Terrorizzare e reprimere. Il terrorismo come strumento repressivo in perenne estensione [Prima parte]
Il testo sarà diviso in tre spezzoni più brevi per agevolarne la lettura e per accompagnare simbolicamente le scadenze di questo mese di mobilitazione per la liberazione di compagni e compagne e contro la criminalizzazione della lotta notav. Prison Break Project intende quindi pubblicare sul web quest’intervento i lunedì 5, 12 e 19 maggio prossimi per mostrare un piccolo, e speriamo utile, segno tangibile di solidarietà alle lotte contro le dinamiche repressive.
5 maggio 2014
Terrorizzare e reprimere. Parte 1 di 3 (pdf):
Terrorizzare e reprimere
Il terrorismo come strumento repressivo in perenne estensione
“When government fears the people, there is liberty. When the people fear the government, there is tyranny”
Thomas Jefferson
Non siamo in grado di trattare con esaustività un tema vasto e controverso come quello del terrorismo.
Ci interessa piuttosto seguire a volo d’uccello la parabola storica della nozione di terrorismo, per mostrare come essa, nata per indicare i più gravi atti di violenza politica indiscriminata, stia finendo per abbracciare virtualmente ogni atto di insubordinazione all’ordine costituito.
Diventa preminente l’esigenza, che impregna tutto il lavoro di Prison Break Project, di non appiattire il discorso critico solo sul piano ostile e ostico del diritto. Perciò, pur nell’inevitabile incompletezza della nostra disamina, anteponiamo all’analisi delle definizioni giuridiche internazionali ed italiane del terrorismo un’approssimativa indagine “filologica” del concetto nel suo manifestarsi storico.
Tra i due piani c’è ovviamente una relazione, dato che persino le parole più falsificate e asservite dal potere devono la loro efficacia persuasiva e di governo alla loro capacità di rinviare a-, a risuonare con-, esperienze collettive che al potere pre-esistono o che comunque hanno una loro, relativamente autonoma, dimensione di realtà.
L’esperienza cui il concetto di terrorismo non può non rimandare è il terrore, esperienza per sua natura soggettiva (ciò che terrorizza te non è detto che terrorizzi me), ma che assume la valenza politico-giuridica che qui rileva solo in quanto si imprime su un soggetto collettivo (il terrore deve comunque colpire un “noi”).
La natura intrinsecamente politica del concetto di terrorismo sta dunque, in ultima analisi, nella decisione su quale sia il soggetto collettivo che si assume colpito dal terrore.
Origine, evoluzioni e deformazioni di un concetto ambiguo.
“La maggiore difficoltà che si frappone all’analisi del fenomeno terroristico risiede nella sua ambiguità, nel senso che la qualificazione di un’azione o di una pluralità di azioni come terroristiche non è frutto di un giudizio di valore assoluto ma relativo. In altri termini, un comportamento che è valutato come terroristico dai suoi destinatari, riceve invece una diversa qualificazione dai suoi autori”.
Queste parole non sono state pronunciate da un legale di soggetti accusati di terrorismo o da qualche scomodo intellettuale radicale. Sono invece tratte da uno scritto1 di Emilio Alessandrini, Pietro Calogero e Pier Luigi Vigna, magistrati titolari di diverse inchieste per terrorismo negli anni ‘70.
Se persino chi ha elargito anni e anni di carcere sulla base della nozione di terrorismo ne ha denunciato l’ambiguità, è chiaro che diventa tanto difficile quanto necessario il tentativo di restituire un minimo di contenuto semantico al concetto.
Nel senso comune del termine, il terrorismo denota una delle modalità più efferate e indiscriminate in cui si può esprimere la violenza politica. Le diverse definizioni accademiche2 si imperniano intorno ad un minimo comune denominatore che valorizza l’etimologia del termine: terrorismo significa terrorizzare la popolazione attraverso atti violenti indiscriminati in vista di un fine politico o ideologico.
Da questo nucleo semantico tanto vago quanto intrinsecamente carico di disvalore discende la relativa ambiguità e soggettività del concetto, il quale si presta dunque facilmente ad essere strumento di condanna e demonizzazione dell’avversario politico3.
Nonostante i suoi limiti, tuttavia, questa definizione è un imprescindibile riferimento sia per poter operare una ricostruzione storica del fenomeno che per conquistarsi un minimo di autonomia di giudizio in relazione agli avvenimenti attuali. Un’autonomia di giudizio che serva, se non a valutare quali prassi contemporanee possano essere definite terroristiche, quantomeno a riconoscere con sicurezza ciò che terrorismo non è.
Già da un punto di vista filologico, lo slogan di movimento “terrorista è lo stato” coglie nel segno. Il termine viene coniato a partire dall’esperienza del “Regime del Terrore”, instauratosi nella Francia rivoluzionaria del 1793, a forza di teste ghigliottinate secondo le decisioni sommarie del Comitato di Salute Pubblica4, organo del governo rivoluzionario giacobino.
I neologismi francesi terrorisme e terroriser, creati a partire dal latino terror, iniziano a circolare in Europa proprio col significato – tuttora attestato nei vocabolari – di “azione del potere politico di incutere terrore nei confronti dei cittadini, attraverso la costrizione e l’uso illegittimo, indiscriminato e imprevedibile della forza”5.
Un primo capovolgimento semantico avviene con il colonialismo europeo. Le potenze europee si servirono dello stigma legato all’impiego del termine “terrorismo” contro quelle popolazioni asiatiche e africane che provavano a ribellarsi alle politiche coloniali di sterminio e depredazione delle risorse.
In alcuni casi l’accusa di terrorismo aprì la strada a veri e propri genocidi, come avvenne per la popolazione “Herero” trucidata dall’esercito tedesco6. Contro gli Herero, accusati di terrorismo, furono usati metodi terroristici da manuale: sterminio per fame, avvelenamento dei pozzi, campi di concentramento e terribili esperimenti medici. Secondo il rapporto ONU “Whitaker” del 1995 il genocidio ridusse la popolazione da 80.000 a 15.000 “rifugiati affamati”.
Sorte analoga spettò ai Mau Mau massacrati dagli inglesi. Col pretesto della lotta al terrorismo divenne possibile anche in questo caso legittimare metodi terroristici come i campi di concentramento e l’uso sistematico dell’elettro-choc7.
D’altronde anche il colonialismo italiano non fu da meno nel dispensare campi di concentramento, stupri di massa e gas nervino in Africa come nei Balcani8.
Nel corso del Novecento c’è un’altra esperienza in cui il terrorismo assume un ruolo importante. All’indomani della rivoluzione d’ottobre e nel vivo della fase del “comunismo di guerra”, Lev Trockij scrive Terrorismo e Comunismo9 in cui spiega l’importanza strategica del terrore rivoluzionario, il quale nella sua visione si riallaccia al terrore giacobino e si contrappone al terrorismo controrivoluzionario del regime zarista.
Non ci interessa qui verificare se le valutazioni di Trockij fossero corrette o meno. Non si può cionondimeno ignorare come queste teorizzazioni e pratiche di certo non servirono a porre un argine all’avvento, una quindicina di anni dopo, del Terrore staliniano, chiara forma di terrorismo di stato.
Con quest’ultimo termine si intende il periodo delle purghe staliniane – iniziate nel 1934 dopo l’assassinio del dirigente bolscevico Kirov – che permise l’ampliamento dei poteri della polizia politica (Nkvd) e di varare una legislazione d’emergenza che fu il supporto dei grandi processi pubblici contro i vecchi capi bolscevichi. L’ironia della Storia vuole che proprio Trockij e i suoi seguaci furono tra le vittime di questi processi con l’accusa di terrorismo10. Ecco dunque un’altra volta il rovesciamento di senso: il terrore stalinista che accusa di terrorismo i suoi oppositori.
E che dire invece dei regimi “democratici” contemporanei? A proposito delle pratiche terroristiche da loro utilizzate ci limitiamo a ricordarne la più compiuta espressione: la guerra. Infatti, se torniamo a considerare la definizione di terrorismo vista all’inizio (terrorizzare la popolazione con una violenza indiscriminata per raggiungere un fine politico) ci rendiamo conto che la guerra, in particolare quella moderna basata sui bombardamenti aerei, vi rientra in pieno.
Il massimo e apocalittico esempio di questo tipo di terrorismo è il lancio della bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki11. Tuttavia anche un semplice cacciabombardiere novecentesco che getta “a spaglio” le sue bombe sopra una città non fa altro che seminare terrore e morte in maniera indiscriminata.
Ci ricorda Vladimiro Giacchè come questa inconfutabile valutazione si attagli anche alle contemporanee “guerre chirurgiche”. Questo tipo di bombardamento provoca i cosiddetti “effetti collaterali”, ossia i previsti e voluti massacri di civili. In realtà, l’idea della guerra chirurgica non è certo nuova. Essa era teorizzata già negli anni `20 come “un’operazione chirurgica di aggiustamento internazionale senza quasi spargimento di sangue” mediante l’uso dell’aeronautica militare che “punterà ad abbattere il morale della popolazione”, ossia, ancora una volta, a seminare il terrore12.
In questo quadro, la nuova politica tecnocratica della cosiddetta “guerra dei droni” è l’ennesima innovazione nel campo delle possibilità terroristiche del potere costituito e degli stati13.
Possiamo, a conclusione di questa panoramica storica, sottolineare un dato di fatto: il terrorismo è un’efferata strategia politico-militare che viene portata avanti anche da singoli e gruppi, ma che in realtà è sistematicamente usata delle organizzazioni statali.
Non vogliamo quindi sostenere che il terrorismo è stato storicamente solo quello di stato, poiché certamente pratiche terroristiche sono state adottate anche da gruppi e/o individui privi di potere. Attentati esplosivi indiscriminati contro la popolazione civile sono ad esempio stati realizzati da combattenti irlandesi, palestinesi, del risorgimento italiano14, rivoluzionari e fascisti.
Un discorso a parte meriterebbe invece l’uso che gli stati hanno fatto dell’accusa di terrorismo su gruppi che usavano la violenza (anche armata) per un fine rivoluzionario che terrorizzava solo i dominanti ma poteva entusiasmare i dominati. Se si condivide infatti l’assunto che la società non è un tutto organico e monolitico, occorre chiedersi quali gruppi sociali siano terrorizzati da una specifica modalità terroristica.
Un bombardamento aereo è certamente un atto idoneo a terrorizzare tutta la popolazione (per quanto quest’ultimo concetto sia un’astrazione). Ma può dirsi lo stesso della gambizzazione di un uomo politico o di un manager?
Secondo noi è tutta questione del punto di vista di classe da cui si guarda la realtà: un regicidio terrorizza regnanti e classi dominanti; una bomba alla stazione terrorizza direttamente chi prende i treni per spostarsi.
In questa prospettiva è evidente come la doppiezza del concetto di terrorismo rifletta la contrapposizione ideologica e di classe che può darsi dentro una società.
Il punto che ci preme qui sottolineare è però un altro: quella statale è la forma prototipica di terrorismo, il terrorismo per eccellenza. Il terrorismo è insomma prevalentemente una pratica di governo.
Il terrorismo individuale o di gruppo, al netto di ogni valutazione etica, è un fenomeno incomparabile per micidialità e dimensioni al terrorismo di stato. Per giungere a questa conclusione non c’è bisogno di “pesare” spietatamente le quantità di vittime dell’uno e dell’altro fenomeno.
È la storia del Novecento a dimostrarlo. I regimi coloniali, i totalitarismi nazifascisti e stalinisti, le guerre mondiali (con la trasformazione della guerra tra eserciti in guerra ai civili), la minaccia atomica, le dittature sudamericane, africane e asiatiche: tutte queste situazioni in cui il terrore e una violenza efferata giocano un ruolo determinante sono “affare di Stato” e non hanno eguali nel terrorismo individuale o di gruppo.
Dietro queste evidenze storiche del carattere principalmente statale del terrorismo vi sono ragioni strutturali: le situazioni in cui avviene una tendenza generale a terrorizzare una popolazione sono appannaggio degli Stati, i quali (servendosi anche dei loro micidiali armamentari bellici e comunicativi) possono ampliarne e declinarne gli effetti, veicolando la propria interpretazione e l’attribuzione dello “scempio” e del “nemico”.
In questa prospettiva suona grottesca la proclamazione di Guerra al Terrorismo lanciata dopo l’attentato alle Twin Towers dell’11 settembre 2001. Innanzitutto non è possibile dichiarare guerra ad una forma di guerra, poiché, va ribadito, il terrorismo non è un nemico, non è un soggetto, è una strategia.
Inoltre è paradossale che siano gli Stati Occidentali a lanciare una crociata contro una pratica da essi sempre adottata, difesa e foraggiata15. Ancora più paradossale è che, per l’ennesima volta nella storia, chi dice di combattere il terrorismo utilizzi metodi terroristici, ad esempio bombardando i civili iracheni nella guerra del 2003. Non lascia adito a dubbi il nome del primo attacco aereo su Baghdad: “Shock and Awe”. Tradotto letteralmente: “colpisci e terrorizza”.
Prison Break Project è un progetto collettivo di ricerca e analisi con l’obiettivo di contribuire al dibattito di movimento contro la repressione. È anche il nome del blog prisonbreakproject.noblogs.org e l’autore collettivo che sta preparando da lunghi mesi un libretto di approfondimento sui dispositivi repressivi puntati contro i movimenti sociali. La pubblicazione cartacea autoprodotta è prevista, si spera, per quest’estate.
Prison Break Project nasce dall’esigenza di tre precari di prendere parola sulle dinamiche repressive in atto e così contribuire ad una riflessione critica, rivolta principalmente ai movimenti sociali, sulle modalità per spezzare le logiche di isolamento, di limitazione dell’agibilità politica e d’imprigionamento dei corpi che la repressione impone. Abbiamo avvertito l’urgenza di un intervento su tale ambito dopo esserci confrontati in maniera più o meno diretta con le conseguenze della stretta repressiva che si è registrata in Italia, in particolare nell’ultimo decennio. Nell’ambito della nostra partecipazione alle lotte sociali, alle quali cerchiamo nel nostro piccolo di contribuire, abbiamo conosciuto sulla pelle, nostra o dei nostri compagni e compagne, la crudezza della criminalizzazione e i suoi effetti nefasti sulla capacità organizzativa e l’efficacia delle forme di opposizione al sistema capitalista attuale.
1 Questo scritto è stato testualmente citato dall’avv. Pelazza nell’intervista “colpevoli di resistere”, reperibile all’indirizzo: https://www.youtube.com/watch?v=03vVyrbmJVU.
2Per una rassegna di alcune autorevoli definizioni dottrinarie del terrorismo si veda G. Pisapia, “Terrorismo: delitto politico o delitto comune?”, in Giustizia Penale, p. 258 ss., 1975. L’articolo evidenzia anche alcune tipizzazioni che danno conto della complessità del fenomeno: terrorismo di stato (governativo, esterno o “complice”); terrorismo rivoluzionario, subrivoluzionario o repressivo; terrorismo sociale, politico o di diritto comune; terrorismo interno o internazionale; terrorismo diretto e indiretto, eccetera. Cerella fornisce invece una definizione generale del fenomeno in linea con quella da noi riportata, pur dando conto delle difficoltà di un approccio avalutativo quando si intende purificare il concetto di terrorismo dalle sue incrostazioni storiche, A. Cerella, “Terrorismo: storia e analisi di un concetto”, in Trasgressioni, num. 49, pp. 41 e ss., 2010, reperibile su: http://clok.uclan.ac.uk/7969/1/TERRORISMO.%20STORIA%20E%20ANALISI%20DI%20UN%20CONCETTO.pdf.
3Interessante che il Dictonnary of Politics di Elliott e Summerskill nel 1952 affermi “Terrorista è colui che ricorre alla violenza e al terrore per raggiungere finalità politiche, che frequentemente implicano il sovvertimento dell’ordine stabilito. Il vocabolo è usato anche dai sostenitori di un particolare regime per descrivere e screditare qualsiasi oppositore che ricorra ad atti di violenza. Gli oppositori di un regime, tuttavia, sarebbe meglio definirli partigiani o combattenti della resistenza piuttosto che terroristi” (in Pisapia, 1975, op. cit).
Giglioli constata lapidariamente: “Il terrorismo è la violenza degli altri”, D. Giglioli, All’ordine del giorno è il terrore, Bompiani, Milano, 2007, p. 7.
4 Per ciò che concerne il biennio rivoluzionario che la storiografia ufficiale ha etichettato con l’appellativo di “Terrore”, segnaliamo però che la stessa caratterizzazione del periodo come determinato unicamente dalla barbarie giacobina volta ad eliminare fisicamente tutti gli oppositori politici di quello che, in fin dei conti, è un nuovo Stato autoritario, risulta viziata da un certo revisionismo e da un approccio “fintamente” avalutativo della Storia. Questo perché si intende così trasformare quello che è stato, almeno in alcuni suoi aspetti, un tentativo di rivoluzione sociale, pur con tutte le sue contraddittorietà ed i suoi eccessi, in un processo di semplice rivoluzione “borghese”, nella transizione cioè da uno stato autoritario premoderno ad uno democratico borghese. In una concezione di tal genere il “Terrore” non sarebbe altro che un intermezzo dispotico, ad immagine e somiglianza del folle ed incorruttibile Robespierre, nel mezzo di un lineare processo di mutamento di classe dirigente, iniziato con la presa della Bastiglia e terminato con l’avvento e la sconfitta di Napoleone. Non si analizzano cioè le laceranti divisioni in seno al fronte rivoluzionario, che rispecchiavano le differenze politiche dello schieramento, le lotte intestine ed il ruolo da protagonista che gioca la plebe parigina e francese nel tentativo di innalzarsi e liberarsi da schiavitù e sfruttamento. Il filone interpretativo che valorizza questi aspetti concepisce al contrario il 1793 come “punto più alto” della Rivoluzione, poiché vi fu un tentativo di attacco ai privilegi tanto della vecchia classe nobiliare quanto della nuova “borghesia”. Il Terrore, come periodo storico, si sostanzia di tutte queste contraddizioni; l’innamoramento generale per “Madama ghigliottina”, invece, sarà l’aspetto che si ritorcerà contro i rivoluzionari stessi, provocando l’uccisione di Marat, Danton e Robespierre e l’avvento del Termidoro.
5Mauro Ronco, voce “Terrorismo” in Novissimo Digesto Italiano, Torino, 1986, p. 754.
6Il Generale Lothar von Trotha, responsabile del genocidio, commesso fra il 1904 e il 1907, scrisse: “Io credo che la nazione come tale (gli Herero) debba essere annientata, o, se questo non è possibile con misure tattiche, debba essere espulsa dalla regione con mezzi operativi ed un ulteriore trattamento specifico… L’esercizio della violenza fracasserà il terrorismo e, anche se con raccapriccio, fu ed è la mia politica. Distruggo le tribù africane con spargimento di sangue e di soldi. Solo seguendo questa pulizia può emergere qualcosa di nuovo, che resterà”. Maggiori dettagli e riferimenti su: http://claudiocanal.blogspot.it/2010/06/herero.html.
7Ancora a proposito delle strategie militari del colonialismo inglese Noam Chomsky ricorda che “Winston Churchill autorizzò l’uso delle armi chimiche “a scopo sperimentale contro gli arabi ribelli”, denunciando la “schifiltosità” di coloro che facevano obiezioni “sull’uso dei gas contro tribù incivili”, per la maggior parte curde, da lui invece sostenuto perché “avrebbe seminato un grande terrore”, http://www.tmcrew.org/archiviochomsky/501_8_2.html.
8La questione della rimozione delle crudeltà del colonialismo in salsa italica è un tema storico quantomai attuale: essa si scontra con il mito degli italiani brava gente che costituisce il prodromo dell’accusa implicita di terrorismo e barbarie addossata a chi resisteva e attaccava l’esercito coloniale italiano. Su questo tema si possono citare: i lavori di Del Boca (Italiani, brava gente? Un mito duro a morire, Neri Pozza, Vicenza, 2005; A un passo dalla forca. Atrocità e infamie dell’occupazione italiana della Libia nelle memorie del patriota Mohamed Fekini, Baldini Castoldi, Milano, 2007) e Kersevan (Un campo di concentramento fascista. Gonars 1942-1943, Kappa Vu, Udine, 2003; Lager Italiani, Nutrimenti, Roma, 2008) che fanno un bilancio di lunghe ricerche; l’epopea giudiziaria del film Leone del deserto di Moustapha Akkad la cui visione fu proibita per decenni in Italia (analogamente alla Battaglia di Algeri di Pontecorvo in Francia); le narrazioni romanzate in recenti testi dei Wu Ming (Timira, Point Lenana). Segnaliamo anche quest’articolo sui campi di concentramento per gli sloveni: http://contromaelstrom.com/2014/01/29/memoria-ricordiamo-i-crimini-del-colonialismo-italiano/. Lo riteniamo interessante non solo perché contribuisce a restituire verità e contesto storico alla vicenda delle foibe, ma anche perché segnala il processo del Tribunale Speciale per la difesa dello stato tenutosi nel 1940 contro 60 sloveni. Essi erano significativamente accusati di un reato associativo in quanto partecipanti “ad associazioni tendenti a commettere attentati contro l’integrità e unità dello stato” (Marta Verginella, Il confine degli altri, Donzelli editore, 2008, p. 8).
9Per un’interessante riedizione si veda il testo Zizek presenta Trockij. Terrorismo e comunismo, a cura di Antonio Caronia, editore Mimesis, 2011. Riportiamo un passo dal testo di Trockij: “Chi di principio ripudia il terrorismo – e cioè ripudia le misure di soppressione e di intimidazione nei confronti della controrivoluzione armata – deve rifiutare ogni idea di dittatura politica della classe operaia e rinnegare la sua dittatura rivoluzionaria”. La concezione trotzkista difende tuttavia solo il terrore espresso dalle masse rivoluzionarie organizzate mentre rifiuta il terrorismo individuale o di gruppo in quanto politicamente inefficace. Ciò peraltro a prescindere dall’approvazione morale o dall’umana simpatia che spesso non viene negata da Trockij al gesto individuale, si veda Massari, Marxismo e critica del terrorismo, Newton Compton Editori, 1979, p. 146 e ss.
10Il primo e probabilmente più famoso è il “processo contro il centro terrorista trotskista-zinovievista”. Fornisce un approfondimento del periodo in questione il trotzkista Vadim Rogovin, 1937: Stalin’s Year of Terror, Mehring Books, 1998. Del testo si trova una traduzione in italiano all’indirizzo:
http://www.marxists.org/italiano/archive/storico/rogovin/1937terrore/1.htm.
11 Sul tema del terrore atomico non si può non rinviare alle bellissime pagine delle “tesi sull’era atomica” e dei “comandamenti sull’era atomica” di Gunther Anders. L’“angoscia atomica” da egli descritta e auspicata è tuttavia un sentimento positivo che nasce dalla consapevolezza della costante possibilità dell’apocalisse atomica e che spinge ad intraprendere le azioni necessarie per far cessare la “situazione atomica”. Si veda Anders, G. Essere o non essere: diario di Hiroshima e Nagasaki,Einaudi, Torino, 1961.
12L’affermazione riportata in virgolettato è dell’inglese J.M. Spaight, teorico della guerra aerea, citata in V. Giacchè, La fabbrica del falso, Derive Approdi, 2008, p. 120.
13 Come ricorda Chamayou in Teoria del drone, Derive Approdi, 2014, il drone diviene un dispositivo flessibile in grado di coniugare in sé l’indicazione dei soggetti terroristi e la loro eliminazione ed è quindi capace di terrorizzare la popolazione potenzialmente solidale ai “sospetti”. In questo caso avviene l’ennesimo aggiornamento tecnologico che massimizza la criminalizzazione dei “barbari terroristi” oltre a permetterne l’eventuale eliminazione fisica senza minimamente coinvolgere i corpi di militari e forze di polizia.
14 Su questo punto torneremo nel prossimo paragrafo.
15Solo limitandosi all’esempio Usa, la Scuola delle Americhe ha addestrato dal 1946 oltre 60.000 soldati da adoperare, secondo metodi terroristici, contro i movimenti popolari dell’America Latina. Da quella “scuola” uscirono anche le élites dei vari regimi dittatoriali sudamericani, compreso il Cile di Pinochet.
Non dimentichiamo poi che lo stesso Bin Laden così come i Talebani, prima di diventare i Nemici Assoluti degli Stati Uniti, fossero da questi finanziati in quanto alleati nello scacchiere internazionale. Altri esempi di “metamorfosi del terrorista” in V. Giacchè, op. cit., pp. 117-119.
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