono state scoperte proprio perché abbiamo portato metodi di una disciplina in un’altra disciplina e questo ha finito col  scoprire aspetti nuovi e inaspettati, e ciò non vale solo per la fisica ma anche per la matematica. Ad esempio il professore di fisica applica questi criteri generali che permettono di inquadrare le formiche come insetti a dei casi particolari; questo permette di avere un’idea epistemologica del sapere, in cui il sapere passa attraverso il giudizio che diamo delle singole discipline. Sapete, in fabbrica per esempio ciascuno fa il suo pezzetto di lavoro, e chi ricostruisce l’oggetto unitario alla fine dei diversi lavori è il padrone, così succede col sapere: le diverse discipline sono poi messe insieme dal ministero, dagli enti militari e industriali che pagano i ricercatori, e quello che si perde è la parte più interessante del lavoro scientifico, cioè la vocazione. Nel lavoro scientifico è importante la testimonianza della vocazione, per il piacere che come un’anima vive dentro l’uomo, da cui impara ad essere molto più gratificato dall’aver risolto un problema. Delle volte quando vi capiterà di risolvere un’equazione, sentirete una gratificazione che viene direttamente dal cervello, dai vostri neuroni, siete gratificati dal comprendere, perché noi siamo fatti in modo che il capire dia soddisfazione, così come siamo fatti in modo che l’amore passi attraverso il piacere, come trucchi della natura. Il capire nasce come un’attività autonoma, che non la si fa per i soldi, ma la si fa perché la si ama, per questo l’aspetto più importante dell’Università consiste nel dare a ciascuno il suo destino».

 

Francesca (studentessa): «Quanto della sua eredità politica e della sua storia passata hanno condizionato la sua visione della vita, della lotta e delle idee in merito allo sviluppo e alla condizione politica e sociale di un tempo? Cioè quali sono secondo lei i presupposti per ritornare ai valori per cui hanno lottato i giovani un tempo, che lei ha vissuto, e che oggi invece sono pervasi da principi mascherati dall’individualismo e dalla mancanza di ideali?».

 

F.P.: «Da questo punto di vista la storia ci aiuta molto a comprendere. Questi movimenti irrompono spesso nel corso del tempo, nel senso che dieci anni prima non c’era nulla, e gli anni seguenti c’è stata un’estrema ricchezza di lotte, di critiche, di ribellioni. Io credo che la regola sia quella di tenersi pronti, non avere un’idea paranoica di costruire l’avvenimento, perché nessuno di noi è in grado di costruire avvenimenti storici, ma che quando arriva coinvolge tutti, sia coloro che vogliono essere coinvolti, sia coloro che non vogliono o che ne farebbero a meno. È un modo probabilmente legato alla società umana, che comunica così, anziché per via più prudenti, in un breve spazio di tempo in cui avvengono grandi cambiamenti, che poi in parte vengono rimangiati. Pensiamo alla Rivoluzione francese, verso la fine del Settecento, che nel giro di vent’anni ha conosciuto Napoleone, esattamente il contrario di quello che la Rivoluzione aveva voluto prima: un uomo certamente capace, ma un despota; così succede anche per la Rivoluzione bolscevica. Però nello stesso tempo la Francia di dopo la Rivoluzione francese non è la Francia feudale, e ci sono delle cose, come i diritti umani, che sono penetrati, e quindi sono come una piattaforma per avere altre cose. Io credo che la regola deve essere quella di fare quello che ci sembra giusto, per questo anche rischiare, e d’altro canto, nello stesso tempo, non pretendere eventi paranoici. C’è una differenza che si trascina tra fine e mezzo: per esempio il Pci faceva delle cose come accordarsi in consiglio comunale o a livello di parlamento, un po’ vomitevoli, che giustificava dicendo che era un modo per realizzare una legge migliore per i salari. Ma è sbagliato dividere la nazione in fini e mezzi, questa è una cosa machiavellica, che va bene per i costruttori di guerra e di distruzione, ma non va bene per il popolo, per il quale il mezzo deve essere lo stesso che è il fine. Nel lottare quindi dobbiamo costruire forme organizzative che rispettano la nostra idea di libertà, che non corrisponde all’essere tutti uguali, ognuno è diverso dall’altro, e sarebbe drammatico il contrario, ma il modo di tener conto delle nostre differenze tramite ciò che si chiama equità, a ciascuno il suo secondo le sue capacità e i suoi desideri, e non a tutti la stessa cosa. Marx diceva: “Dare lo stesso piatto di fagioli a colui alto 1.50 e colui alto 2 metri è sbagliato”. E la democrazia borghese ha molto esasperato questa idea di uguaglianza. Nella vita l’importante è che le differenze si realizzino. Quindi come vi dicevo prima, la linea rispetto al problema posto, è quella di organizzarsi in comunità perché la comunità è capace di lottare e far crescere la capacità di dibattere. Voi stessi farete un salto nella formazione, quando imparerete a parlare in pubblico perché c’è una parte di voi che esce fuori solo se parlate in pubblico, ed è la parte sociale che la natura vi ha dato che spesso non viene usata».

 

Giulia (studentessa): «Quali caratteristiche hanno avuto i conflitti degli anni ’70 in Calabria? Si sono sviluppati solo in ambiti agricoli o hanno avuto altre caratteristiche?»

 

F.P.: «In Calabria lo svolgimento delle nuove realtà è venuto dal mondo agricolo. Come avevo detto all’inizio, è stata l’emigrazione contadina a distruggere la vecchia economia agricola della Calabria, in cui c’era il grande proprietario, i contadini che erano devoti al proprietario, i mezzadri, ma anche l’esperienza della città contadina. Nella Valle Padana ad esempio non esiste l’esperienza della città rurale, perché i contadini abitavano nella campagna, mentre nel Sud il contadino andava la mattino al suo campo, e tornava la sera a dormire in città. Questo era l’assetto millenario della città del Sud, fatto da città piccole. Cosenza ad esempio ha avuto fino a metà dell’Ottocento 8000 abitanti pur essendo una città culturalmente importante. Erano città dove si sviluppava una capacità artigianale, poiché ogni città distava dall’altra ore di cammino; questo isolamento ha sviluppato una certa capacità non solo relativa al conoscimento della terra, ma anche d’artigianato, come per i fabbri, costruttori per la pesca e così via. Gli anni ’70 dunque hanno provocato uno smantellamento definitivo dell’economia calabrese, dei saperi connessi a questa economia, e dell’umiliazione dei portatori di questi saperi che si sono ritrovati vecchi ma inutili. Di conseguenza tutta la gerarchia era basata sull’anzianità, invece con le trasformazioni degli anni ’70 diventava importante solo la capacità di lavoro ripetitivo, in cui non dovevi pensare, dovevi solo lavorare. Questo secondo me ha rappresentato un’estrema umiliazione per la storia della Calabria, e un desiderio di vendetta; nella scuola che ho fatto è passata l’idea che l’Unificazione dell’Italia sia stato un grande evento per tutti gli italiani, ma non è andata così: l’Unificazione del Sud è stata fatta con la violenza e senza il consenso delle persone, è stata la distruzione dell’economia del Sud, e naturalmente l’emigrazione ha poi completato questo depauperamento di cervelli, cosa che continua: una porzione importante di laureati meridionali va a lavorare tutt’ora all’estero o in Val Padana. Allora gli anni ’70 sono questi anni di passaggio, e chi li ha vissuti ha subito secondo me una mutilazione psicologica; anche se ora ci sono segni interessanti, uno dei quali ad esempio in Basilicata, dove son presenti ben dieci paesi; come Acri, in cui sono tornati quei giovani andati a studiare altrove, e che una volta laureati alla fine pagano l’affitto e poco altro, mentre se tornano a Potenza trovano la terra trascurata e abbandonata dei genitori e dei nonni, che è sempre la. Se quindi si cambia atteggiamento, si iniziano a vedere tutte quelle cose, che come dice il filosofo non sono accidiose, ossia quelle per cui ciascuno disprezza tutto quello che già ha. Se disprezziamo quello che già abbiamo siamo in peccato mortale, e anche se il peccato mortale non esiste, serve per capire quando un certo sentimento fa nido dentro di noi e condiziona la nostra vita, così il disprezzo che i meridionali hanno per loro stessi è possibile sormontare non a parole, ma con la lotta e le vittorie».

 

Valerio (studente): «La mancanza di idealismo è causato soprattutto dal pensiero unico del capitalismo, a cui fa comodo non avere giovani che lottano per i propri diritti, così da poterli controllare e pagare meno? Quindi è soltanto una questione economica o anche una questione storica?».

 

F.P.: «La seconda che ha detto; poiché il capitalismo ha sempre cercato in qualche modo di svalutare il lavoro, perché la svalutazione comporta costi più bassi, e quindi margini di guadagno più alto. Da questo punto di vista quello che succede oggi non è diverso da quello che succedeva 80 anni fa. Quello che invece riguarda la maturazione di un’alternativa che sia come partorita dall’interno, fondamentale è ciò che avviene, ossia nessuno secondo me può prevedere quando avverrà, anche se quando accadrà bisognerà cogliere l’occasione. Comunque avrei difficoltà nell’individuare delle anticipazioni se non a posteriori, per esempio quello che succedeva alla FIAT negli anni’60 era prodromico a quello che succederà poi all’inizio degli anni ’70, e cioè quando il sindacato aveva perso di peso, esso era criticato per la sua arrendevolezza, quindi all’inizio son sembrati fenomeni circoscritti, poi grazie alla fabbrica si son diffusi per contatto fisico. Per tale ragione, qualcuno poteva intravedere che la crescita della massa degli operai avrebbe facilitato l’atteggiamento di rifiuto. La parola d’ordine del rifiuto del lavoro constata che in fabbrica gli operai meridionali rifiutavano quel tempo della loro vita trasformato in tempo di fabbrica, cosa prepolitica e emotiva. Secondo me le rivolte nascono da sentimenti che si diffondono, come in Francia è stato nella Rivoluzione francese, il sentimento della località, il fatto di decidere nelle diverse città e non aspettare che Parigi decidesse: anche per noi è auspicabile che parta un movimento basato sulle città».

 

Maria (studentessa): «Date le ormai troppe differenze di pensiero fra giovani e adulti, sarebbe possibile una seconda coalizione tra le classi come nel Bienno del ‘68/’69? Se sì, il punto d’incontro fra le classi potrebbe essere di natura ideologica e legato alla vita sociale, o è la natura economica legata alla vita lavorativa che può coniugare giovani e adulti?».

 

F.P.: «Io sarei dell’idea che l’alleanza operai e studenti che si è verificata legata a due circostanze, quali l’industrializzazione e l’aumento del numero di giovani operai, e l’esperienza universitaria che si apriva a migliaia di giovani, ad oggi non esistono più. Come gli operai ci sono ancora ma sono una parte minoritaria del paese, allo stesso modo il peso sociale dei contadini è enormemente diminuito. La stessa cosa accade oggi con gli studenti, il numero degli studenti iscritti all’Università si è stabilizzato, anche se in Italia per rispettare le medie europee, avremmo bisogno di allargare l’educazione universitaria. Io credo che quindi una nuova ondata ci sarà come alleanza fra ceti e classi diverse, ma non più tra gli operai e gli studenti, che non credo si ripeterà più, mentre invece bisogna pensare a qualcosa di più politico che sociale: invece di organizzare le moltitudini per le loro differenze in una forma di lotta compatta, è più facile partire dalle istituzioni rappresentative, cioè riuscire a trovare un modo per vivere in città senza questo malessere e mal di vivere di oggi. Intervenire nella vita della propria città, costituendo dei comitati, delle assemblee di quartiere, è il primo passo, anche se inizialmente vengono in pochi, col tempo verranno in tanti. E voi così date la possibilità alla gente di esternare questo male di vivere, che è una delle cause maggiori di infelicità, perché preclude il senso della vita, ed è talmente spropositato rispetto alle possibilità che abbiamo come specie umana, che lo considererei un peccato. Quindi io ritengo che una ripresa della contestazione in Italia avverrà richiedendo più democrazia, in termini di partecipazione. Quello che è importante è che la gente possa decidere della propria vita, e attorno a questo si dovrebbe organizzare in questo scorcio di millennio un nuovo potente movimento che potrebbe abbracciare anche altri paesi, dato che la città risiede all’origine della civiltà europea, tanto da noi come tanto in Grecia, in Germania etc.».

 

Luciano Vasapollo: «Franco, volevo concludere con una considerazione; ho visto che le domande dei ragazzi riportano spesso la questione economica, magari per il fatto che con me fanno Politiche Economiche, quindi viene immediato, però io penso che la questione fondamentale è dare ai ragazzi, ai giovani, agli studenti, ai militanti giovani, una capacità di sviluppare in maniera sistematica una visione organica della realtà… quello che manca è questo, perché vi abituano ad un tecnicismo, ad una specificità e ad una considerazione di singoli elementi, mentre i singoli fatti devono essere sempre collocati all’interno di un contesto. Spesso mi domandano cosa facevamo al Potere operaio, che facevamo negli anni ’70, come facciamo a rifare le stesse cose; il problema è il contesto, dal  particolare dei fenomeni fino ad una dinamica generale dell’attuale forma politica economica, sociale della società e del modo di produzione nel quale viviamo. Quindi giungere ad una capacità di analisi e di astrazioni, che ci permetta di riconnettere sempre causa ed effetto, ci rivela che la realtà che ci circonda quindi non è casuale, è il prodotto di relazioni umane, di materialità e di spiritualità, e anche se vi sembrerà strano che un marxista come me parli di spiritualità, è una complessità di connessioni che si condizionano reciprocamente, esprimono una dinamica finale, e che se noi non riusciamo a capire fino in fondo risultiamo come oggetto e fatto pratico. Per poter modificare la realtà dobbiamo partire da quegli elementi semplici, elementari: non bisogna fare gli scienziati sociali studiando la realtà, ma dobbiamo capire come inserirci nella realtà, come agire in essa, nell’oggettività, per modificarla, per orientarla e darle un senso razionale, cogliendo le varie potenzialità contenute in essa. Franco, io penso che il problema è il metodo e la dialettica; mi è piaciuta molto la lezione di oggi perché mi son ricordato di quando ero un ragazzetto e ti sentivo a Centocelle, e parlavamo spesso di recuperare nella ricerca la teoria della conoscenza. Dobbiamo ritrovare quel qualcosa che è stato rimosso dalla formazione militante e universitaria, dobbiamo ritornare a conoscere una teoria della conoscenza e un metodo volto a far sì che l’azione individuale entri in dialettica con il collettivo. Questa è l’unica cosa che mi sento di dire, dopo la bellissima lezione di Franco».

 

F.P.: «Non posso che essere d’accordo, cosa che testimonia un percorso, oltre che un susseguirsi di argomentazioni logiche, anche storico; quindi ringrazio tutti per l’occasione che mi è stata data».

 

* * *

Franco Piperno è stato recentemente protagonista presso il comune di Cosenza dell’ideazione e creazione del nuovo planetario. È professore di Struttura del materia e insegna Astronomia visiva all’Università della Calabria. Ha insegnato Fisica presso numerose università italiane e alcune delle più prestigiose università del mondo. È altresì noto per la sua partecipazione alle vicende politiche degli anni Settanta in Italia. Cura per Machina la sezione «sestanti».

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