Sdoganare il conflitto nucleare? Un appunto sulla crisi coreana
di Raffaele Sciortino
C’è un elemento di parziale novità nell’attuale crisi coreana, qualcosa che seppur non a breve potrebbe andare oltre la sequenza già vista in episodi precedenti. Per coglierlo, ovviamente, bisogna lasciare a quei poveretti cui una rilettura della fiaba (per bambini?) sul lupo e l’agnello andrebbe consigliata dal medico nonchè agli interessati dell’establishment politico-mediatico, che tanto non ci leggono, la narrazione per cui la Corea del Nord dotata dell’arma nucleare metterebbe a rischio la pace mondiale e minaccerebbe direttamente addirittura l’America.
Breve premessa indispensabile. Si può pensare -nel supermarket postmoderno delle opinioni, tutte diverse e tutte omogenee- quello che si vuole dell’ordinamento politico e socio-economico della Corea del Nord, ma nessuna analisi politica seria potrà negare che da un punto di vista strettamente nazionale (ovvero: nazional-borghese) Pyongyang ha avuto e ha ragioni da vendere nel tenersi stretto quel minimo di armamento nucleare cui è riuscita ad accedere. Si chiama, in linguaggio tecnico, deterrenza: minaccia di ritorsione nucleare contro l’uso di un first strike avversario. Del resto, vista da qui, la strategia Usa degli ultimi decenni di regime change e/o smantellamento diretto di stati quali Iraq, Jugoslavia, Somalia, Libia, oggi Siria (domani Iran? osso più duro), tutti privi di difesa nucleare, non può che suonare come un permanente memento mori. Qualcuno potrebbe negarlo? (Anche se a contare nella questione coreana sono stati fin qui anche altri importanti fattori, come la posizione di Pechino e un certo interesse statunitense a tenere divisa la penisola per rinfocolare ad arte le tensioni nell’area imponendo come indispensabile la propria presenza militare agli alleati).
Detto questo, la deterrenza nucleare nord-coreana secondo gli esperti è nei fatti minima, limitata al corto raggio e quantitativamente risibile rispetto a ben altre dotazioni a tutti note. Di più, a fronte di un attacco diretto o di una pressione politica statunitense non più reggibile, potrebbe forse essere utilizzata, come ritorsione di seconda scelta, solo contro qualche limitato obiettivo giapponese, ma per il resto dovrebbe indirizzarsi contro le truppe yankee dislocate in Corea del Sud o nelle acque limitrofe. Il che significa, cosa di non poco conto per un governo a tutti gli effetti nazionalista, colpire un territorio considerato parte integrante della nazione. (Questo spiega la disperata, e assai improbabile, rincorsa di Pyongyang a dotarsi di missili effettivamente fungibili almeno sul medio raggio, a minaccia delle città statunitensi della West Coast). Comunque sia, abbiamo avuto fin qui da parte del governo nordcoreano un atteggiamento “razionale” (di nuovo: pura razionalità strumentale borghese nell’irrazionalità del tutto) di deterrenza difensiva propria del più debole che non vuole soccombere. E in questo senso vanno lette le “provocazioni” nordcoreane a ritmi regolari e cadenze quasi rituali -degni della miglior diplomazia- che negli anni si sono succedute (e che i media ovviamente non mettono mai in correlazione con le corrispettive manovre militari Usa-Corea del Sud, ecc).
Ora però il quadro sta cambiando e non certo a partire da Pyongyang. In estrema sintesi i fattori nuovi, strettamente intrecciati, sono due. Primo, il fatto: l’accelerazione del dispiegamento in Corea del Sud del sistema anti-balistico Usa Thadd (già previsto da Obama, nb) utile a intercettare i missili nucleari avversari e dunque a mettere fuori gioco o seriamente incrinare il dispositivo nordcoreano della deterrenza. (Tralasciamo qui l’aspetto rivolto contro il potenziale balistico nucleare cinese, più in termini di incrementata capacità di monitoraggio in tempo reale che di confrontazione diretta). Secondo, più importante, la dinamica: nella furiosa lotta di potere in corso a Washington Trump -sia per rintuzzare gli avversari interni sia per dar forza all’esterno al suo programma di nazionalismo economico- è ricorso alla tattica del big stick militare (missili sulla Siria e Moab sull’Afghanistan, per iniziare) da mostrare a piccoli e soprattutto grandi avversari e nel far ciò si è schierato, e quasi sdraiato, a fianco dell’ala dura del Pentagono. L’idea di Trump è di alzare la posta e rientrare così, da posizioni di maggior forza, nel gioco geopolitico in aree e situazioni da cui gli yankee rischiano seriamente di essere estromessi (come appunto il Medio Oriente, con quella che stava configurandosi come la secca sconfitta Usa in Siria, o l’Asia orientale, a fronte dell’iniziativa crescente di Pechino). Costringendo in questo modo Pechino e Mosca a cedimenti consistenti. Non è una resa del neo-presidente allo “Stato profondo” (che comunque conta, eccome): Trump sta esponendosi sul fronte internazionale più di quante avesse pensato perchè si è reso immediatamente conto del fatto che per fare l’America great again, e risollevare le sorti della parte più sofferente della middle class americana, bisogna far cadere il bastone in modo da fare, o anche solo minacciare, danni più fragorosi e condurre a più miti consigli il mondo. Altro che “isolazionismo”!
La crisi coreana si inserisce in questo nuovo contesto. Cosa di meglio di una provocazione sopra le righe da parte di una Pyongyang messa brutalmente alle strette a cui la guida del mondo libero e democratico non potrebbe non rispondere con tutti i mezzi necessari? Anche, al limite, sdoganando l’uso, effettivo o credibilmente minacciato, dell’arma nucleare in un teatro di conflitto “limitato” (idea del first stike cui parte del Pentagono e i neo-cons puntano da tempo). Non che un attacco statunitense sia al momento probabile. Siamo alla diplomazia armata ma, appunto, ancora diplomazia. Inoltre, non pare che la Corea del Sud sia disposta a farsi trascinare nello scontro, oltretutto con un neo-presidente eletto sull’onda di proteste giovanili e del ceto medio anti-corruzione -con tutte le ambiguità del caso- che almeno a parole si dice disposto anche a dire no agli americani. Così come dal fronte atlantista, scosso in prospettiva da profondi smottamenti, non arrivano buone nuove per l’amministrazione yankee.
Il punto cruciale però è che gli States, per la crisi interna e per i sommovimenti geopolitici e geoeconomici in atto, sono e saranno sempre più spinti a colpire frontalmente, insieme, le strategie di resistenza degli attori statali minori (occhio, Iran) e Russia e Cina. Che infatti stanno facendo di tutto per evitare uno scontro immediato con Washington, la prima anche accettando una quasi cantonizzazione della Siria, la seconda disposta a esercitare pressioni inedite sulla Corea del Nord. Ma le linee rosse oltre le quali per Mosca e Pechino non sarà in futuro più possibile cedere, pena lo smantellamento accelerato dei propri sforzi di inserimento non del tutto subordinato nel mercato mondiale, sono forse meno lontane di quanto non sembri o non vogliano gli stessi protagonisti. La tendenza che sta emergendo è quella di un ritorno, tortuoso e contraddittorio per passaggi e quadro degli schieramenti, al nesso crisi globale/guerra. Dovremo tornarci su.
Attenzione, dunque, alle future smoking gun, in Corea o altrove, potrebbe non trattarsi solo di un twitter.
15 maggio ’17
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