Tra bankitalia e referendum la campagna elettorale alza il tiro. Qual è la posta in gioco?
Ad almeno sei mesi dalla probabile apertura delle urne, la campagna elettorale 2018 è partita in quarta. Con due macroeventi che, come il proverbiale battito d’ali di farfalla, da cricche partitiche marginalizzate ed in lotta per la propria sopravvivenza politica possono prendere il largo – ed andare ad impattare contro la tenuta istituzionale di uno Stato italiano sempre più autoreferenziale e paranoico.
Da un lato un discreto scompiglio nei salotti buoni del potere nazionale hanno portato le dichiarazioni di Renzi, di sfiducia nei confronti del governatore di Bankitalia Visco – tanto da far gridare alla lesa maestà. Perché mai una carica istituzionale tanto nevralgica era stata messa in discussione in maniera così plateale ed unilaterale, peraltro dal leader del partito di governo: il banchiere, pur nel ruolo di comprimario rispetto alla BCE, è uno dei capisaldi dell’implementazione delle misure di austerità e predazione dell’Unione Europea verso i paesi periferici. Il tutto dietro l’ipocrita formula dell’ “indipendenza della Banca Centrale”: da sempre dogma neoliberale di chi vorrebbe il manovratore ancora più libero di devastare e saccheggiare territori ed economie, e sempre meno legato ai compromessi dei potentati nazionali in favore di quelli comunitari.
I piani di lettura sono molteplici. C’è il desiderio del bullo di Rignano di uscire dall’angolo in cui è stato relegato dopo il 4 dicembre, con i poteri forti del paese barricati nella difesa ad ogni costo della “continuità”: da un lato all’insegna del duo Gentiloni-Minniti, ma anche delle stanze dei bottoni di un’entità come Bankitalia – la cui presidenza fino a pochissimi anni fa era una carica a vita. E che in questo senso hanno storto il naso davanti ad una legge elettorale che non garantisce una sicura governabilità, peraltro passata grazie ad una seconda forzatura eccellente come il voto a maggioranza alle camere – usato due sole volte nella storia repubblicana.
C’è forse la speranza che, sparando sul quartier generale, si riesca a rottamare un ceto istituzionale giurassico e sostituirlo con persone e pratiche più congeniali al segretario PD. Ciò si intreccia però con la mancata vigilanza di Bankitalia e della CONSOB sul sistema finanziario italiano, dal salvabanche alle obbligazioni subordinate: a tutto vantaggio della rete di potere del clan renziano, da Banca Etruria a Monte dei Paschi di Siena. Impossibile in questo senso non arrivare ad una soluzione di compromesso, troppe le collusioni e i segreti transitati negli ultimi due anni tra palazzo Koch e Partito Democratico.
C’è lo scimmiottamento dell’eterno ritorno berlusconiano, in cui Renzi rattoppa nuovamente i panni del rottamatore. Nel tentativo di rivestire, per l’ennesima volta, i panni di un populismo di governo, in altri tempi funzionale a tenere buono un elettorato esangue dopo la carneficina montiana e desideroso di scrollarsi di dosso una classe politica in decomposizione. Dopo la scalata renziana al PD, che ha finito per destrutturarne l’organizzazione “solida” e la capacità di governance “soft” nei territori tramite i corpi intermedi, riuscirà l’ex-premier a destabilizzare allo stesso modo anche il quadro istituzionale? Più male si faranno lui ed i suoi contendenti meglio sarà per tutt* noi.
Dall’altro versante dell’arco costituzionale c’è stato il referendum a trazione leghista del 22 ottobre scorso sull’autonomia delle regioni Veneto e Lombardia. Un’operazione resa praticabile da due di fattori: uno è la sonora sconfitta di Marine Le Pen alle presidenziali francesi, che ha almeno temporaneamente rintuzzato il cammino salviniano verso un partito sovranista nazionale. Dando spazio alle pulsioni più centrifughe della Lega Nord (che non vanno nemmeno lette come un monolite: il partito non ha mai espresso un segretario veneto – dato non banale considerato il costante supporto mostrato in quella regione – e nelle trattative preliminari con l’esecutivo Gentiloni i governatori leghisti si stanno muovendo in ordine sparso).
L’altro è la concomitanza con gli eventi catalani, con cui vi sono punti di contatto ed ovvie discrepanze che non è possibile esaurire qui. Basti constatare, tagliando con l’accetta, che dopo i movimenti di piazza del 2011 e la strada delle urne (praticata da destra a sinistra) negli anni successivi la forma in cui si sta esprimendo il rifiuto dei vincoli e dello scambio ineguale tra contributi e servizi imposti dagli stati nazionali (e in alcuni casi sovranazionali, come accaduto per la Brexit) è quella del tentativo di secessione di interi territori da essi. Naturalmente la guida, le genesi e gli obiettivi ultimi di questi tentativi possono divergere. Ma persiste il rischio di intrecciarsi con la dinamica delle “due velocità” di recente declinazione merkeliana, che può imporsi come paradigma generale. Il poter “correre” sganciandosi dai “parassiti”, dagli “improduttivi” e dai “corrotti” in questo senso non può che rappresentare un’esasperazione ancora più marcata delle logiche neoliberali. Ricreando quelle disparità (finora viste dalla nostra posizione privilegiata) tra paesi occidentali e paesi in via di sviluppo a macchia di leopardo su tutto il territorio europeo – a scala nazionale, subnazionale e perfino metropolitana. Come emerso di recente con il caso di Londra o della stessa Milano (che non a caso ha espresso la minore affluenza elettorale al referendum) possono perfino essere le stesse metropoli a volersi sganciare dai territori provinciali, a volte da qui nemmeno percepiti come depressi.
Davanti a questi sconvolgimenti ed alle grandi manovre delle cricche di partito come possiamo prendere in mano anche noi il nostro presente? L’arma più a portata di mano è lo sciopero generale del 27 ottobre, che può iniziare ad incidere localmente su un altro grande snodo di decisionalità: la connettività capitalista del mondo (obiettivo strategico del G20 di Amburgo) e la sua deleteria regolazione di spazi e tempi di vita in base alle proprie esigenze. Più che urgente, è necessario presentare il conto a chi pensa di poter giocare un altro turno del monopoli a spese nostre, e senza pagare lo scotto della bancarotta; e a chi intende recintare il proprio orticello padano, relegando territori propri ed altrui (e chi li abita) al ruolo di discariche ambientali, economiche ed umane. La campagna elettorale è aperta, ed è il momento di fare anche noi la nostra parte.
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