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Una rapina di classe chiamata flat tax

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Per quanto in secondo piano rispetto alla strumentalizzazione del tema dell’immigrazione, nel contesto della presente campagna elettorale il tema del reddito sta assumendo una indubbia centralità, diventando cuore di alcune proposte in campo economico da parte dei partiti. Tra queste proposte va menzionata la “flat tax”, propugnata dalla coalizione di centro destra.

Essa riecheggia il recente provvedimento adottato da Trump in America, ed è disegnata a partire da una visione pesantemente reazionaria in materia fiscale, imponendosi come punto cardine del programma economico di Berlusconi and co., ed è interessante analizzarla per quello che rappresenta: una vera e propria rapina su base di classe.

Ideata negli anni cinquanta da Milton Friedman, uno dei più importanti ideologi del neoliberismo e maitre a penser della politica economica di Pinochet in Cile, la flat tax sul piano teorico prevede un sistema di tassazione ad aliquote fisse, che cioè non aumentano con la crescita dell’ammontare del reddito. Questa idea generica può essere declinata secondo una pluralità di metodi. Per quanto riguarda le proposte effettive in campo nelle circostanze a cui ci riferiamo, essa dovrebbe comportare una trasformazione delle modalità di imposizione sul reddito, costituendo una tassa unica al 15% o al 24% che andrebbe a sostituire l’attuale sistema di tassazione IRPEF basato su aliquote progressive.

Secondo i suo sostenitori, la flat tax dovrebbe segnare un importante momento di svolta per l’economia italiana rispetto a molti punti di vista. Da un lato consentirebbe un complessivo alleggerimento della pressione fiscale, cosa che andrebbe a vantaggio sia dei cittadini meno abbienti, per i quali si allargherebbe contemporaneamente la no tax area nell’ottica di preservare una qualche progressività della tassazione. Dall’altro, ne beneficerebbe il sistema produttivo, nella misura in cui la riduzione dell’imposizione potrebbe costituire un importante incentivo per nuove assunzioni o aumenti salariali ai lavoratori.

Allo stesso tempo, sempre secondo i sostenitori di questa riforma, essa sarebbe anche un importante mezzo di lotta all’evasione fiscale, nella misura in cui la riduzione delle aliquote porterebbe naturalmente all’emersione di una significativa parte di redditi in nero o dichiarati all’estero. Ma conosciamo benissimo la realtà dietro questa retorica, sappiamo bene che il problema non è mai stato reperire le risorse per programmi sociali, bensì la volontà politica di implementare per davvero questi ultimi.

Dietro questo meraviglioso paradiso ci sono tutta una serie di implicazioni meno sbandierate. Il rientro di liquidità nelle casse statali in ragione della supposta riduzione dell’evasione, ad oggi indicato come principale fonte della copertura della flat tax secondo i suoi sostenitori, non sembra in alcun modo costituire un supporto sufficientemente stabile per garantire questo tipo di operazione. Negli USA la Apple ha riportato diversi miliardi dopo la flat tax di Trump, ma tutti quelli che gli sono stati “condonati” avrebbero potuto offrire ben altro sostegno economico alla middle class impoverita di cui Trump si è eretto ad alfiere. Il punto diventa allora capire da dove verranno tirati fuori i soldi per coprire il taglio delle tasse ai ricchi.

Come dimostrano la maggior parte dei paesi in cui si è tentato di applicare un sistema del genere, l’unico meccanismo in grado di compensare un tale abbassamento del gettito fiscale diventa allora, in tendenza con le riforme degli ultimi anni, un’ulteriore riduzione della spesa per i servizi pubblici e per le prestazioni di welfare nel loro complesso.

Da questo punto di vista risulta evidente come la flat tax non sia altro che un progetto marcatamente classista, atto ad abbassare in proporzione i costi per i ricchi a discapito delle fasce sociali a basso e medio reddito, su cui peserebbe l’ulteriore riduzione del paniere di servizi pubblici garantiti. Per fare pagare a un industriale che guadagna un milione di euro annui 200.000 euro invece di 400.000, si taglieranno fondi a scuole, ospedali, piccole opere di messa in sicurezza dei territori?

Nell’ovvia mancanza di un meccanismo che imponga un utilizzo sociale delle risorse guadagnate dal rientro dei capitali all’estero, non sarà quindi assolutamente sicuro il miglioramento complessivo delle garanzie sociali per i ceti più svantaggiati. Un progetto che mira sostanzialmente ad un alleggerimento della pressione fiscale soprattutto indirizzato ai redditi da capitale all’interno della drammatica condizione del mercato del lavoro prodotta dal Jobs Act non potrà che che restituirci la sola immagine di un nuovo tentativo di spostare l’equilibrio della contrattazione sociale a vantaggio delle classi padronali.

In sintesi possiamo dire che la flat tax risulta essere un’ottima cartina di tornasole dell’attuale campagna elettorale in cui i politicanti non propongono niente di più che una prospettiva di inasprimento delle medesime politiche di impoverimento e aumento della diseguaglianza prodotte con particolare durezza nell’arco di questo decennio di crisi.

Non è un qualcosa di riferibile al solo centro-destra: la campagna sociale contro i lavoratori e i poveri promossa dal PD non è altro che il brodo di coltura di provvedimenti così reazionari, che vanno compresi all’interno della messa in discussione dei criteri di redistribuzione della ricchezza sociale. Riprendere il “chi decide sulle risorse pubbliche?” affermato in primis dal movimento notav durante il suo percorso politico ritorna così ad essere punto di vista preliminare per poter muovere battaglia contro la sostanziale rapina di classe di cui consisterebbe una riforma economica del genere.

 

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