Tutto il potere al gadget
di BENEDETTO VECCHI
Apple è l’esempio di una impresa di successo costruita sulle macerie della controcultura degli anni Settanta e Ottanta. E sarebbe sbagliato considerarla simbolo dell’innovazione. Un’intervista con il teorico e blogger, autore del pamphlet «Contro Steve Jobs», edito di recente da Codice L’attenzione maniacale verso l’estetica e le tecniche di vendite, rappresentate dagli Apple Store, simbolo delle moderne fabbriche totali
Il titolo è programmatico – Contro Steve Jobs – e non lascia molti dubbi sul suo contenuto. A scriverlo è Evgeny Morozov, teorico dei nuovi media. Nel suo precedente saggio, L’ingenuità della rete, anch’esso pubblicato da Codice, si scagliava contro le tesi di chi vede in Internet uno strumento ontologicamente votato alla libertà. In questo pamphlet il bersaglio è Steve Jobs, l’uomo eletto a simbolo di quel paese di Utopia che la rivoluzione del silicio rende a portata di un click sul mouse.
Nel suo libro, Steve Jobs viene descritto come un uomo del marketing; per molti altri è invece ritenuto un innovatore che si è scontrato con i potenti dell’high-tech (Ibm prima, Microsoft e Google poi). Provocatoriamente: forse è stato solo un innovatore del marketing. Cosa ne pensa?
La chiave per comprendere il successo della Apple è da cercare nella capacità di amalgamare diversi elementi, alcuni dei quali riguardano le esperienze giovanili dei suoi fondatori, mentre altri derivano dalla concezione del design del Bauhaus. Steve Jobs è riuscito ad amalgamare tasselli della controcultura della Bay Area di San Francisco, della filosofia buddista e del design che vengono appunto dalla riflessione della cosiddetta scuola di Ulm per «confezionare» precise strategie di marketing tese a vendere personal computer. Questa sua capacità di miscelare elementi già esistenti non la definirei innovativa. Piuttosto definirei Jobs come un appassionato e spregiudicato etnografo che è riuscito abilmente a incorporare nel suo modello di affari gli aspetti più innovativi di diversi settori.
Rivoluzione, rivoluzionario. Ecco altri due termini associati a Jobs e alla Apple. Forse l’univa rivoluzione a cui Jobs ha dato il suo contribuito è stata quella del personal computer…
Steve Jobs ha sempre detto che produceva computer, da lui chiamati «la bicicletta della mente». Con questa espressione intendeva la produzione di una cosa cheap e accessibile alle masse. Allo stesso tempo era convinto che il suo computer ci avrebbe rafforzato nel fare operazioni che mai avremmo mai immaginato di fare stando comodamente seduti nella propria casa. Va però ricordato che negli anni Ottanta il personal computer consentiva così poche applicazioni che era difficile giustificare gli alti prezzi a cui era venduto. Steve Jobs fu però abile nel chiedere ai potenziali clienti di acquistare una macchina che serviva a ben poco, ma che in futuro sarebbe diventata indispensabile. La sua abilità è stata di accreditarsi come un critico verso il potere oppressivo delle big company di quel periodo. Per promuovere i suoi computer, parlava di una tecnologica che avrebbe consentito una radicale decentramento del potere, dichiarando la sua simpatia per il «piccolo è bello». Inoltre, sosteneva che si stava battendo per svelare gli oscuri segreti della tecnologia per renderla a portata di mano del popolo. Il popolo ha quindi comprato quella macchina più per una ragione ideologica che per la sua effettiva utilità.
Uomo freddo, distaccato, quasi anaffettivo, ma che ribadisce la propria fedeltà ad alcuni aspetti della controcultura statunitense. Il rifiuto dell’autorità, la valorizzazione del talento rispetto invece al potere burocratico delle grandi imprese. Insomma, un uomo contraddittorio. Non crede che il mito attorno a lui provenga proprio da questa contraddittorietà?
Non sono sicuro che la maggioranza del pubblico americano fosse a conoscenza del pessimo carattere di Steve Jobs prima che lui morisse. La creazione del «mito Steve Jobs» è infatti avvenuta dopo la sua morte. Come Ronald Reagan, Jobs è stato rappresentato come un «teflon ceo», cioè un uomo integro la cui immagine non poteva essere scalfita da nessun pettegolezzo o calunnia, al punto che in molti lo hanno definito come un Thomas Edison del nostro tempo. C’è infine un altro aspetto interessante nella costruzione del suo mito. Mi riferisco al passaggio dalla controcultura radicale degli anni Settanta a personaggio simbolo del capitalismo più spregiudicato, schierato fino in fondo a difesa del libero mercato. Bene, quel passaggio è stato elaborato come la conversione alla rude religione del capitalismo di un’intera generazione. Più o meno come Stewart Brand, ispiratore del «Whole Earth Catolog», la bibbia della controcultura della Bay Area degli anni Ottanta, diventato poi un boss di una società di consulenza delle multinazionali che opera a livello mondiale. Steve Jobs però ha sempre sottolineato la continuità tra la sua giovinezza ribelle e la maturità di uomo d’affari di successo. In fondo è diventato ricco e famoso accreditandosi come l’anti-Bill Gates.
Mi ha interessato molto la parte del suo libro rispetto alle prese di posizione di Steve Jobs sulla «dimensione morale della tecnologia». Ne esce fuori un atteggiamento di diffidenza, se non di ostilità verso le macchine. Ma poi lo stesso Jobs inonda il mondo di gadget elettronici che di morale ben poco hanno. Di nuovo, provocatoriamente: non è questa attitudine antitecnologica che ha consentito alla Apple di apparire come una impresa friendly, vicina ai clienti?
Steve Jobs si è sempre mosso come se vivesse in due mondi distinti. Da una parte ha parlato della tecnologia come un accessorio che poteva migliorare la condizione umana. Un accessorio tuttavia che merita sempre una attenta valutazione per verificare se corrisponde ai nostri valori morali. Allo stesso tempo è vissuto in un mondo rozzo che strumentalmente induceva a usare banali gadget tecnologici dalla dubbia utilità. Da una parte, quindi, l’uomo spirituale, dall’altra l’uomo d’affari spietato. Non è un caso che alcuni lo hanno descritto anche come un filosofo. L’accento antitecnologico a cui lei fa riferimento presente un aspetto interessante. Steve Jobs sosteneva che la tecnologia dovesse essere invisibile per chi la usava. Se mettiamo questa affermazione a confronto sulle sue idee attorno alla indispensabile moralità della tecnologia notiamo una contraddizione. Se una tecnologia è invisibile, gli umani non possono controllarla pienamente e ne diventano alla lunga prigionieri. Una contraddizione che l’uomo d’affari risolveva producendo gadget gradevoli, fascinosi e facili da usare.
Ogni persona che si avvicina a un Apple Store rimane colpito da due cose: l’atteggiamento mistico di molti potenziali acquirenti e dei commessi che ci lavorano. Sembra quasi di vedere in azione una setta che indica la via buddista o zen al nirvana tecnologico. Cosa ne pensa della visione millenaristica che trasuda negli Apple Store?
Non credo proprio che gli Apple store siano espressione di una impresa che segue il verbo buddista. I buddisti non darebbero infatti il loro consenso per l’acquisto di costosissimi gadget. Ne sarebbero d’accordo con chi sostiene che il consumo di gadget conduca alla propria salvezza spirituale. Quando era giovane, Jobs criticò più volte l’ossessione per il possesso. Poi invece ha costruito le sue fortune economiche proprio nel consumo e nel possesso di oggetti. Gli Apple store sono stati giustificati in base a un semplice ragionamento: entri, usi un computer, un iPod o un iPad per verificare le loro qualità. Ma se entri in un Apple Store l’esperienza è molto diversa da quella che propagandava Jobs, perché sei avvolto in una spirale emotiva in base alla quale chi compra Apple entra a far parte della schiera degli eletti. Servono cioè a vendere, alimentando il mito di una tecnologia morale. E non è un caso che anche la Microsoft ultimamente abbia cominciato ad aprire dei Microsoft Store.
Lei scrive del «paradigma delle applicazioni». Mi sembra questa la vera novità dell’ultimo periodo di Steve Jobs. Lei scrive che questo potrebbe «uccidere» la Rete. Non le sembra che il paradigma delle applicazioni prefiguri una situazione in cui i singoli sono vincolati a una impresa – la Apple in questo caso – per stare connessi, con buona pace della libertà di scelta che a Cupertino viene considerata una specie di religione?
Il cosiddetto paradigma delle applicazioni non è stato sviluppato dalla Apple, bensì in Giappone e in Sud Corea negli anni Novanta. Inoltre, non solo la Apple fa leva su tale paradigma. Anche Google lo applica al sistema operativo Android sviluppato per i telefoni cellulari. Nel mio libro scrivo che tale paradigma può soffocare il Web, ma non dico che la Apple sarà la sola responsabile. Molte altre imprese high-tech hanno infatti imboccato quella strada. La cosa interessante è che alla Apple percorrono questa strada ripetendo come un mantra il motto «think different». In termini molto semplici: se vuoi pensare differente, rivolgiti a un unico committente, che pensa differente proprio come vuoi fare tu. Anche in questo caso ci troviamo di fronte alla costruzione di una linea di continuità tra le origini controculturali di Steve Jobs e il suo successo come uomo d’affari. Non sappiamo però cosa significherà nel prossimo futuro il «pensare differente». Forse sarà svuotato di ogni pretesa filosofica e rimarrà solo una specie di marchio di fabbrica.
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(*) Scettico, neoapocalittico. Irriverente, radical. Gli aggettivi non hanno mezze misure quando si scrive di Evgeny Morozov, teorico dei media noto per il suo saggio sull’Ingenuità della Rete (il titolo inglese, Net delusion era più aderente al contenuto) e per il blog dove commenta la vita dentro lo schermo, attività che gli aperto le porte di molte e impostanti redazioni («Wall Street Journal», «Financial Times», «Washington Post»). E se nel precedente volume si scagliava contro la visione della Rete come una sorta di organizzazione politica in divenire per sovvertire l’ordine globale, in questo pamphlet se la prende come uno dei miti dell’era digitale, cioè Steve Jobs. Morozov assume fino in fondo il profilo di Jobs che emerge dalla sua biografia autorizzata scritta da Walter Isaacson e pubblicata dopo dopo la morte del fondatore della Apple (in Italia è stata pubblicata da Mondadori), ma ne cambia di segno. A differenza di Isaacson, infatti, Morozov interpreta la contraddittorietà del personaggio sono da leggere come l’azione contraddittoria, certo, ma tuttavia coerente di un astuto e spregiudicato uomo di affari che non si ferma davanti a niente pur di raggiungere il suo obiettivo: diventare, appunto, un mito. Steve Jobs, annota il teorico bielorusso, è figlio, ma anche responsabile di una «bancarotta dell’immaginazione sociale» che, si può aggiungere, è avvenuta dopo la sconfitta delle controculture degli anni Sessanta. La Apple è cioè l’impresa che meglio di altre ha costruito le sue fortune sulle macerie prodotte di quella sconfitta.
Ma il volume di Morozov non è interessante perché svela la capacità di Steve Jobs di assumere alcune tematiche di quei movimenti sociali e utilizzarle per fare profitti. Ci sono stati molti altri libri che lo hanno fatto – per l’Italia vale citare iJobs di Riccardo Bagnato (Manni) e il volume collettivo Mela marcia (Agenzia X) -, ma pochi hanno sottolineato l’ultima fase della Apple. Il riferimento è al cosiddetto «paradigma delle applicazioni». Per semplificare, basta ricordare che nel periodo successivo all’acquisto di un iPod o di un iPad o di un notebook, scatta l’operazione di caricamento delle «applicazioni», cioè di programmi informatici specifici per compiere alcune operazioni, come scaricare musica, leggere giornali, vedere film e molte altre ancora. Alcune sono a pagamento – pochi dollari o euro, che vanno comunque a riempire le già floride casse della Apple -, altre no, ma quello che conta è che così facendo Apple diventa la piattaforma per entrare e stare in Rete. In un pessimo lessico manageriale, è un’operazione di fidelizzazione del consumatore. Steve Jobs però voleva molto di più che la fedeltà. Puntava a creare una cloud computing che avvolgeva gli utenti come un batuffolo di cotone quando si è infanti. Ci si sente protetti e, cosa più importante, basta solo muovere le mani su un video e il resto viene da sé. La tecnologia diventa invisibile, ma amichevole. È questa la vera scommessa di Steve Jobs. E che per il momento è stata vinta dalla Apple, nel senso che la società fondata da Steve Jobs è quella che è riuscita a elaborare il primo cloud computing che produce profitti. Da questo punto di vista, gli Apple Store sono davvero il luogo in cui la cloud computing viene costruita e continuamente riprodotta, in un clima euforico e entusiasta che ricorda più un clima da Big Brothers che non un posto dove si «pensa differente».
Poco serve discettare se questa è innovazione o meno. Più realisticamente è sussunzione dell’intelligenza collettiva. È questa l’eredità che Steve Jobs lascia. Che sia dilapidata o meno, sarà il tempo a dirlo. Quel che conta è che la Apple ha elaborato un modello di business «totale». Produce in appalto presso grandi sweatshop dove chi lavora è quasi uno schiavo – e che spesso si suicida -, elabora gadget sobri e eleganti che sfruttano il design più glamour che esiste e vende in locali che promettono un’intensa emozione. È la fabbrica totale. Cioè una realtà anni luce da quella controcultura saccheggiata a piene mani dopo che si era consumata la sua sconfitta.
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