«Se credi di avere tutto sotto controllo, allora non stai andando abbastanza veloce!»
Durante il meeting Agorà 99 abbiamo intervistato Simona Levi, hacktivista del movimento #15M.
Questo non significa che nel tempo non siano sorti anche piccoli think thank, crew di personaggi a metà tra l’hacker e lo spin doctor, che hanno aiutato il movimento a misurarsi con il mainstream sul terreno dell’opinione pubblica, sviluppando un nuovo paradigma dell’informazione in lotta: la tecnopolitica che teorizza la riappropriazione delle reti per l’azione collettiva. Attenzione, il loro ruolo non è esclusivamente quello di orchestrare i network di comunicazione: al contrario la loro mission sembra piuttosto organizzare lo sciame perché lo sciame possa auto-organizzarsi ed impari a riappropriarsi dell’uso politico dei media.
Sabato 3 Novembre in calle Fe al numero 10, è stato presentato il workshop “Azione collettiva nell’era digitale”. A tenere banco sono stati, Simona Levi e Javier Toret, esponenti del collettivo X.net. Una serie di conoscenze, tattiche e saperi scaturite dall’esperienza dell’ #15M sono state discusse alla presenza di compagn* ed attivist* provenienti da mezza Europa. Con un’avvertenza fondamentale «Ciò che raccontiamo non vuole avere un valore normativo. Questa è la strada che noi in Spagna abbiamo seguito ma ognuno, nel proprio contesto, deve trovare la sua». Sintetizzare in poche righe la ricchezza della discussione non è facile. Durante il workshop sono stati presentati i primi risultati di un’approfondita inchiesta di data analysis sul ruolo avuto dai social network durante la mobilitazione; è stato raccontato quali eventi, antecedenti al maggio del 2011, hanno contribuito e far si che il movimento sviluppasse quell’incredibile capacità di intervento politico, anche grazie all’uso massiccio e distribuito dei dispositivi digitali; è stata sottolineata l’importanza delle grandi identità, anonime, neutrali, elaborate collettivamente nel movimento, in grado di estendersi rapidamente, di evocare e di catalizzare immaginari sempre nuovi, sottraendoli alla morsa del nemico; è stato illustrato il valore tattico dell’uso dei media sociali, sia in termini di mobilitazione che di documentazione di quanto accadeva nelle piazze; infine buona parte del dibattito si è focalizzata sulla necessità di orientare le emozioni, spezzando quelle passioni tristi a cui il potere ci tiene incatenati «Le parole che noi creiamo ogni giorno si richiamano alla necessità di creare un’emozione positiva comune, che rompa la solitudine a cui siamo costretti. Quando la rabbia esce dalla dimensione individuale e diventa condivisa, si innescano processi positivi di empowerment delle comunità» ci dice Simona.
L’abbiamo intervistata per Infoaut.
InfoFreeFlow: L’essenza di ogni tecnologia è profondamente umana. L’insorgenza tunisina, prima di altre, ha messo bene in evidenza sia quello che è un rapporto ormai sempre più stretto tra movimenti ed uso politico dei social media sia la centralità della dimensione comunicativa nei conflitti sociali odierni. Allo stesso tempo però ha fatto emergere come questo rapporto non si da in termini universalistici (come vorrebbero gli apologeti della “Twiter revolution”), mentre tende piuttosto a declinarsi ed articolarsi secondo specificità culturali, storiche e politiche molto precise. Quali sono stati allora secondo te gli elementi che hanno portato ad un uso così diffuso delle tecnologie digitali all’interno del movimento #15M?
Simona: La Spagna presenta alcune singolarità rispetto ad altri posti. Se andiamo indietro di qualche anno, gli attentati alle stazioni di Atocha dell’11 marzo del 2004 rappresentano un primo evento cruciale. Per la gente è stato un momento importante per capire quelle che sono le possibilità di organizzarsi contro tutto il sistema. Mancavano solo due giorni dalle elezioni ed Azñar provò ad addossare la responsabilità di quanto accaduto ad ETA. C’erano 200 morti, il governo organizzava manifestazioni di cordoglio, la stampa puntava il dito in modo unanime contro l’organizzazione armata basca e la gente era davvero disorientata. Tutti reagimmo cominciando a mandarci messaggi tra di noi, dove ci chiedevamo «Ma tu ci credi?» . Si faceva strada in quelle ore, per la prima volta, una sensazione di auto-organizzazione davvero massiva, dove tutti quanti, grandi, piccoli, vecchi e bambini, gente con il telefonino e senza, si attivavano. È stato un momento davvero importante per creare una prima coscienza diffusa a livello sociale della possibilità di auto-organizzarsi e di reagire contro il sistema.
Poi c’è stato un altro momento, che forse può sembrare triviale, ma che per noi è stato davvero importante, ovvero tutta la mobilitazione contro la Ley Sinde e le politiche della SIAE spagnola. La SIAE ha cominciato a portare avanti azioni talmente demenziali, un po’ come dappertutto, ma qui hanno davvero esagerato. Sono montate in questo modo diverse campagne che hanno reso il tema della cultura libera davvero popolare. Tieni presente che la SIAE spagnola spremeva soldi a destra ed a manca: matrimoni, negozi di parrucchiere, bar, piccoli esercizi privati. Questo ha determinato che anche strati della popolazione non particolarmente tecnologizzati hanno iniziato a rendersi conto che il tema della cultura libera e dello scambio di informazioni era più interessante del tema del copyright. In questo modo è stata anche compresa l’importanza del ruolo di internet a livello sociale, dell’importanza che resti libero, della possibilità che ti da la rete di difenderti da certi tipi di soprusi. Questa lotta che abbiamo portato avanti è diventata molto popolare, molto allargata socialmente, anche al di fuori di quella parte di popolazione che viene comunemente definita come “nativi digitali” o che vive internet in modo più forte. In tutto questo ha giocato molto il modo in cui il governo ha provato a far passare le prime leggi contro la libertà di sharing in rete: si trattava di un capitolo di una finanziaria e non di un disegno di legge apposito. Il fatto di volerlo fare così di nascosto – abbiamo dovuto scoprirlo – e di non dichiararlo a livello pubblico, ha fatto accrescere la sfiducia nel governo ed ha portato duecentomila persone a firmare contro questa legge in meno di quarantotto ore.
Un altro movimento molto importante è stato quello del 2006 chiamato “VdeVivienda” che denuncia la bolla immobiliare, due anni prima che si manifestasse con la questione dei mutui subprime statunitensi. Anche quello fu un movimento molto trasversale e sorgeva in internet attraverso un messaggio anonimo, non riconducibile a nessuna precisa organizzazione politica e che ha dato vita a manifestazioni durate un anno e mezzo. Quel movimento ebbe un grosso peso in relazione a quanto accaduto con la crisi: òa nostra analisi su quanto stava accadendo era migliore di quella del governo ed arrivava due anni prima!
Nel tempo si sono poi andate ad aggiungere altre dinamiche strettamente collegate con quanto abbiamo detto finora: nella testa della gente è diventata chiara l’idea che il governo non lavorava per loro, che non avrebbe risolto i loro problemi e che ci fosse davvero bisogno di auto-organizzarsi per reagire. La crisi della rappresentanza si acuiva! E questo per non parlare dello sconquasso causato dalle immagini delle rivolte arabe.
Tutti questi elementi tra di loro hanno fatto si che il #15M sia stato vissuto ed attraversato da fasce di popolazione molto diverse tra di loro.
InfoFreeFlow: Nel workshop che hai tenuto ieri mattina insieme a Toret, tra l’altro uno dei creatori del network autonomo N-1, avete più volte ripreso l’influenza avuta dalla scena hacker spagnola sul movimento #15M. In che forme questo è avvenuto?
Simona: In diverse forme. Prima di tutto veicolando l’idea dell’utilizzo della tecnologia come strumento in grado di facilitare il processo rivoluzionario in termini di auto-organizzazione (anche attraverso la realizzazione di nuovi meccanismi di partecipazione democratica). Allo stesso tempo anche la diffusione di una certa filosofia sulla decentralizzazione, sulla leadership distribuita basata sulle abilità di ognuno, sul mettersi in gioco e fare le cose rifiutando determinate gerarchie ideologiche. Questo tipo di impostazione è debitore della filosofia hacker nella sua formulazione originaria. Per noi è molto chiaro il fatto che il #15M sia nativo digitale: questo non significa che i suoi componenti siano nativi digitali in termini anagrafici. Significa semmai che è stato preparato, è stato gestito, è stato organizzato, si è dato una struttura e si è mantenuto in Internet. Nasce, prospera e si moltiplica grazie ad Internet. Ed ovviamente li sono andate ad aggregarsi anche altre forme di politica anteriori. Ma quelli che non hanno capito l’importanza di adattarsi a questa nuova forma di politica vivono un forte gap (che noi stiamo cercando di colmare). Il problema è che o si adattano o rischiano di estinguersi. In alcuni casi, alcune frange della sinistra si sono poste in termini antagonistici al movimento #15M, dopo che si sono viste private della loro egemonia e del loro ruolo di avanguardia. Anche se molti, poco a poco, si sono resi conto dell’evidente necessità di adattarsi a questa nuova maniera di fare politica che sta dando buoni risultati.
InfoFreeFlow: I social network come Facebook o Twitter sono uno dei principali campi d’azione del movimento #15M. Il loro ruolo nei processi politici è stato però spesso oggetto di critiche molto serrate. Celeberrima è ormai l’opera di Evgeny Morozov, L’ingenuità della rete, dove il giornalista del Washington Post demolisce qualsiasi velleità di cyber-entusiasmo. In Italia ultimamente è stato invece pubblicato Nell’acquario di Facebook di Ippolita, un libro dove il gruppo di ricerca evidenzia in modo accurato quelle che sono una serie di dinamiche degenerative relazionali all’interno delle reti sociali commerciali (come l’emersione di bolle omofile, la tendenza al voyeurismo piuttosto che fenomeni di pornografia emotiva) in grado di abbassare qualitativamente il livello della partecipazione in rete, fino addirittura a sfociare in quello che viene comunemente definito come clicktivism. Il movimento #15M ha mai dovuto affrontare problematiche di questo tipo? Se si, come le ha risolte?
Simona: In generale il problema c’è ed esiste. Io credo sia importantissimo che ci siano persone che ci mettano in allerta su questo, rendendo pubblico, comune e diffuso a livello di massa il fatto che, per esempio, Facebook sia il vettore di un progetto di trasparenza radicale e di un insieme di comportamenti terribili a livello sociale. È fondamentale dire che Internet appartenga ormai alle multinazionali e che per questo motivo sia fondamentale pensare alla realizzazione di reti autonome.
Ma alla luce dell’esperienza del #15M devo dire che queste dinamiche non sono state un problema per noi, neanche in termini organizzativi. Anzi devo dire che è stato piuttosto vero il contrario. Noi abbiamo messo in atto un sovvertimento molto interessante di questi strumenti del capitale contro il capitale stesso. È importante organizzarsi in reti autonome ma allo stesso tempo però è vero che se in Egitto, in Italia o in Spagna le reti autonome vengono censurate il potere argina un ghetto. Ma se è Facebook ad essere proibito la questione diventa di rilevanza centrale e chiunque ne viene a conoscenza. L’uso tattico che si riesce a fare di questi strumenti è molto stato molto positivo in realtà e credo che il degrado che questi possano provocare non sia neanche lontanamente paragonabile al ruolo avuto in Italia da Mediaset negli ultimi 20 anni. Il discorso ovviamente non vale solo per Facebook ma anche per altri medium come Google. Complessivamente però queste patologie a cui tu facevi riferimento per ora non stanno affatto peggiorando le possibilità di azione del movimento. Al contrario le stanno migliorando. Non so dire se tutto questo in futuro potrà cambiare.
InfoFreeFlow: Il movimento #15M, oltre ad avere un fortissima base nelle pratiche di comunicazione diffuse in rete, ha anche un fortissimo radicamento nel territorio. Come vengono vissute le differenti velocità che caratterizzano i processi decisionali ed organizzativi dei comitati di quartiere rispetto a quelli della rete?
Simona: Questo è stato un problema all’inizio. Il #15M aveva uno slogan che diceva «Andiamo piano perché andiamo lontano». Io sono abbastanza contraria a questo slogan: credo che il problema vada visto a vari livelli. Bisogna rispettare la velocità che richiede inventarci una vita autonoma, libera dall’oppressione esercitata dal capitale e con relazioni affettive non competitive: questo richiede un’educazione ed un ripensamento delle nostre prospettive che passa per tempi più lunghi e lenti. Ma la risposta guerrigliera al capitale deve sempre riuscire ad anticiparlo e deve quindi muoversi a velocità vertiginosa. Questa volta, per la prima volta, possiamo permettercelo: siamo molto, molto più veloci di loro. Noi come X.net utilizziamo un altro slogan che è di Andretti, un corridore di formula uno e che recita «Se credi di avere tutto controllo, allora non stai andando abbastanza veloce». Probabilmente il signor Andretti è un coglione integrale, non lo so, non mi interessa. Ma questo slogan esprime un’idea chiara: quella di decentralizzazione. La decentralizzazione ci insegna, e noi l’abbiamo imparato vivendo le lotte in Internet, che avere un singolo nodo in cui concentrare tutta l’informazione presenta sia vantaggi che svantaggi. Al contrario è fondamentale creare reti in cui si affiancano una molteplicità di lotte diverse tra loro (dalla casa, alla neutralità della rete fino all’autogestione degli ospedali) e che fra di loro hanno un elemento comune: quello della fiducia. Noi creiamo delle reti di fiducia, prive di una direzione centralizzata che permettono di mettere in atto una grande quantità di azioni a grande velocità. Questa è l’essenza del #15M: l’apertura di tanti fronti, di tante reti, in cui ad ogni singolo nodo viene permessa libertà ed autonomia. Come dicevo, questo ha creato dei conflitti inizialmente, quando si diceva «tutto deve passare per l’assemblea!». Poi ci si è resi conto, grazie anche ad un processo di autoformazione diffusa, portata avanti da noi del “barrio di Internet”, che la decentralizzazione dei processi decisionali (con i suoi pro ed i suoi contro) in questo particolare momento è vantaggiosa.
InfoFreeFlow: Durante il workshop che hai tenuto ieri mattina con Toret, hai affermato «Non ci interessa espanderci, vogliamo moltiplicarci». Che cosa intendi dire con questa frase?
Simona: A nostro avviso uno degli errori di tutti i movimenti di sinistra fino a questo momento – e che siamo riusciti a comprendere grazie alla filosofia di internet – è stato un’eccessiva tensione all’autorappresentazione sintetizzabile nella frase «dobbiamo far capire alla gente l’idea dell’anticapitalismo». Non fraintendermi: va benissimo, è molto importante costruire ideologie, ci mancherebbe altro! Siamo però ora in un momento in cui è molto facile far arrivare informazione alla gente: durante il ‘900 e prima ancora, era un lavoro difficile e complicato far leggere Marx alla classe operaia, anche per motivi di accesso al sapere. Oggi però abbiamo reti di comunicazioni molto più semplici da utilizzare. Siccome la capacità di reperire informazioni sta crescendo sempre di più, l’idea, un po’ paternalista, che tu possa educare qualcuno, è secondo me un po’ sfasata. Primo, chi siamo noi per insegnare? Secondo perché, per quella che è la mia esperienza, nella nostra testa entra quello che noi vogliamo farci entrare. A seconda degli episodi che uno incontra nella sua vita, se si è preparati ad affrontarlo questo verrà assimilato, altrimenti no. Detta in altro modo: non si diventa anticapitalista per qualcuno ci dice che dobbiamo diventarlo. Noi crediamo allora sia meglio che l’informazione si moltiplichi e si sparga, trasformandosi anche in emozione, rendendola così più semplice da recepire. Molto spesso per la sinistra l’unica finalità è stata quella di diffondere. Oggi per noi la finalità è quella di costruire dispositivi, alternative e sopratutto memetiche che siano in grado di sostituire quelle precedenti. Creare un meme ed indottrinare sono due cose molto diverse tra loro: il meme lo lasci libero. Prendiamo per esempio il meme «Non basta tener casa nella puta vida!». Si è moltiplicato ed è una frase alle cui spalle ci sono tantissime riflessioni ed analisi sulla bolla immobiliare. Ma noi non siamo andati casa per casa cercando di venderlo alla gente: è lui che aderisce ai bisogni delle persone, circola viralmente e fonda un’identità collettiva. Io divento uguale agli altri, tu hai lo stesso bisogno mio in questa situazione di crisi, dove dobbiamo pagare affitti che non possiamo permetterci. È una comunione di esperienze quella espressa dal meme! Non un processo di insegnamento monodirezionale: questa è la differenza tra creare, viralizzare ed indottrinare.
InfoFreeFlow: Il mainstream riesce a mantenere la sua egemonia nella misura in cui continua a creare contenuti e rappresentazioni che diventano bussole di senso e catalizzatori di attenzione all’interno dell’infosfera. Per dirla con le parole di Nye «Nell’era dell’informazione, il vincitore potrebbe essere l’attore con la storia migliore». Come vi siete misurati con questa dinamica? Quali rapporti di forza avete costruito verso i grandi network di comunicazione?
Simona: La storia migliore ce l’abbiamo noi! I media all’inizio ci davano le spalle totalmente. Oggi le cose sono cambiate. Uno dei nostri compagni dice sempre: «Come in un film di fantascienza, la fine del circuito mainstream avverrà quando saranno costretti a riprodurre le nostre informazioni per stare al nostro passo!». Tuttavia noi in questo momento non siamo più egemonici del mainstream in Spagna ma questo non toglie che in molte occasioni siamo noi a decidere le notizie. È molto diverso dall’Italia, dove ovviamente la situazione è assai più difficile, anche a causa di 20 anni di educazione sentimentale televisiva targata Mediaset. Ad ogni modo tieni conto che dopo il 15 maggio, il mainstream spagnolo ci ha messo due giorni per dire che c’era stata una manifestazione. Noi ormai però abbiamo delle reti territoriali, di Twitter, di Facebook ed una capacità di convocazione tale che il mainstream (che oltretutto vive una sua fase di crisi strutturale anche per altri motivi) non può non dare tutta una serie di notizie! Se non trovi certe notizie ne “El Pais”.. beh, smetterai di comprarlo perché comincerai a pensare che le reti di Twitter siano una fonte di informazione migliore! In poche parole: li stiamo obbligando a rivedere i loro criteri di notiziabilità. Se noi circondiamo il parlamento, e loro non lo dicono, l’acquirente non può far altro che pensare «Questo giornale non sta facendo informazione! Io per strada vedo duecentomila persone e ne “El Pais” non c’è una riga in proposito. Smetto di comprarlo. Dove mi informo?». Aprirà Twitter, Facebook, leggerà uno dei nostri giornali o uno dei nostri volantini e dirà «Beh, questi ragazzi stanno facendo un’informazione migliore». Non è un caso che tutti i giornali stiano assorbendo nei loro organici moltissimi bloggers. Il fatto è che non riescono a stare dietro a quanto accade! Ci sono state, non a caso, moltissime discussioni all’interno dei grandi quotidiani sull’affidabilità o meno di Twitter come fonte: oggi però Twitter è sempre menzionato come fonte ed i giornali sono obbligati a citarlo. Chiaro che per metter in atto una forzatura di questo tipo abbiamo dovuto montare il #15M che è stato un punto di convergenza di molti elementi e di molta preparazione, cominciata almeno nel 2003: c’è stata una gestazione di otto, dieci anni.
InfoFreeFlow: Dalle rivolte arabe in avanti, i movimenti globali contro la crisi si sono sempre proclamati privi di leadership. È davvero così? O meglio, è davvero così sul piano comunicativo? In Egitto per esempio, il gruppo Facebook, “Siamo tutti Khaled Said” è stato creato ed orchestrato (il termine non ha un valore connotativo negativo per noi) da Wael Ghonim, dirigente di Google e uomo con una profonda conoscenza dei meccanismi di marketing. Voi stessi parlate di catalizzatori di emozioni ed attenzione. Non siamo di fronte ad una riedizione della figura dell’opinion leader nei processi di comunicazione?
Simona: Noi non parliamo di leadership. Noi parliamo di meriti ed abilità. Anche dal punto di vista della memetica leadership ci sembra un termine pericoloso (esattamente come è pericoloso il termine meritocrazia). Crediamo che la gente debba riuscire a sfruttare appieno la sua autonomia ed a saper funzionare a vari livelli. La nostra idea di catalizzatore è diversa: mettere a frutto al massimo le tue abilità mescolando idee e desideri. Ognuno, a partire da se stesso, deve essere capace di guidare e realizzare le idee che per lui sono importanti.
InfoFreeFlow: Dicevi della necessità di saper agire a vari livelli. Oltre ai social network, che ruolo svolgono le reti autonome nel movimento #15M?
Simona: I gruppi di hacktivisti del #15M hanno cominciato a lavorare prima sulle nostre reti e solo in un secondo momento siamo entrati nelle reti sociali. Quando eravamo più piccoli (e più ingenui) credevamo ci si potesse riunire intorno ad un consenso ideologico, a partire dal quale potersi espandere. Questo ha dei tempi necessari ma lenti per cui lavoriamo anche in contesti in cui ci si riunisce intorno ad affinità di altro tipo: empatiche, legate al modo di vita o alle pratiche comuni. Questo ci porta a lavorare in gruppi dove riusciamo ad essere più veloci e più liberi. Allo stesso tempo lavoriamo anche in gruppi assembleari ed infine siamo anche sulle reti sociali creandone di autonomi ed hackerando quelli commerciali. Tentiamo quindi di darci un respiro di azione il più ampio possibile.
InfoFreeFlow (@infofreeflow) per Infoaut
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