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Sul voto. Pensieri a voce alta

Perché l’esito del voto amministrativo è importante, è presto detto: è un netto giudizio di portata nazionale sul governo Renzi; rivela una chiara connotazione sociale se non di classe; apre una fase politica nuova.

Il primo elemento si può sintetizzare così: il progetto renziano del partito della nazione, nonostante l’aiuto incondizionato del Berlusca, non si è realizzato, anzi mentre il voto dei ceti medio-bassi confluisce verso i grillini riemergono qua e là addirittura spinte alla ripresa del centro-destra. Renzi coalizza contro di sé invece di far convergere a sé. Per intanto, ha saputo rottamare l’ultimo partito rimasto con un qualche radicamento sociale sui territori con tutte le conseguenze del caso.

La connotazione “di classe” di questo voto, poi, è sotto gli occhi di tutti ancorchè rubricata dal circolo mediatico come sofferenza delle “periferie”. Periferie molto ampie, però, se è vero che arrivano a comprendere parte di un ceto medio sempre più impaurito, se non proprio ancora impoverito, da una crisi del cui superamento cianciano solo i twit del premier. Merito dei cinquestelle aver saputo intercettarlo scomponendo in alcune situazioni importanti anche il blocco di centro-destra.

In questo senso è il voto torinese ad essere il più significativo. Gli intrecci affaristici delle grandi opere e le clientele dell’economia degli eventi, grazie a cui si è accumulato il più ingente debito locale pro capite, senza effettive ricadute positive sul tessuto produttivo e sociale, alla fine hanno lacerato la copertina di una (relativa) buona amministrazione. E il voto per i cinquestelle -ma ci sarebbe da mettere nel computo anche l’anomalia di un’alta astensione- non a caso segue le linee territoriali non solo del crescente disagio sociale ma anche della rivolta dei forconi1. Mentre lo stesso quotidiano confindustriale (http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2016-06-20/un-idea-sviluppo-attenzione-le-pmi-030511.shtml?uuid=ADelhEf) non dimentica le ricadute della lotta No Tav, che ha scosso in profondità gli umori politici di quanti votavano centro-sinistra. (Da notare che il voto torinese marca anche la fine finita della “sinistra” se è vero che solo qui ha potuto presentare un esponente dignitoso come l’ex segretario Fiom, il che non ha però evitato la sua débacle).

Se il risultato romano può sembrare meno sorprendente visto lo stato cui è stata ridotta la città dalla cricca che l’ha governata (non da ora), quello di Napoli -al di là della qualità tutto e solo affabulatrice del suo sindaco (sirena per tanta estrema locale…)- è significativo perché lì Renzi è andato tre volte in poco tempo a promettere che il governo vi avrebbe dirottato risorse significative all’unica condizione che fosse eliminato De Magistris. La risposta sul piano elettorale è stato un chiaro schiaffo a chi vuole comprare il consenso con atti di carità sulla falsariga degli ottanta euro.

Milano presenta, anche scontando il ritardo di fase del piano elettorale, la situazione per certi versi più arretrata proprio perché il tessuto produttivo è… più avanzato e sta relativamente tenendo (ma per quanto?) dentro la crisi. Mister Expo può così ancora ricevere i voti dei cognitari, dei “creativi” ecc. mentre una sinistra cadaverica lo vota come baluardo contro una destra tardo-berlusconiana. Film già visti con residuo potere di seduzione. Per intanto, il “primato” politico della capitale produttiva, con le sue narrazioni postmoderniste care alla sinistra, è finalmente scosso…

Terzo, va ad aprirsi una fase nuova. Dove, con tutta la soddisfazione del caso nel vedere la cera di certe facce di…, si tratta di non sacrificare lucidità di analisi a facili entusiasmi o a previsioni lineari. Il voto, infatti, se per un verso è un segnale di istanze di redistribuzione dei costi della crisi anche attraverso una gestione della “cosa pubblica” meno sfacciatamente affaristica e, in minor misura, di ricerca di un percorso economico e sociale alternativo, per altro verso si dà in un clima sociale che resta freddo e senza mobilitazioni significative, come anche l’alta astensione segnala. Siamo insomma tra un legittimo rancore che monta contro l’élite, politica soprattutto ma con qualche promettente segnale anche contro la cupola economica, e una moderata speranza di cambiamento. Inoltre, le ambivalenze del grillismo non sono esattamente le medesime di tre-quattro anni fa allorchè il contenuto di rottura era più eclatante. Il M5S è mutato, si è in parte “normalizzato” (già Casaleggio aveva messo la sordina a un certo alternativismo di Grillo). Al tempo stesso, i poteri forti extra-italici stanno prendendo in esame la possibilità di potere essere costretti, nell’eventuale definitivo declino del renzismo, ad accettare la collaborazione coi pentastellati. Di Maio ha già cominciato il giro delle sette chiese: in quattro è già stato accolto (Londra, Parigi, Bruxelles e Berlino) archiviando l’antieuropeismo (http://www.huffingtonpost.it/2016/03/22/di-maio-incontra-ambasciatori-ue_n_9522640.html), in due è atteso in estate (Usa e Israele); per la settima, in vaticano, con la vittoria di Raggi a Roma è solo questione di tempo. Ciò non toglie che la via non è affatto in discesa, per nessuno. La cifra principale dei cinquestelle, l’onestà, non preoccupa molto i poteri forti, anzi potrebbe fare da apripista per contrastare il vizietto italico di proteggere in maniera clientelare alcuni settori di mercato nazionali. Ciò che invece li preoccupa è la tendenza sovranista-nazionalistica, che potrebbe portare a prendere le distanze dall’euro e da una “certa” Europa, nonché a mettere dei granellini di sabbia nelle strategie Nato (da cui Di Maio ha però già garantito che non si ha voglia vera di uscire), come è emerso su questioni come la Libia, i rapporti con la Russia e, qualche volta, anche con l’Iran. Sul versante interno, poi, anche per i grillini riuscirà problematico costruire ciò su cui Renzi sta fallendo: un blocco sociale “popolare” che affronti il nodo degli inevitabili tagli salariali, previdenziali, sanitari, ecc. allorchè la pausa all’austerity alimentata dalla politica monetaria compiacente della Bce di Draghi -di cui si è valso Renzi per evitare alla democristiana politiche più amare- volgerà tra non molto al termine e il nodo del debito tornerà con tutta la sua dirompenza. Ma anche su questo la linea neo-riformista del M5s, quella persa definitivamente per strada dagli eredi del vecchio Pci, porrà qualche problema allo scarico puro e semplice dei costi della crisi verso il basso. A condizione che, sia chiaro, la dinamica della conflittualità sociale si riapra.

All’immediato le alternative per il governo si fanno più stringenti e assai meno praticabili con ricette indolori e battage comunicativi. L’idea di Renzi di recuperare almeno con i ceti medi con il colpo di teatro della diminuzione dell’imposizione fiscale dovrà vedersela con Bruxelles e Merkel, che difficilmente sono disposti a fare altri sconti, soprattutto in considerazione del suo incipiente fallimento. Anche il messaggio ricattatore “senza il Pd niente soldi dal centro” non è passato, e dunque a maggior ragione faticherà a passare quello analogo -“senza di me il caos”- che il premier è tentato di agitare per il referendum d’autunno. Se la politica di riassetto del dominio capitalistico di classe deve proseguire e approfondirsi, difficilmente però si potranno affrontare i nuovi tornanti senza un serio consenso sociale: la domanda su cosa costruirlo diventa drammatica.

È una domanda non solo italica che marca il terreno di riconfigurazione di soggetti capitalistici in grado di gestire il governo della crisi e lanciare la (a loro) necessaria “distruzione creatrice”. Lo standby infatti sta per finire a scala globale a misura che i segni recessivi si intensificano (anche negli Usa), il commercio mondiale recede, gli scricchiolii finanziari e bancari sono chiaramente percepibili, e la stessa globalizzazione risulta sempre più curvata su una competizione senza sconti tra blocchi macro-regionali (anche via accordi di partenariato di marca statunitense in funzione anti-cinese: pur se le difficoltà di Renzi, come quelle di Cameron e Hollande, mettono a rischio l’approvazione del Ttip in tempi stretti). Il che, peraltro, rischia seriamente di disgregare al prossimo giro l’Unione Europea (con piani B tedeschi già pronti). A breve-medio il caos tornerà sotto il cielo, e sarà in gioco molto più di un voto…

20 giugno ‘16

[1] Analizzando la quale ci eravamo presi del parafascisti un po’ come quando avevamo parlato di proficue ambivalenze del grillismo (http://www.infoaut.org/index.php/blog/prima-pagina/item/7279-proficue-ambivalenze-del-grillismo).

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