It’s the economy, stupid! Alcune considerazioni post-voto
Alcune considerazioni sui trend fondamentali delle elezioni politiche del 4 marzo.
Il voto di domenica può e deve essere letto in primis a partire dalla considerazione della dinamica politica globale, dal suo inserimento in trend sistemici di carattere transnazionale. I significati della Brexit e della vittoria di Trump erano stati negli scorsi mesi rimossi, espunti dall’analisi, come se fossero episodi eccezionali, dovuti ad una improvvisa irrazionalità del corpo elettorale.
Le vittorie di Macron in Francia e la tenuta, seppur indebolita, dell’accordo CDU-SPD in Germania avevano fatto pensare ad un ritorno alla stabilità, da confermare anche nel nostro paese anche grazie ad una legge elettorale disegnata per favorire un ipotetico scenario di larghe intese tra Renzi e Berlusconi.
Ma così non è stato. La rude razza pagana sarà rude, ma certo non incapace di comprendere la propria realtà. E in un contesto di devastazione sociale evidente soprattutto da una prospettiva periferica rispetto ai grandi centri, ha votato per chi offriva una proposta di rottura e cambiamento, al di là delle forme discutibili in cui veniva proposto. E’ questo il primo dato. Che a suo modo esemplifica anche, più che una PASOKizzazione del PD, una grecizzazione del panorama politico italiano: un crollo dal 70 al 30% tra 2008 e 2018 della base elettorale delle principali formazioni di centrodestra e centrosinistra, unito alla traslazione di retoriche securitarie e razziste dall’estrema destra verso di esse.
Checchè ne dica Renzi nel suo arrogante discorso di (non)dimissioni, è proprio l’assoluta mancanza di ripresa economica, di miglioramento anche minimo delle condizioni di vita, ad aver condannato il PD al peggiore risultato della sua seppur recente storia. Il passaggio su Minniti, definito da Renzi perdente nonostante fosse stato osannato da tutto l’arco politico e della cittadinanza, è l’esemplificazione di questo discorso.
Oltre a rivelare che anche ai piani alti troppo spesso non si capisce di vivere immersi in vere e proprie “bolle” informative, il tentativo piddino di edulcorare con una svolta securitaria i disastri sociali realizzati in politica economica è fallito miseramente. Ancora una volta, il vecchio detto per il quale le elezioni si vincono sull’economia ha confermato la sua fondatezza.
I CinqueStelle e la Lega hanno vinto la consultazione proprio su questo tema. La proposta del reddito di cittadinanza ha permesso al CinqueStelle di vincere la contesa al Sud, dove nessuna proposta politica aveva un radicamento sul territorio e una credibilità politica tale da contrastare la relativa novità dei pentastellati. Il radicamento leghista al Nord ha permesso invece a Salvini di ottenere il miglior risultato nella storia del partito, premiando la scelta nazionale e quella di puntare sull’economia come elemento chiave di una campagna giocata intorno a pochi punti chiave e individuati chirurgicamente.
In pressochè ogni tribuna politica, Salvini e i suoi si scagliavano contro il JobsAct, la Legge Fornero, addirittura sulle modalità di conteggio dei dati sull’occupazione. Il trionfo salviniano non è stato dunque dovuto unicamente al tema migratorio e securitario, per cui la Lega è notoriamente all’avanguardia in senso reazionario, ma anche economico. Tanto è vero che nelle Marche, e in particolare a Macerata, luogo della tentata strage di Traini, la Lega ha avuto consensi intorno al 20%. Mentre Minniti si è salvato solo al ripescaggio arrivando terzo nel suo collegio di Pesaro.
Nessuna Italia divisa in due quindi, nessun ridicolo ragionamento “biologico-culturale” tra un Nord razzista e un Sud qualunquista e arraffone, ma semplicemente due risposte declinate in maniera differente ad un unico tema dominante, quello dell’impoverimento. Ma anche qui, attenzione: se la Lega sembra aver effettuato un exploit dovuto anche ad un crollo di credibilità del centrodestra moderato (ancora Berlusconi!) il CinqueStelle ha ottenuto punte del 20% in regioni come la Lombardia, in una performance assolutamente strabiliante rispetto al territorio in questione, dominato da reti di potere e clientele veramente potenti e di lunga durata.
Emerge quindi come dato di questa tornata elettorale la possibilità che il M5S si possa considerare non più come una forza anti-sistema, come scioccamente Renzi continua a definirla, bensì una nuova opzione di stabilizzazione sistemica, capace di rappresentare in senso ampio una fascia maggioritaria della popolazione. Soprattutto quella più svantaggiata in termini di ricchezza complessiva posseduta come giovani, studenti e disoccupati, orientando i possibili rancori in termini di compatibilità e proposta riformista.
Basti pensare che il CinqueStelle ha raccolto più del 50% tra i disoccupati, cannibalizzando soprattutto il PD in termini di elettori “scippati”. Tanto è vero che tra gli analisti già chi definisce i grillini il nuovo PCI, o quantomeno il nuovo possibile pilastro di “centrosinistra” di una Terza Repubblica in formazione. Sarà proprio lo scontro interno al PD sulla possibilità o meno di appoggiarne un esecutivo a darci la risposta. Ci sarà il via libera della finanza europea e americana ad un tale scenario? Mattarella e Gentiloni riusciranno a fare fuori Renzi e a imporre un nuovo scenario di governo, probabilmente gradito a Bruxelles? Lo si saprà a partire dai giorni di elezione dei presidenti delle camere.
Si conferma intanto una disponibilità a forme di rottura permanente: in qualunque luogo a vincere è stata sempre l’opzione di rinnovamento, basti pensare a Roma e Torino, dove i CinqueStelle hanno ottenuto risultati peggiori alle aspettative quasi sicuramente scontando il deficit dell’essere esperienza di governo sul territorio. La Lombardi avrebbe probabilmente conquistato la Regione senza la Raggi. Va anche detto che anche in Italia si conferma la dinamica dell’assedio delle periferie, territoriali e sociali, ai centri. Nelle grandi città, come ad esempio Milano, Roma, Bologna, il PD ha ottenuto i risultati migliori, mentre crollava in senso assoluto al di fuori delle loro mura.
Senza rinunciare a dare battaglia all’interno di queste cittadelle del decoro, della creatività e dei flussi economici globali si apre la sfida, lanciata a Piacenza e Macerata, dell’interrelazione con i contesti periferici e provinciali (che altrove hanno portato acqua al mulino dei Trump, dei Farage e degli Erdogan) da parte di chiunque aspiri ad un’inversione di rotta permanente e non di facciata.
La dinamica propria di Brexit e elezioni americane sembra riproporsi così anche dalle nostre latitudini, portando con sé anche il definitivo trionfo dell’ipotesi xenofoba e razzista come dato di fondo implicito nei discorsi e nelle pratiche dei partiti vincitori. Chi si rallegra ed esulta delle sconfitte innegabili di Casapound e Forza Nuova sottovaluta il fatto che queste formazioni hanno avuto un concorrente che tra Salvini e Meloni ha raggiunto il 20%. Il fascista del voto utile ha battuto l’opzione più ideologicamente pura, ma il risultato non è certo da festeggiare.
Il “Prima gli Italiani!” era stato sdoganato a livello mainstream sia dal PD dell’aiutiamoli a casa loro renziano e dei lager libici di Minniti, sia dall’esplicito accordo alle politica della preferenza nazionale espressa da DiMaio and co. La trasversalità dell’opzione suprematista assume così un carattere statutario, divenendo costituzionalmente implicita in ogni opzione di amministrazione statale. Non c’è stato senza suprematismo al tempo della globalizzazione neoliberista, che utilizza anche il nazionalismo per mietere profitti “ballando” sulle differenze sociali ed economiche per metterle a profitto. E’ il caso di metterselo in testa, e di fare lo sforzo di organizzarsi oltre.
Del resto le percentuali dell’astensionismo – mai così alto nella storia repubblicana sebbene aumentato del solo 3% rispetto al 2013 – si caratterizzano per racchiudere al loro interno un elettorato senza dubbio posizionato a sinistra. Mostrando che ne LeU nè PaP sono riusciti a portare nell’urna chi se ne era allontanato. La prima per evidenti motivi di consistere in una palesemente “finta” alternativa. All’altra va riconosciuto di aver provato a riempire uno spazio lasciato vuoto dall’attivismo della Rifondazione Comunista che fu, attivando energie soprattutto in alcuni territori periferici; ma anche di non essere riuscita a venire a capo di una serie di contraddizioni rispetto al tema lavoro/reddito, nè ad ottenere fiducia sulla ipotesi di cambiare anche in minima parte i rapporti di forza dal dentro. Il problema oggi per le lotte rimane creare e organizzare contro.
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