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Trump e il “momento fascista” del capitalismo

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Molti provvedimenti di Trump sono in continuità con quelli di Obama, ma va analizzata con attenzione la teoria economica su cui si basa, che dà espressione politica allo spirito del capitalismo del nostro tempo

Malgrado l’introduzione di rigide misure di austerità, applicate soprattutto seguendo le direttive del Washington Consensus [espressione coniata nel 1989 dall’economista John Williamson per indicare una serie di indicazioni del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale destinate ai paesi in crisi, ndt], sembra che il sistema capitalistico globale sia entrato in un periodo di stagnazione, caratterizzato dalla caduta del tasso di profitto, dalla riluttanza delle grandi compagnie a investire, e dall’introduzione da parte dei governi di tassi di interesse molto bassi o vicini allo zero. Tutto ciò è sorprendente, dal momento che la fine della Guerra Fredda, nel 1989, avrebbe dovuto dare il via a un periodo di prosperità capitalista. Invece, come abbiamo visto, il sistema è entrato in una crisi prolungata su più fronti, ravvivando la discussione sulla «stagnazione secolare» tra gli economisti al massimo livello.

Quali sono state e quali sono le cause di questo declino? Io sostengo che la politica economica dell’amministrazione Trump sia una risposta a questa stagnazione. Che dietro al suo comportamento fuori dalle righe ci sia la decisione di incrementare i patrimoni del capitalismo statunitense, restaurarne l’egemonia e stimolare la crescita del sistema capitalistico sotto la bandiera del «Make America Great Again» (Maga).

Per sostenere questa tesi prendo in esame due elementi del pensiero politico ed economico di Trump sulla moneta e lo scambio, e cioè il suo supporto al ripristino del sistema aureo [un sistema monetario nel quale il valore della moneta è fissato dall’oro, ndt] e la sua determinazione nel porre fine alla cosiddetta «santità del contratto».

Trump è un normale politico capitalista?

È stato fatto notare che, sotto molti aspetti, le politiche di Trump sono in continuità con quelle dell’amministrazione Obama, che a loro volta, al contrario delle apparenze, non si erano allontanate molto dal Washington Consensus. Ci sono elementi significativi di continuità tra Obama e l’amministrazione Trump – così come c’erano tra l’amministrazione Carter e quella Reagan.

  • Sull’immigrazione. Gli immigrati senza documenti deportati durante l’amministrazione Obama hanno superato i 2,5 milioni, una stima simile a quella fatta da Trump sulle deportazioni in programma.
  • Sulla guerra. L’esercito statunitense è ora apertamente coinvolto nelle guerre civili in Afghanistan, Yemen, Siria, Iraq, Libia e Somalia grazie alle decisioni politiche di Obama. Trump si appella alla «guerra di civiltà» (rispolverando un’espressione di Samuel Huntington) contro più o meno la stessa lista di nazioni a maggioranza musulmana.
  • Sull’esercito. L’eredità militare di Obama è rappresentata dall’assassinio attraverso droni, con tutte le implicazioni etiche che un simile utilizzo comporta. Come ha scritto Micah Zenko, «Obama ha autorizzato 506 attacchi che hanno ucciso 3.040 terroristi e 391 civili» (New York Times, 12 gennaio 2016), di gran lunga il più imponente uso dei droni nella storia del combattimento bellico. Trump, seguendo Obama, ha auspicato un uso massiccio dei droni. L’enorme numero di armi vendute all’Arabia Saudita sotto l’amministrazione Obama, al tempo in cui l’Arabia Saudita stava già bombardando lo Yemen, e il silenzio di tutti i democratici durante la campagna elettorale sul piano del Pentagono di rinnovare l’arsenale nucleare, per il costo complessivo di un trilione di dollari, indicano nuovamente che, per quanto riguarda l’uso dell’esercito, le due amministrazioni si somigliano molto più di quanto potrebbe sembrare.
  • Sul controllo del capitale sull’economia. Obama ha esplicitamente riconosciuto che il capitale ha un potere pari a quello dello stato, attraverso la sponsorizzazione del Tpp e del Ttip [il Partenariato Trans-Pacifico e il Trattato Trans-Atlantico, due trattati commerciali di libero scambio, ndt] e l’istituzione delle disposizioni sull’«organo di risoluzione delle controversie investitore-Stato». Trump ha eliminato questi organi rituali e ha reso l’Amministrazione il negoziatore diretto del capitale. Ma il suo programma «tutto il potere al capitale» non è più audace nella sostanza di quello proposto da Obama nei trattati di libero scambio, che avrebbero dato un potere assoluto al capitale internazionale, permettendo alle compagnie di bloccare, a tutti i livelli statali, qualsiasi tentativo di «limitare il libero commercio» (cioè di intaccare i loro profitti), oltre al potere di forzare i trasgressori a pagare cospicui risarcimenti.
  • Sulla polizia che uccide i neri. All’indomani dell’omicidio di Michael Brown a Ferguson Obama disse che non aveva «nessuna simpatia per quelli che distruggono le loro comunità». Trump ora reagisce ai Black Lives Matter con i Blue Lives Matter [un contromovimento che sostiene che coloro che sono stati condannati per l’uccisione di un membro delle forze dell’ordine dovrebbero essere giudicati per crimini di odio, ndt].
  • Sugli investimenti infrastrutturali del Governo Federale. L’Amministrazione Obama ha elaborato l’American Recovery and Reinvestment Act del 2009, che destinava più di 800 miliardi di dollari alle infrastrutture. Trump ha promesso altri mille miliardi per le infrastrutture.
  • Su tutti questi temi, anche se l’approccio retorico di Obama era sottile e sobrio mentre quello di Trump è chiassoso e aggressivo, i risultati sono simili.

    Ci sono, ovviamente, aspetti noti delle politiche di Trump che possono essere definiti “anormali”. Le sue dichiarazioni misogine, il suo incoraggiamento a gruppi di suprematisti bianchi, la sua istigazione alla violenza razzista sono stati a lungo considerati inaccettabili nel discorso politico. Inoltre Trump sta portando negli Stati Uniti il trattamento fin qui riservato alle persone dei paesi – Iraq e Afghanistan, tanto per cominciare – che il governo statunitense ha conquistato e colonizzato durante gli ultimi decenni: tortura, incarcerazione, separazione delle famiglie grazie a raid di deportazione e l’incarcerazione in prigioni di confine gestite privatamente.

    Sappiamo inoltre che il Washington Consensus era l’espressione di una politica di ri-colonizzazione delle nazioni uscite dalle lotte contro il colonialismo negli anni Sessanta, un colonialismo che si ripresenta nella forma di un capitalismo che non concede nulla alla working class. Qualcuno ha anche paragonato le politiche di aggiustamento strutturale e neoliberista con le politiche economiche naziste degli anni Trenta. Una teorica sociale di stanza in California, Charley Hinton, ha costruito un modello dell’economia nazista che ne sottolinea le somiglianze: l’obiettivo generale era aumentare la ricchezza della classe corporativa, spesso usando la forza e la violenza, e includendo azioni quali la conquista/il furto/l’espropriazione delle proprietà, l’uso di lavori forzati, e il genocidio. I metodi usati per trasferire la ricchezza dal basso verso l’alto comprendevano:

  • la privatizzazione delle proprietà pubbliche/comunali
  • l’assoggettamento del capitale pubblico agli interessi dei privati
  • una politica di sussidi e sgravi fiscali per le aziende
  • la distruzione dei sindacati, delle leggi sul salario minimo e delle leggi sulla sanità e la sicurezza sociale
  • la riduzione delle tasse sui patrimoni e l’aumento delle tasse per i poveri.
  • Questo modello mostra le continuità presenti fra i regimi di destra come quello di Trump e le politiche economiche dei nazisti, e la fallacia del tentativo di Hanna Arendt di istituire una separazione categorica tra gli stati imperialisti e quelli totalitari.

    L’arte di fare affari o la santità del contratto?

    Trump è perfettamente consapevole che il pensiero neoliberista dei nostri tempi è diverso dalle vecchie forme di conservatorismo. Questa differenza può essere concettualizzata come la fine della «santità del contratto», un principio chiave della dottrina legale della borghesia classica, che Trump ha sostituito con l’«arte di fare affari» [dal suo libro The art of the deal, (1987), ndr.].

    Questa trasformazione è emersa lentamente, e ha origine nelle teorie giuridiche di Carl Schmitt degli anni Trenta, influenzate dal nazismo. Trump ne ha capito il significato politico e lo sta mettendo in pratica. Lo spirito di questa trasformazione può essere descritto al meglio dalla parabola che Donald Trump racconta in quella che ha definito la sua personale «Bibbia», The Art of the Deal:

    «La mia filosofia è sempre stata quella che, se becchi qualcuno a rubare, devi perseguirlo duramente, anche se farlo ti costa dieci volte quello che ti ha rubato. Rubare è la cosa peggiore. Ma con Irving [manager in una delle compagnie di Trump] ero di fronte a un dilemma: era di gran lunga molto più capace di qualsiasi manager onesto avessi mai trovato, e finché il capo fosse stato lui nessuno sotto di lui avrebbe osato rubare. Questo significava che dovevo tenere d’occhio soltanto lui. Ero solito prendere in giro Irving su questo. Gli dicevo: “Ti pagheremo 50.000 dollari, più tutto quello che riesci a rubare”, e lui fingeva di restarci male.

    Se lo avessi beccato nel mentre lo avrei dovuto licenziare su due piedi, ma non è mai successo. E tuttavia riusciva a rubare, credo, altri 50.000 dollari all’anno. Anche così stavo probabilmente facendo un buon affare».

    Trump sapeva che Irving era un ladro, ma era un ladro efficiente. Nel lungo periodo i suoi furti hanno portato a un aumento delle entrate per l’azienda di Trump. Irving violava il contratto lavoratore-datore di lavoro, ma visto che fruttava un aumento dei profitti per Irving e per Trump, quella violazione fu per Trump l’occasione di scherzarci su. L’eccezione, in questo caso, confermava la regola: il furto è un crimine, ma cosa succede se risulta vantaggioso per l’azienda? Una situazione simile può verificarsi quando si rompe un contratto. Cosa succede quando la rottura diventa produttiva per tutte le parti in causa?

    La rottura di un contratto non è un crimine nella legge contemporanea, perché lo stato non è parte in causa in un contratto privato. Tuttavia, quando un contratto viene rotto, la parte offesa può portare il caso in tribunale e chiedere a chi l’ha rotto di pagare i danni. Ma qual è la giusta compensazione per la rottura di un contratto? Perché il querelante dovrebbe ricevere qualcosa che non ha mai avuto?

    Lo sforzo iniziale nel dirimere queste questioni – la dottrina della «santità del contratto» – è stato fatto dalle corti ecclesiastiche nell’ambito del commercio medievale e proto-capitalista. La dottrina della «santità del contratto» considera quest’ultimo anche un documento morale, la cui rottura si riflette negativamente sulla reputazione e il valore etico di chi lo infrange e non solo sui beni oggetto dello scambio. Come ha dichiarato il professor Parry, «la base morale del contratto risiede nel fatto che colui che promette genera con la sua promessa la ragionevole aspettativa di tener fede alla parola data». È ironico che il principale distruttore della dottrina della «santità del contratto» sia il candidato scelto proprio dalle chiese evangeliche (Dio opera in modi misteriosi, a volte persino ridicoli). La borghesia del Diciannovesimo secolo, con tutte le sue contraddizioni, si è presentata sul palcoscenico della storia come una civile «mantenitrice di promesse». Ma questa non è più la descrizione che fa di sé il capitalismo, come ci dimostra quotidianamente Donald Trump.

    Nel 1816 Henry Sumner Maine ha riassunto il movimento dall’antichità alla legge capitalista in una frase memorabile: «dallo status al contratto». Ed è questo che Trump sta desacralizzando: il Sacro Contratto della vecchia classe capitalista. Sta rimpiazzando la transizione dallo status al contratto con una transizione «dal contratto all’affare».

    Capiamo cosa implica. Tu fai un affare, e lo mantieni finché ti fa guadagnare più potere («Fammi vedere i soldi!» è uno dei motti preferiti di Trump.) Altrimenti, l’imperativo categorico è: rompilo il più velocemente e con più efficienza possibile. Non permettere agli scrupoli di frapporsi fra te e il profitto.

    Trump sta invocando l’estetizzazione della politica, non una sua ri-moralizzazione. Chi è avvezzo a fare affari cambia inevitabilmente le regole del gioco, poiché le relazioni di potere che prevalgono quando si fa un affare cambiano col passare del tempo, talvolta limitando il potere del contraente, ed è ridicolo aderire a un accordo che ne limita il potere. È solo quando realizziamo la differenza tra Contratto e Affare, tra l’inadempimento efficiente e la decisione di mantenere le promesse, che possiamo comprendere la capacità sistematica di Trump di pronunciare menzogne plateali senza alcun imbarazzo. Le parole non sono più una proprietà sacra. Il legame delle parole con colui che le pronuncia può essere facilmente ed efficientemente rotto (solitamente con poco danno e molto guadagno per chi lo rompe).

    In realtà questa forma di scambio trumpiana può essere razionalmente ricostruita attraverso l’uso dell’Efficient Breach Theory (Teoria dell’inadempimento efficiente, Ebt) uno dei principali prodotti della crisi di questo periodo. Questo non per dire che Trump ha studiato i testi base dell’Ebt, ma che conosce le forme di neoliberismo della Scuola di Chicago, nella quale è stata sviluppata la Ebt con tutto quello che implica per le pratiche di lotta di classe.

    Per avere un’idea dell’Ebt in azione consideriamo l’esempio di una tipica situazione Ebt così com’era presentata dal famoso Chicagoan Richard Posner nel 1972 nel suo Economic Analysis of the Law.

    Supponiamo che A e B siano d’accordo nel far sì che il 1° luglio B consegni ad A 100 unità di una macchina per il valore di 1.000 dollari, macchine che A prevede di usare per produrre un’altra macchina. Ma C è ansioso di produrre una macchina che richiede proprio la macchina che B sta producendo per A, e il 1° aprile offre a B 2.000 dollari per 100 unità della macchina in questione. Dopo averci pensato un po’, B decide di rompere il suo contratto con A e stringere un accordo con C.

    A porta B in tribunale e, malgrado A non abbia perso nulla di concreto, gli chiede i “danni”. Che danni dovrebbero esserci? Questa è un’area del diritto che, una volta che i suoi aspetti normativi e morali vengono infranti da una guerra interna a una classe o fra le classi, rimane scoperta, ma chiaramente i danni hanno limiti strutturali di massimo e minimo. Il limite massimo è la «libbra di carne» (in altre parole, la morte per il debitore insolvente) mentre il limite minimo è il famoso «schiaffetto sulla mano». Supponiamo che i danni siano la metà di quello che A avrebbe guadagnato se C non fosse apparso sulla scena: A ha investito 1.000 dollari con l’aspettativa di guadagnarne 1.500. 500 dollari sarebbero sufficienti per A come risarcimento? E, ancora più importante: secondo quale diritto A sta chiedendo un risarcimento? Il compratore non dovrebbe fare più attenzione?

    L’Ebt sottolinea che la rottura del contratto originale che i sostenitori della «santità del contratto» ritenevano inviolabile ed erano tenuti a rispettare aveva una caratteristica importante: il valore delle transazioni interrotte era più grande di quello delle transazioni portate a termine. Nel nostro caso, A e B avrebbero guadagnato solo quanto derivava dai termini del contratto, mentre rompendo il contratto A ha ricevuto 500 dollari di danni, mentre B ne ha ricevuti 2000-500 grazie al nuovo affare con il misterioso straniero C, che a sua volta non avrebbe avuto possibilità di produrre e vendere i suoi beni. Il risultato della rottura è un aumento nel valore delle transazioni che avvengono attraverso l’economia. Ma che dire della svalutazione morale che la rottura ha comportato?

    Per secoli la dottrina della «santità del contratto» è stata la principale delle leggi commerciali negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. Sotto la categoria del «contratto sociale», inoltre, la nozione di contratto era anche diventata la base filosofica dell’auto-rappresentazione della classe capitalista. Nella dottrina della «santità del contratto» l’universo morale e quello legale si compenetravano, e la violazione della legge rispecchiava il carattere morale di chi la violava, predisposto in sè alla criminalità. Quante opere di letteratura sono frutto di questa compenetrazione che ha portato a un numero potenzialmente infinito di trame, dalla punizione riservata da Dante a «coloro che rompono i giuramenti» nel 9° cerchio dell’Inferno fino alla «libbra di carne» di William Shakespeare nel Mercante di Venezia e alle parti difettose della bomba di Arthur Miller di Erano tutti miei figli!

    Questa strutturale inesauribilità si è scontrata con l’ascesa del neoliberismo nei primi anni Settanta nella forma della teoria della rottura efficiente (Efb). La teoria venne introdotta da Richard Birmingham nel 1970 e sviluppata poi da Richard Posner – un promettente professore di diritto e giudice del tempo che si specializzò nel rivoluzionare la legge applicandovi gli assiomi del neoliberismo come, ad esempio, il Teorema di Coase nel diritto commerciale.

    Questa teoria esprime lo spirito del capitalismo del nostro tempo, a cui Trump sta dando espressione politica. È una teoria che ha guadagnato consenso sin dagli anni Settanta, insieme con l’ascesa del neoliberismo. Nel suo libro del 1972 Richard Posner sosteneva che se rompere un contratto ti garantisce un vantaggio (e non danneggia gli altri partner del contratto) non dovresti esitare a romperlo! Il principio della «non santità del contratto» è implicito nel rifiuto della rigidità delle relazioni contrattuali, ed è diventato un elemento importante della teoria sociale neoliberista. Anziché essere vilipesa e addirittura soggetta a sanzioni, la rottura del contratto è stata apertamente auspicata. L’idea che uno scambio debba avvenire attraverso canali fissati è stata rigettata. In sostanza, la «santità del contratto» è stata identificata con le catene che il capitale deve rompere. Questa posizione, ovviamente, non è stata priva di avversari anche tra i Repubblicani, e sicuramente ha generato preoccupazione a destra per quanto riguarda contratti e danni, ma sta emergendo una posizione forte, che sostiene che se puoi pagare per i danni, allora puoi anche rompere i contratti che hai stipulato.

    In questo contesto possiamo inserire anche la passione di Trump per l’arte di fare affari. È una politica di manipolazione, vantaggio, unilateralità, di cose che sono unilateralmente imposte, tutte nel contesto di relazioni diseguali e di denigrazione dell’altro contraente.

    Il ripristino del sistema aureo

    Il supporto di Trump alla teoria e alla pratica della rottura del contratto potrebbe sembrare in contrasto con l’altro elemento chiave della sua politica economica: il suo supporto al sistema aureo. Lo ha ribadito molte volte: «riportare in vigore il sistema aureo potrebbe essere una cosa difficile da fare, ma ragazzi, sarebbe fantastico. Avremmo uno standard su cui basare la nostra moneta». E ancora: «eravamo abituati ad avere una nazione molto, molto stabile perché si basava sul sistema aureo».

    In un’analisi della situazione all’inizio dell’amministrazione Trump, Danny Vinik, del giornale Politico, ha sottolineato per esempio che Trump si è «circondato di un gran numero di consiglieri che hanno idee estreme, persino radicali, in termini di politica monetaria». Tra questi consiglieri «almeno sei […] sono intervenuti a favore del sistema aureo».

    Nell’enfatizzare quanto ciò sia inusuale, Joseph Gagnon, professore associato al Peterson Institute for International Economics, ha dichiarato al notiziario che il supporto per il sistema aureo internazionale che circonda Trump «non somiglia a nulla che si sia visto dopo la Grande Depressione». Gagnon, che ha anche lavorato per la Federal Reserve, ha aggiunto: «[per trovare qualcosa di simile] bisogna tornare a Herbert Hoover».

    C’è una relazione stretta tra la teoria dell’Ebt e il sistema aureo. Il successo del passaggio dalla «santità del contratto» all’«arte di fare affari » dipende dal convincere le parti offese che otterranno un risarcimento equo per i danni subiti.

    Più importante ancora, il sistema aureo, nell’immaginario di destra del Ventunesimo secolo, rappresenta il «ritorno del represso», perché il suo principale obiettivo è mettere il Capitale (sotto forma di Natura, e cioè lingotti d’oro) al di sopra del governo, e imporre limiti oggettivi all’azione di governo, sia in termini di deficit finanziario che di vero e proprio esproprio della proprietà privata.

    Come per ogni altro sistema monetario, il sistema aureo non è semplicemente un’invenzione tecnica, ma nasce all’interno di una prospettiva politica. Schumpeter lo ha eloquentemente descritto nel suo personale «addio al laissez-faire», in Storia dell’analisi economica:

    «Una valuta aurea “automatica” è parte integrante del laissez-fairee dell’economia di libero scambio. Collega i tassi monetari e i livelli dei prezzi di ogni nazione con i tassi monetari e i prezzi di tutte le altre nazioni “auree”. È estremamente sensibile alla spesa pubblica e persino agli atteggiamenti o alle politiche che non includono direttamente una spesa come, per esempio, la politica estera, alcune politiche di tassazione e, più in generale, è sensibile a tutte quelle politiche che violano i principi del liberismo economico…».

    In realtà, un’economia governata dal sistema aureo non ha letteralmente alcun bisogno di una politica monetaria, poiché qualsiasi politica viene completamente surclassata!

    «[Il sistema aureo] impone ai governi o alle burocrazie restrizioni molto più potenti di quelle imposte dalla critica parlamentare. È sia segno distintivo che garanzia della libertà borghese – una libertà non semplicemente degli interessi borghesi, ma libertà nel senso borghese del termine».

    La difesa di Trump del sistema aureo punta a delegittimare qualsiasi uso del deficit di bilancio per soddisfare le richieste sociali. È importante leggere il sistema aureo in termini di classe – perché c’è una politica in economia, e c’è una posizione di classe nelle teorie economiche. Storicamente il sistema aureo è stato usato per rifiutare le politiche inflazionistiche, scoraggiando i governi a stampare moneta per soddisfare le richieste della working class e rigettando il finanziamento del debito. È strano che Trump sia un sostenitore del sistema aureo e allo stesso tempo proponga un budget che aumenta enormemente le spese militari e prevede la costruzione di un muro sul confine Stati Unita-Messico. Però è un’opportunità per comprendere la perversione insita nella sua visione, perché le spese militari e il muro sono materia di «sicurezza nazionale», e dunque non soggette a considerazioni economiche. La difesa del sistema aureo ha un obiettivo molto specifico, che punta direttamente alla spesa sociale e sarà verosimilmente utilizzato per dire che l’aumento delle spese militari può essere finanziato solo grazie al trasferimento di fondi dalla sanità, dalla sicurezza sociale, e da altre spese sociali. Un obiettivo che in realtà è uno dei pilastri dell’amministrazione Trump: distruggere ogni diritto collettivo.

    Conclusioni: No Deals

    In questo saggio ho abbozzato la tesi secondo cui una sintesi tra la teoria dell’efficienza della rottura del contratto e il sistema aureo è espressione delle tensioni della politica economica di Trump. È un progetto politico audace, perché mette insieme due metodologie in apparenza diametralmente opposte in un’economia sola, con l’efficienza della rottura del contratto che guarda a un futuro postmoderno e il sistema aureo che si rivolge al passato, una che invoca la fine del moralismo della filosofia di mercato classica e l’altro che propone la semplice regola dell’autonomia di mercato incarnata dai lingotti d’oro.

    Quali sono le conseguenze politiche, se non della fine del contratto, della fine della santità del contratto? Non ci sono conseguenze politiche o etiche per la rottura del contratto sociale per i più forti tra i contraenti, tra coloro che possono cambiare le regole del gioco. Perché uno stato più potente dovrebbe continuare ad accettare un contratto che lo indebolisce nel presente e nell’immediato futuro? Trump la chiama «l’arte di fare affari», non la sua «moralità».

    Trump è un normale capitalista? No, però ciò che è veramente anormale di Trump non sono le leggi specifiche, che sono minestroni riscaldati tratti dall’agenda di destra e presenti sin dall’epoca del New Deal, ma l’attacco di Trump alla nozione stessa di “normale”. L’affare è un contratto privo di santità; è un capitalismo senza volto.

    In conclusione, la rottura del contratto e la lotta ai diritti portata avanti dal sistema aureo rivelano un momento fascista del capitalismo (i marxisti li chiamano periodi di accumulazione primitiva), che diventa predominante in un periodo di stagnazione, come nel 1884 (la Conferenza di Berlino) e negli anni Trenta, duranti i quali si verificarono sia la depressione che l’espansione imperialistica.
    Non c’è più una base su cui accettare le promesse dello stato e del capitale. Nel mondo di Trump non esiste più alcun precedente stabilito o una giustizia sociale, nemmeno a livello teorico. Trump ci sta insegnando che a meno di non farla finita con il sistema capitalistico, persino un piano di riforme non può essere perseguito. Gli anticapitalisti hanno bisogno di rispettare il nemico nel significato originario del termine, ri-spettare, ri-guardare, guardare di nuovo… persino uno come Donald Trump.

    di George Caffentzis*

    * George Caffentzis è professore emerito di filosofia all’università di Southern Maine. Ha conseguito il dottorato di ricerca presso l’Università di Princeton nel 1978. Ha tenuto conferenze nelle università di Stati Uniti e Canada, Europa, Africa e Canada, e Messico ed è uno dei membri fondatori del Midnight Notes Collective. La traduzione è di Gaia Benzi.

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