Turchia, Il sultano non ride più
Dopo 13 anni di successi elettorali incontrastati, il “sultano” Erdogan deve ammettere la sconfitta. Non sono bastate le sue grida isteriche contro gli appartenenti allo “stato parallelo”, contro gli “armeni” del partito di sinistra Hdp, né tanto meno l’utilizzo della repressione contro qualunque forma di dissenso. Alla fine il presidente non è riuscito nel suo intento: conquistare i tre quinti della Grande assemblea nazionale (il parlamento) indispensabili per cambiare la costituzione e ampliare i suoi poteri presidenziali.
Certo, ha vinto. E pure nettamente. Il suo Akp, infatti, si è di nuovo confermato la prima forza del Paese mantenendo ad una distanza di 16 punti percentuali il suo principale oppositore, il partito repubblicano del popolo (Chp). Tuttavia, il calo di consensi è evidente. Nella scorsa tornata elettorale l’allora premier Erdogan aveva ottenuto il 49,83% dei voti, 9 punti in più rispetto al 40,80% di ieri. Tradotto in seggi, questo dato vuol dire aver perso un “tesoretto” di 70 deputati (da 327 del 2011 agli attuali 254/257). Con questi numeri il presidente, rappresentato nel governo dal delfino Ahmet Davutoglu, deve deporre in un cassetto almeno per ora i suoi sogni di “sultanato” rivestito di presidenzialismo. E’ questo il principale elemento politico che emerge dalle urne turche. E’ questo quello che ha voluto esprimere in primo luogo il popolo turco. Se l’Akp è deluso, festeggia il partito del popolo democratico (l’Hdp) che riuscirà finalmente a portare in parlamento i curdi all’interno di uno stesso raggruppamento.
Con i risultati elettorali di ieri si apre ora in Turchia una fase politica incerta. L’Akp (259 seggi sui 550 complessivi) non potrà dare vita da sola ad un esecutivo e, pertanto, dovrà trovare un alleato per allestire un governo di coalizione. La procedura sarà la seguente: il presidente Erdogan dovrebbe chiedere all’Akp (il partito più grande) di presentare un esecutivo entro 45 giorni. Il nuovo governo presenterà alla Grande assemblea il suo programma e su di esso sarà votata o meno la fiducia. Qualora il parlamento dovesse sfiduciarlo, il capo dello stato dovrà indire nuove elezioni. In realtà l’Akp potrebbe guidare il Paese anche con gli attuali numeri. Ma, debole per i pochi seggi, sarebbe sotto minaccia costante dell’opposizione.
“L’Akp ha detto che non accetterà un governo di coalizione, né appare probabile che gli altri 3 partiti accantonino le loro differenze” ha detto ieri sera Kilic Kanat, l’editorialista del quotidiano filogovernativo Daily Sabah. Secondo Kanat, è difficile ipotizzare un’alleanza tra il partito del popolo repubblicano (Chp) l’Hdp e i nazionalisti del Mhp perché sono troppe le divergenze ideologiche tra i tre raggruppamenti. Ancora più improbabile è poi lo scenario in cui i nazionalisti possano scendere a compromessi con una formazione come l’Hdp che è filo-curda.
Viste queste premesse, sostiene Kanat, nuove elezioni potrebbero essere indette tra due mesi. L’unica possibile coalizione sarebbe quella rappresentata dall’ultra destra nazionalista del Mhp con l’Akp. Questa alleanza porrebbe la pietra tombale sul (già fermo) processo di pace con il partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) avviato da Erdogan alla fine del 2012. Le prime dichiarazioni post-elezioni dei nazionalisti sono vaghe. Il loro leader, Bahceli, ha escluso categoricamente qualunque coalizione alternativa. “Dovrebbe nascere un governo armonico. L’Akp si è impegnata a risolvere il conflitto curdo. Perciò, Akp e Hdp dovrebbero stare insieme” ha detto ieri commentando i risultati dello spoglio. Bahceli ha poi aggiunto: “il secondo modello è Akp-Chp-Hdp. Se dovesse nascere questa alleanza, noi saremo all’opposizione.
Se regna incertezza su cosa accadrà nel breve periodo, è possibile però già ora fare alcune riflessioni su quanto è accaduto ieri.
a) La sconfitta di Erdogan
Il calo di deputati islamisti nella Grande assemblea è iniziato nel 2011. Allora, infatti, l’Akp conquistava 327 seggi (con quasi il 50% dei voti) laddove nel 2007 erano stati 341 (sebbene con una percentuale di preferenze leggermente più bassa). Ora assistiamo ad un vero tracollo con 50 parlamentari in meno. Di fronte a questi risultati, stonano le dichiarazioni del premier Davutoglu pronunciate ieri a spoglio concluso: “tutti dovrebbero sapere che l’Akp ha vinto le elezioni. Nessuno dovrebbe parlare di vittoria quando ha perso”. “Questa tornata elettorale – ha aggiunto il primo ministro – ha dimostrato che la spina dorsale della Turchia è l’Akp. L’Akp è in tutte le regioni e province. Faremo di tutto, all’interno del quadro politico, per mantenere la stabilità [del Paese] e dare conforto [alle persone] come hanno fatto i quadri dell’Akp negli ultimi 12-13 anni”. Quello che non ha detto, però, è che ciò a cui miravano gli islamisti non era la vittoria su rivali deboli e divisi (quella era data per scontata), ma la conquista di 330 seggi (i tre quinti della Grande Assemblea) indispensabili per Erdogan per modificare la costituzione del Paese in modo da avere più poteri come presidente. Ma se questo era un obiettivo complicato, molto più alla portata di mano sembrava il raggiungimento dei 276 seggi che avrebbe assicurato al suo partito una maggioranza minima per governare da solo il Paese. Invece anche su questo punto l’Akp ha fallito.
b) Il boomerang del 10%
Molto probabilmente Erdogan e il suo partito hanno pagato a caro prezzo la scelta di mantenere la soglia di sbarramento al 10% (un lascito del regime militare degli anni 80) per salvaguardare la “stabilità politica”. Se il limite per entrare in parlamento fosse stato del 5% o del 7% le cose forse sarebbero andate meglio all’Akp. Se anche non fosse riuscito con i numeri a ottenere il cambio di costituzione, avrebbe potuto conquistare più facilmente una maggioranza parlamentare. Questa possibilità dipende dal complesso sistema elettorale turco che può dare luce a rappresentanze parlamentari non corrispondenti al numero effettivo dei voti ottenuti da un partito. Nel 2002, per esempio, l’Akp ottenne una grande maggioranza, ma solo con il 34% dei voti (cioè 7 punti percentuali in meno rispetto a quest’anno). Inoltre, una soglia alta come quella posta al 10%, ha contribuito a compattare la sinistra che si è presentata unita (non più formata da candidati indipendenti come nelle passate elezioni) e che ha dovuto, per forza di cose, allargare il suo bacino elettorale. Scelte che hanno decisamente pagato.
c) Centralità della questione curda
La presenza massiccia (78 seggi) nel prossimo parlamento della sinistra dell’Hdp mostra quanto le voci delle regioni a sud est della Turchia (dove vi è una forte presenza curda) non possano restare più inascoltate. Il tema della pacificazione del Pkk non può essere una questiona marginale di Ankara. Le grida di gioia e i festeggiamenti di ieri sera avvenuti a Diyarbakir per la vittoria dell’Hdp – descritti con grande pathos anche da buona parte della stampa mainstream occidentale – riportano la questione curda al centro del dibattito politico nazionale ed internazionale. Sarebbe però miope ed errata una lettura che non pone i curdi turchi nel contesto regionale. Quanto accade negli ultimi mesi nella provincia di Hasakeh (nord-est della Siria), dove i miliziani dello Stato islamico (Is) minacciano sempre di più da vicino i territori dei curdi siriani, non può essere disgiunto da quanto accade a Diyarbakir in Turchia e Erbil nel nord dell’Iraq. Sebbene siano in pochi a sottolinearlo in queste ore, la “sconfitta” di Erdogan è stata anche una bocciatura delle politiche scellerate pro-Is (e anti-curde) di Ankara.
d) La sinistra turca ha un leader
E’ stata la vittoria soprattutto di Selahattin Dermitas, il leader dell’Hdp. Dermitas è stato molto abile ad allargare la base elettorale del suo raggruppamento anche ad altre realtà della società turca. Per questo motivo è riduttivo definire la sua formazione politica solo come “partito dei curdi”. Nell’Hdp convivono forze progressiste, ma anche liberali, omosessuali affianco a conservatori musulmani. Dermitas ha messo da parte le istanze più radicali della sinistra per dare la possibilità di unire in un orizzonte comune delle idee fondamentali non negoziabili: il rispetto dei diritti umani, civili e democratici nel Paese. Valori quanto mai avvertiti come necessari ed inalienabili sotto il regime del “sultano” Erdogan. Tuttavia, nel suo accogliere voci diversi, l’Hdp non ha mai strizzato l’occhio al centro sinistra rappresentato dal Chp (il partito kemalista) nel tentativo di costituire con esso un “blocco democratico”. Ha conservato gelosamente la sua identità di sinistra. Commentando l’exploit elettorale di ieri, Dermitas ha affermato: “questa vittoria è di tutti gli oppressi, arabi, ebrei, turchi, curdi, di tutti gli emarginati, dei contadini e dei lavoratori. E’ loro questa vittoria. E’ la nostra vittoria comune. E’ la vittoria di chi vuole una costituzione civile diversa da quella scritta durante il golpe militare. E’ la vittoria di un popolo dalla grande dignità che vuole vivere con onore. E’, in particolare, la vittoria delle donne”. Queste parole srappresentano il manifesto politico dell’Hdp
e) Rimandato il partito kemalista
C’è chi ha provato a sminuire il successo alle urne di Dermitas affermando che molti dei voti ottenuti dal suo partito provengono da sostenitori kemalisti. Secondo questa lettura, infatti, parte dell’elettorato vicino al partito repubblicano avrebbe votato l’Hdp soltanto per fargli superare la soglia del 10% in modo tale da togliere voti (e quindi seggi) a Erdogan. Un passaggio di voti, non ancora quantificabile, indubbiamente ci sarà stato. Ma non sembra avere inciso più di tanto. Il partito di Kemal Kilicdaroglu, infatti, ha praticamente ottenuto il medesimo risultato in termini di voti e seggi di quattro anni fa. Si sono rafforzati i nazionalisti che riusciranno a portare in parlamento 30 candidati in più. Quello che è piuttosto da sottolineare a proposito del Chp è che non è riuscito ad indebolire l’Akp né a scalfire neanche un po’ la sua forza. E’ questo è un problema politico non irrilevante.
f) Lo spirito Gezi
E’ vero che in queste elezioni una gran parte del popolo turco ha detto no al tentativo di Erdogan di cambiare la costituzione. Ma sul banco degli imputati è salita anche la politica economica ed estera dell’Akp. E’ stata la vittoria dei tanti manifestanti scesi in piazza a Gezi Park nel 2013 per opporsi al liberismo sfrenato ricoperto di valori islamici portato avanti dall’Akp. E’ stata la vittoria delle decine di curdi uccisi perché protestavano per il collaborazionismo di Ankara con i miliziani dell’Is mentre la siriana Kobane veniva assediata dagli uomini del “califfo”. La sconfitta del sultano è stata anche una loro vittoria. Un omaggio a chi, in quelle giornate, ha pagato con la vita la dura repressione di Ankara.
Roberto Prinzi per Nena News
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