Scontri in centro a Madrid, l’ennesima manifestazione di una destra ipocrita e disperata
“Chi può fare qualcosa, la faccia” diceva qualche giorno fa José María Aznar, ex premier e leader spirituale del Partito popolare (Pp).
Il messaggio è stato rilanciato da altri rappresentanti politici e mediatici della destra ed estrema destra spagnola —se nel paese iberico è ancora possibile fare questa distinzione— e ha spronato centinaia di persone a presentarsi davanti alle sedi del Psoe in diversi punti del territorio nazionale. A Madrid, le cui istituzioni comunali e regionali sono in mano alle destre, i manifestanti hanno occupato diverse strade nelle sere di lunedì e martedì, in particolare quelle vicine alla sede del Psoe di Calle Ferraz. Si sono registrate alcune cariche leggere della polizia verso la fine della manifestazione e utilizzo sparso di spray al peperoncino, anche se la maggior parte del tempo i circa 5.000 manifestanti hanno potuto spostarsi liberamente, “scortati” dagli agenti in tenuta antisommossa. Nonostante i toni drammatici dei messaggi lanciati da diversi manifestanti sui social —da persone evidentemente poco abituate a subire la violenza della polizia—, soltanto tre persone hanno avuto bisogno di cure mediche e sei manifestanti sono stati arrestati (numeri nettamente più bassi rispetto a molte manifestazioni recenti).
Il presidente del Pp e capo dell’opposizione Alberto Nuñez Feijóo ha negato che il suo partito abbia organizzato le proteste, ma ha anche convocato delle nuove manifestazioni per la prossima domenica 12 novembre davanti alle sedi socialiste di tutti i capoluoghi spagnoli. Santiago Abascal, ex militante del Pp e attuale presidente di Vox, ha denunciato “l’eccessiva violenza” della polizia contro i manifestanti, affermando che questi siano stati “pacifici”, ad eccezione di qualche “provocatore inviato da Ferraz”. È inutile dire che questi stessi rappresentanti politici applaudono puntualmente la polizia quando la violenza e gli arresti arrivano nel contesto di una qualsiasi manifestazione di contenuto sociale. Il leader del partito postfascista ha chiamato inoltre le forze dell’ordine “a disobbedire ordini illegali se dovessero arrivare di nuovo”.
Anche se per i leader dei partiti di destra i manifestanti erano semplici “cittadini arrabbiati”, una certa omogeneità politica e culturale era più che evidente: croci di Borgogna, morioni (entrambi vecchi simboli imperiali), braccia tese e bandiere franchiste; cori innegiando a Franco e invitando i celerini ad unirse a loro; presenza di membri del partito Falange, della società di sfratti extragiudiziali Desokupa, dei neofascisti di Hogar Social e, nella sera di lunedì —forse solo dopo hanno capito la sconvenienza della loro partecipazione—, anche di esponenti di Vox, partito che governa da solo o in coalizione con il Pp in diverse città e regioni del Paese.
La motivazione esplicita delle proteste era uno dei cavalli di battaglia delle destre spagnole: la difesa dell’unità di Spagna, minacciata in questo caso dal cosiddetto “governo più progressista della storia” —anche se molto ben voluto dai mercati internazionali— e dai suoi complici, i separatisti catalani. Il contesto era quello delle trattative fra il Psoe e Junts per Catalunya per raggiungere un accordo che permettesse a Pedro Sánchez di essere confermato alla guida di un nuovo governo di coalizione. Le trattative sono iniziate dopo il flop elettorale di Pp e Vox, che non sono riusciti a ottenere nelle elezioni dello scorso luglio una maggioranza sufficiente a governare, e anche dopo la messa in scena che ha visto come protagonista Alberto Nuñez Feijóo, candidato a premier per il Pp, che si è presentato davanti al parlamento per cercare di ottenere la fiducia, affrontando una votazione che sapeva persa in partenza.
Quel risultato elettorale, inoltre, ha dato a Junts per Catalunya, il grande partito della borghesia catalana, un inaspettato potere contrattuale. Considerando le alleanze già più o meno stabilite, il voto favorevole dei suoi sette deputati in Parlamento è indispensabile per permettere a Sánchez di rimanere premier. L’accordo con Junts, presentato pubblicamente ieri pomeriggio, è uno degli ultimi che i socialisti hanno dovuto chiudere per permettere la nascita di un nuovo governo di coalizione a maggioranza socialista. Il punto centrale dell’accordo è una promessa di legge di amnistia per le persone accusate di reati nel contesto del processo per l’indipendenza della Catalogna, tra cui c’è il presidente di Junts, Carles Puigdemont, trasferitosia Bruxelles dal 2017. Una misura che pretende di “degiuridicizzare” il conflitto politico fra la Catalogna e lo Stato spagnolo, e che dovrebbe far estinguere i reati di tutte le persone legalmente coinvolte nelle giornate del 9 novembre 2014 e del 1 ottobre 2017 (date in cui sono stati organizzati dalla Generalitat della Catalogna rispettivamente una consultazione sullo status della Catalogna e un referendum per l’indipendenza). Questo punto è stato anche incluso nell’acordo fra il Psoe e il partito Sinistra repubblicana di Catalogna (Erc), firmato pochi giorni fa.
La promessa amnistia è stata il bersaglio delle ire delle destre spagnole, lanciate in un’ipocrita crociata contro quella che considerano una resa della loro amata patria ai secessionisti. Ipocriti i boss della destra mediatica perché non hanno alzato la voce contro la grazia di cui, di fatto, gode il re emerito Juan Carlos de Borbón. Sebbene viva come esule volontario ad Abu Dhabi dall’estate del 2020 (dopo l’apertura di diversi processi giudiziari contro di lui), l’ex monarca ed erede del dittatore ha potuto da allora visitare in diverse occasioni la Spagna e poi tornare liberamente nella sua nuova casa. Ipocrita il Pp perché negli ultimi decenni i suoi dirigenti hanno graziato migliaia di persone mentre erano al governo: solo durante i governi Aznar si è arrivati a 5.948 graziati (molti dei quali accusati di corruzione e prevaricazione), includendo, fra gli altri, alcuni membri dei GAL (gruppi parapoliziali che hanno praticato il terrorismo di Stato contro l’Eta negli anni 80); mentre delle 898 persone graziate dai governi di Mariano Rajoy, l’ultimo primo ministro espresso finora dal Pp, “solo” 16 erano state accusate direttamente di corruzione.
In fondo a questo quadro spicca l’amnistia approvata nel 1977, pochi mesi dopo le prime elezioni “libere” in Spagna dal 1936 (a cui parteciparono anche i partiti messi al bando dal franchismo). Quella legge fece estinguere tutti i reati “derivati da atti di intenzionalità politica” realizzati prima di quell’anno, amnistiando tutte le persone colpite fino a quel momento dalle leggi franchiste. Ma non solo: sono state anche amnistiate tutte le autorità, i funzionari e gli agenti delle forze dell’ordine che avessero commesso reati o violato “i diritti delle persone” durante quei lunghi e sanguinolenti decenni. Un’equiparazione, dunque, tra repressori e repressi, tra boia e vittime, in un Paese che appena negli ultimi anni ha iniziato a fare i conti con la sua dittatura.
In ogni caso, non serve analizzare la situazione troppo in profondità per capire che per Pp, Vox e il sistema mediatico-giudiziario a loro favorevole, il problema non è tanto l’amnistia, quanto il fatto che, ancora una volta, stiano per perdere la possibilità di raggiungere il governo statale. Pare così che abbiano deciso di iniziare una campagna golpista, fatta sia di lawfare (grazie alla connivenza di una magistratura perlopiù “conservatrice”) sia —visti i fatti degli ultimi giorni— di agitazione di strada. Una situazione che richiama il tentativo di golpe del 23 febbrario 1981, il cui fallimento fu dovuto più alla scarsa capacità e determinazione dei suoi promotori che alle reazioni della controparte.
[foto di Dani Gago per El Salto]
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