Seconda lettera ad un amico tunisino
Caro A.,
ci siamo sentiti dopo che l’”alleanza dei volenterosi” ha cominciato a bombardare la Libia, in nome dei “diritti dell’uomo”. Ignobile, assassina mascherata. Tu noti correttamente: la controrivoluzione è cominciata. La Libia è il punto debole, equivoco della rivoluzione araba – ecco dunque dove si poteva prima di tutto attaccare, imputando alle buffonate di un Raìs la causa di una generale restaurazione. Si sono messi tutti d’accordo: ogni mezzo è buono per abbattere un tiranno… Gheddafi è certo un tiranno – tu aggiungi – ma gli altri, i Sark, i Cameron, i Berlusca e – dulcis in fundo – Obama, non sono dei tiranni ma una sola volontà li muove: controllare, cioè disciplinare e/o neutralizzare, la rivoluzione araba. L’intervento contro la Libia costituisce il precedente giuridico, la punta di diamante di un dispositivo che si presenta come “ingerenza morale” e difesa della ribellione della Cirenaica – non è dunque un intervento imperialista, neocoloniale ma democratico e fraterno, attento ai diritti dell’uomo. Abbiamo altre volte chiamato imperiale tale dispositivo. Attaccando un mostro si prendono le misure per costruire per tutti nuove regole di controllo. Sono regole diverse per ciascun paese, una governance di controllo e/o repressione della rivoluzione. Ma questa rivoluzione – tu insisti – non la si può controllare. Quando le moltitudini si ribellano sono esse che decidono che cosa vogliono fare del loro avenire. E se al loro interno riconoscono germi o residui di tirannia, sono esse che se ne liberano. Questo noi credevamo si chiamasse democrazia!
Quanto sono d’accordo con te. Sai, mio caro amico, questo evento libico s’è dato negli stessi giorni delle celebrazioni dei 150mo del Risorgimento italiano. Quante analogie ci sono fra quello che avviene chez vous e quell’episodio – tanto grande quanto esso stesso ambiguo. Non è strano infatti che le potenze centrali vogliano regalarvi qualcosa che assomiglia al Risorgimento – una rivoluzione ben tornita, “gattopardesca”, come quelle europee del XIX° secolo dove, per gestire lo sviluppo e l’accumulazione capitalista, per sconfiggere quello che allora si chiamava “repubblica e socialismo”, funzionavano aristocrazie e mafie imprenditoriali. Quel modello – un po’ biecamente – lo ripete Obama: come fece allora Pio IX° in Italia, ha (un anno fa al Cairo) tirato la pietra del rivolgimento arabo, un “siamo tutti berlinesi” adeguato alla novità geopolitica e, subito dopo, ha nascosto la mano. Ora elabora con le potenze ex-coloniali la governance di controllo.
Ma non siamo più nel XIX°, siamo nel XXI° secolo: qui non comandano più le aristocrazie e gli imprenditori locali ma i finanzieri e il capitale globale cui erano già fermamente legati i vostri tiranni. Lo sviluppo non è più solo barbara accumulazione, sofferta e lavorata da popoli e nazioni separati, ridicolmente indipendenti nella loro miseria, ma è il prodotto di moltitudini messe a lavoro nella cooperazione sociale. Sono la cooperazione sociale e questo comune che vanno liberati. Questa nostra rivoluzione araba – tu dici – non è solo una rivoluzione politica ma è anche e soprattutto unarivoluzione sociale. Noi non vogliamo più tiranni ma neppure padroni. La grande speranza di questa moltitudine di giovani arabi non è di cambiar padrone ma di toglierlo di mezzo.
L’intervento militare delle potenze occidentali serve dunque a bloccare queste speranze, a introdurre insicurezza per tutti, a selezionare nuovi padroni e complici, a schiacciare la potenza democratica e comune dei nostri movimenti. E se ora gli va male, saranno i moderni e laici “imperiali” che richiameranno in servizio vecchi padroni coloniali e, con loro, gli estremisti, i fanatici religiosi ed i tiranni. Le grandi manovre sono iniziate con l’intervento in Libia.
Ma, caro A., la mia impressione è che il tentativo di blocco e la reazione imperiale siano già traballanti, perché in questo periodo di crisi economica insolubile, di sommovimenti tellurici non solo delle piattaforme oceaniche ma dei poteri globali, i padroni delle multinazionali e le potenze dominanti non hanno più progetto, non hanno una direzione certa – si arrabattono, incapaci di esprimere una prospettiva unitaria sulla quale organizzare il controllo della rivoluzione araba. La Turchia e la Germania hanno disorientato la NATO, Israele ha obbligato Obama ad un decisivo ribaltamento di linea, le monarchie (dall’Atlantico al Golfo) si comportano da monarchie ed hanno chiesto alla République un immediata iniziativa repressiva, i militari algerini continuano ad imperversare con metodi che persino Stalin invidierebbe. Ma la rivoluziona araba continua – soffia sotto le ceneri in Marocco e in Algeria, respira in Tunisia, è già in stato ansioso in Egitto (dove i militari e i Fratelli Mussulmani sono alleati per bloccare il movimento), lotta in Giordania e in Siria, è massacrata nel Barhein e in Yemen, corre sul web fra le genti del Golfo… Mentre, nella nuova prospettiva del “policentrismo globale” per la Rivoluzione araba non si è ancora fatto posto. Nella riconfigurazione geopolitica globale determinata dal “declino americano”, l’ultimo venuto è l’America Latina – ma come faranno a starci anche i fornitori arabi di petrolio se alla rendita fissa dei monarchi si sostituiscono le lotte e le pretese di reddito dei proletari? La “variabile indipendente” di una libera riproduzione della moltitudine?
Tu mi dici che questa rivoluzione deve risvegliare l’Europa. Io penso che non possa che farlo. Tu aggiungi che le terre del Mediterraneo del Sud e quelle del Mediterraneo del Nord sono comuni ai giovani arabi quanto ai giovani europei, perché la nuova forza-lavoro, materiale o immateriale, si valorizza e si muove in quello spazio. E aggiungi ancora che questo movimento continuerà perché esso fa parte della rivoluzione araba, tanto quanto di essa fanno parte la lotta contro i tiranni e quella contro gli “imperiali”. Ed io sono d’accordo con te quando ti esalti raccontando di quel formidabile Ponte sullo Stretto che è stato costruito fra Tunisi e la Sicilia e ti auguri che possa esser percorso in un senso e nell’altro, e che traghetti – dal Sud al Nord e viceversa – un sano odio contro i padroni e contro tutti i nazionalismi. Quando ti ho detto che qui da noi i pacifisti si son messi in moto (in grande minoranza questa volta, molto di più di quando si trattò di battersi contro le guerre in Kossovo e in Iraq), tu, amico mio, hai sorriso – per non dire che mi hai riso in faccia – dicendomi che questa volta i pacifisti non servivano davvero perché è impossibile modificare le cose con testimonianze morali. Qui bisogna invece allargare il mercato del lavoro e inventare nuove eque regole della sua riproduzione, qui si tratta ormai di pagare il petrolio con posti di lavoro. Se dunque c’è pacifismo, esso non può esser messo in campo che come sostegno politico e partecipazione materiale alla rivoluzione sociale araba. Qui c’è in gioco il gruzzolo del futuro, l’organizzazione e la divisione del lavoro attraverso il Mediterraneo, l’energia, molto denaro, e forse grosse porzioni del potere mondiale. Altrimenti – se si eviteranno questi problemi – la guerra libica diverrà lunga, fanatica e coinvolgerà le altre popolazioni arabe e vedrà alla fine solo rovine – fra i libici e fra i “volenterosi”, e certo, nessun vincitore “imperiale”.
In queste convulsioni postunilaterali, dentro il declino delle politiche imperiali americane ed europee, dentro l’indebolimento della NATO, la sola via di uscita consiste nell’agitare nuovamente la lotta di classe – quella dei lavoratori arabi accanto ai lavoratori europei. Bisogna rompere i confini. Per farlo, come tu dici, non è solo necessario schiacciare le sinistre riformiste sotto il peso delle loro responsabilità e la vergogna del loro tradimento, non più solamente interni ma internazionali; è anche urgente muoversi attorno a programmi politici che attraversino le frontiere e rivoluzionino forme e misure del modo di produzione, riconoscendo il comune come base della ricchezza.
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