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Una teoria della storia come macchina del tempo

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Pubblichiamo questo interessante estratto del libro “Il capitale è morto. Il peggio deve ancora venire” di McKenzie Wark in pubblicazione per Neroedition apparso su Not. Il testo ci pare molto interessante e coglie alcune delle questioni centrali dell’oggi, tra cui lo scontro tra il modello di produzione industriale classico e il “capitalismo delle piattaforme” vinto da quest’ultimo, il superamento della fase neoliberale e l’itinerario storico cinese. Ci convince di meno l’ipotesi di una “morte del capitalismo” (per quanto i tetri scenari siano tutt’altro che irrealistici) con le sue implicazioni politiche e strategiche, per più ordini di motivi, ma rimane una provocazione interessante e suggestiva.

Non sappiamo più cosa sia il socialismo, o come ottenerlo,

eppure resta il nostro obiettivo.

 Deng Xiaoping

Mettiamo che hai una macchina del tempo. Diciamo che la fai viaggiare fino a tornare alla metà degli anni Settanta del secolo scorso. Una volta a destinazione, ne esci fuori e vai alla ricerca delle persone che, a quei tempi, erano importanti. Spieghi loro alcune cose di quanto sta succedendo nel XXI secolo. Alcune delle storie che racconti per alcune di queste persone hanno senso, altre sembrano del tutto folli.

Per esempio, mettiamo che la macchina del tempo ti abbia portato nella Cina della metà degli anni Settanta, e ti trovi a spiegare che, entro la fine del secondo decennio del secolo successivo, il destino dei mercati globali sarà nelle mani del Partito Comunista Cinese. Suonerebbe abbastanza folle. Tra la metà e la fine degli anni Settanta, la Cina ha visto la caduta della Banda dei Quattro, il maoismo all’acqua di rose di Hua Guogeng e, infine, l’ascesa al potere di Deng Xiaoping. Ma persino allora la Cina attuale sarebbe stata inimmaginabile per chiunque – tranne che per Deng Xiaoping.

Se viaggiassi con la macchina del tempo fino all’Unione Sovietica della metà degli anni Settanta, le reazioni sarebbero più diverse. Leonid Brežnev è al potere da più di dieci anni, e sembra che lo sarà per sempre. Le guerre per procura non vanno poi così male, visti i buoni risultati in Angola e la vittoria schiacciante in Vietnam, almeno fino all’invasione sovietica dell’Afganistan nel 1979. Probabilmente incontreresti degli ideologi che pensano che vada tutto bene e che devi essere fuori di testa se pensi che finirà tutto prima dell’inizio degli anni Novanta. D’altra parte, l’economia arranca, la produttività è a zero, l’esercito consuma buona parte delle risorse. E forse Vladimir Putin, che è entrato a far parte del KGB nel 1975, sta iniziando già a pensare a come proseguire la sua marcia verso il potere senza dover credere davvero in quel particolare tipo di potere.

 

Se portassi la macchina del tempo negli Stati Uniti nella metà degli anni Settanta, forse la confusione la proveresti tu. Jimmy Carter è presidente, New York è in bancarotta e a pezzi, Microsoft è appena stata fondata. Se raccontassi il crollo dell’Unione Sovietica agli «intellettuali» dei think tank dell’epoca, otterresti anche in questo caso delle reazioni contrastanti. Non dimentichiamo che gli antenati dei neo-conservatori di oggi erano abbastanza sicuri che non sarebbe potuto succedere. L’Unione Sovietica, per loro, non era seplicemente uno Stato repressivo come gli altri. Era uno Stato totalitario, che si era infiltrato a tal punto in ogni aspetto della vita quotidiana da non poter essere abbattuto da forze interne, ma solo dall’esterno – armando i militanti islamici per combatterlo in Afganistan, per esempio.

Ma se ne avessi parlato coi neoliberali, avrebbero capito. Non facevano che dire che una pianificazione non poteva funzionare perché è un modo troppo goffo di organizzare l’informazione in un’economia, e l’informazione è al cuore dell’economia. Ma i neoliberali, a quei tempi, non avevano una grande influenza, il loro momento non era ancora arrivato. E quando parlavano di informazione, in realtà parlavano soltanto di mercati. Nemmeno loro avevano modo di sapere perché la nascita di Microsoft sarebbe diventata una cosa così importante (anche se poi fecero finta di sì).

È un luogo comune pensare che l’Unione Sovietica sia morta e sepolta e che la Repubblica Popolare Cinese sia sempre più simile all’Occidente sotto ogni aspetto tranne quello politico. Ma esistono punti di vista diversi. Uno di questi è che, lungi dall’appartenere al passato, il «comunismo» è vivo e vegeto e ancora fondamentale in buona parte del pianeta. I cento milioni di aderenti al Partito Comunista cinese governano su qualcosa che è meno simile all’Occidente «neoliberale» e più simile a quello che sarebbe stata l’Unione Sovietica se avesse mantenuto la rotta attenendosi alla Nuova Politica Economica, in vigore dal 1921 al 1928. Per inciso, Deng Xiaoping andò a Mosca e vi rimase per un breve periodo proprio in quegli anni. Chissà se ha coltivato per cinquant’anni il progetto di una specie di «socialismo» ispirato alla Nuova Politica Economica, prima di riuscire a costruirlo e guardarlo defluire.

 

Lo spettro che infesta l’Europa e che infesta buona parte del mondo è lo spettro dell’anticomunismo. Potrebbe essere utile immaginare che non sia stata solo l’Unione Sovietica a morire; la sua metà corrispondente, il cosiddetto mondo libero, forse è morto con lei. Certo, non era poi così libero se si pensa ai pestaggi, alle torture, agli omicidi e ai massacri perpetrati dell’esercito statunitense e dai suoi delegati in ogni parte del mondo: si pensi a Suharto in Indonesia, a Pinochet in Cile, a Mobutu in Congo e allo Scià dell’Iran; anche questi criminali macellai facevano parte del mondo «libero». E negli stessi Stati Uniti, la risposta dello Stato alla Liberazione nera è stata l’incarcerazione di massa. D’altra parte, un piccolo fattore che ha contribuito al parziale successo della socialdemocrazia e dei diritti civili in Occidente è stato la necessità di contendersi la lealtà con il comunismo internazionale, che almeno rivendicava una narrazione basata sulla giustizia universale e sulla vittoria finale di una forma di vita superiore.

Anche i nemici del comunismo hanno dovuto ammettere che si trattava di una storia piuttosto avvincente. C’era il feudalesimo, adesso c’è il capitalismo e al suo fianco il socialismo, che si evolve in comunismo e lì finisce la Storia. «Vi seppelliremo», disse Chruščëv nel 1956, quando la gente ancora prendeva sul serio quello che dicevano i leader sovietici. Le menti più celebrate dell’Occidente facevano del loro meglio per inventare grandi narrazioni mitico-epiche-poetiche che potessero essere altrettanto avvincenti, ma in cui il Mondo libero era il futuro e non il passato. Un numero sorprendente di queste menti erano marxisti e socialisti pentiti: James Burnham con la sua rivoluzione manageriale; Daniel Bell con la società postindustriale; Walt Rostow, coi suoi stadi della crescita e la teoria del take off; lo shock del futuro di Alvin Toffler.

 

La maggior parte di queste teorie evitava di pensare al conflitto di classe. In questo senso si rifacevano più a Saint-Simon che a Marx. Erano storie che parlavano di tecnologia e progresso o, per dirla in termini odierni, di accelerazione. In realtà i marxisti sono arrivati prima di loro anche all’accelerazionismo. Questa parte della storia viene trascurata da ogni parte. Se esiste un accelerazionista originario, era J.D. Bernal, l’eminente scienziato britannico che negli anni tra le due guerre mondiali scrisse uno stupefacente trattato accelerazionista intitolato The World, the Flesh and the Devil (1929), che immaginava che il compimento di razionalità e desiderio non avrebbero reso migliore la vita dell’uomo ma avrebbero trasformato l’umano in una sorta di essere-specie postumano.

Bernal era anche consapevole del fatto che le cose sarebbero potute andare malissimo:

«Le industrie scientifiche potrebbero benissimo diventare Stati indipendenti ed essere messe in grado di intraprendere gli esperimenti più ambiziosi senza consultare il mondo esterno […]. Il mondo potrebbe addirittura essere trasformato in uno zoo per umani, uno zoo gestito con tanta intelligenza da rendere i suoi abitanti inconsapevoli di essere lì ai soli scopi di osservazione e sperimentazione.»

Come si vede, Bernal intuiva già dove le forze di produzione avrebbero potuto portare e quali tipi di classi dominanti le avrebbero controllate.

Bernal si convertì alla causa comunista poco dopo, e insieme all’ala sinistra del movimento Social Relation of Science iniziò a pensare un po’ più coerentemente al modo in cui scienza e tecnologia stavano trasformando le forze di produzione. Per Bernal, le capacità trasformative della scienza mettono i suoi lavoratori – un prototipo di quella che ho chiamato la classe hacker – su una via opposta al Capitale, che limita la piena forza del cambiamento tecnologico a ciò che è compatibile con lo scopo del profitto. Già nel 1939 Bernal pensava che fosse in corso una rivoluzione scientifica e tecnologica qualitativamente diversa dalle forze di produzione sviluppate dal capitalismo industriale. La prima era stata un processo graduale e accidentale, questa era intenzionale e pianificata. La prima era basata su conoscenze rudimentali, questa sul controllo della materia, dell’energia e dell’informazione concepito attraverso conoscenze astratte, concettuali e in continua evoluzione.

All’apice della carriera, più o meno tra il 1930 e il 1950, Bernal fu una figura estremamente influente. La sua applicazione delle conoscenze scientifiche ai problemi della guerra rese possibile l’invasione del D-Day. Fu un pioniere dell’organizzazione dell’informazione scientifica. Fu nominato membro della Royal Society per la cristallografia a raggi X. Ma quando l’alleanza bellica si sciolse e iniziò la Guerra fredda, la sua lealtà all’Unione Sovietica gettò un’ombra sulla sua carriera. Tuttavia, il movimento Social Relations of Science (di cui Bernal rappresentava l’ala sinistra) contribuì a politicizzare i lavoratori tecnologici e scientifici in tutto il mondo, dalla Danimarca al Giappone.

Paradossalmente, visto che era rimasto fedele all’Unione Sovietica persino dopo l’invasione della Cecoslovacchia nel 1968, la sua idea di rivoluzione tecnologica e scientifica fu vitale nel fermento intellettuale della Primavera di Praga, che cercava di inventare un «socialismo dal volto umano». Questa espressione è stata attribuita a Radovan Richta, che scrisse Civiltà al bivio, un altro classico accelerazionista perduto pubblicato nel 1966 che ammetteva serenamente il fallimento del socialismo in stile sovietico, ma auspicava che la proprietà statale dei mezzi di produzione avrebbe reso possibile un nuovo tipo di socializzazione, non solo del lavoro e dei suoi prodotti, ma della totalità della conoscenza.

 

Ho fatto shopping online alla ricerca di questo libro dimenticato e ho finito per comprare quella che un tempo era stata la copia personale di Daniel Bell. Non è difficile vedere le teorie accelerazioniste del Mondo Libero, come quella di Bell, come una risposta non solo alla classica profezia storica marxista, ma anche a quello che fino agli anni Settanta era ancora un timore molto palpabile: che l’Oriente, e non l’Occidente, capisse come trasformare la rivoluzione tecnologica e scientifica in un nuovo modo di produzione. Ma né a Est né a Ovest i pensatori accelerazionisti hanno colto le strane proprietà ontologiche dell’informazione e del modo in cui la scienza dell’informazione, ancora più di quella che si occupa di materia e di energia, avrebbe finito per essere il tratto saliente del secolo a venire. Se non altro, però, i marxisti accelerazionisti avevano quasi colto un’altra caratteristica fondamentale del mondo che si prospettava, ovvero che si sarebbe trattato di un mondo con nuovi tipi di antagonismo di classe.

La cosa ironica è che l’Unione Sovietica non è riuscita a costruire Internet; i sovietici ci hanno provato come gli americani, ma gli americani ce l’hanno fatta perché hanno proceduto alla maniera dei russi. Quella che poi sarebbe diventata Internet fu il prodotto dell’investimento di uno Stato nella ricerca di base in laboratori grandi e cooperativi, proprio come Bernal aveva auspicato. Se dovessimo spiegare il fallimento della versione sovietica di Internet in una parola, potremmo optare per competizione.

La guerra aveva abituato lo Stato americano a finanziare progetti di ricerca collaborativi che coinvolgevano sia le scienze di base che l’ingegneria, in cui era privilegiata la condivisione delle idee anziché la segretezza delle scoperte nella prospettiva del monopolio sui brevetti. Le conoscenze di base e condivise in materia di calcolo, comunicazione, radar ed elettrotecnica emerse dal periodo bellico furono alla base dell’importante investimento del Pentagono in questi campi durante la Guerra fredda.

Bernal era un marxista un po’ troppo ortodosso per pensare all’informazione con un approccio teorico, ma la capiva come problema pratico. Il tipo di fisica di cui si occupava non riguardava la comprensione di particelle sempre più piccole, che è quella che consideriamo la principale linea di ricerca della fisica moderna, ma la comprensione di particelle sempre più grandi. Come fanno gli atomi a riunirsi non solo in molecole, ma in gigantesche macromolecole organiche? I progressi nelle tecniche della cristallografia a raggi X hanno permesso di rispondere a domande del genere, e portato altri a comprendere le strutture di cose come la vitamina B12 e l’insulina (per cui la sua allieva Dorothy Crowfoot Hodgkin vinse il premio Nobel). Queste stesse tecniche contribuirono anche al famoso lavoro di Watson e Crick sul DNA (con l’apporto non riconosciuto di Rosalind Franklin). Tutto ciò avrebbe finito per richiedere calcoli incredibilmente complessi, e Bernal fu uno dei primi a adottare l’informatica moderna in questo campo.

In breve, nel bene o nel male, l’informatica permette di eseguire operazioni su quelli che ora verrebbero chiamati «big data». Ciò rende possibile la simulazione di cose complesse come le molecole organiche o addirittura intere economie. C’è chi pensa addirittura che il socialismo in stile sovietico avrebbe funzionato se i prezzi fossero stati resi variabili e si fossero adottati i computer per decidere dell’allocazione delle risorse, ma i poteri forti lo proibirono perché non volevano rinunciare al controllo sull’economia di comando.

Radovan Richta doveva essere consapevole del fatto che la cibernetica sovietica non era riuscita a sottrarre il modo di produzione sovietico al controllo disfunzionale dello Stato socialista.  Nel suo libro si accenna al fatto che si trattava di una specie di conflitto di classe: i lavoratori scientifici contro i burocrati di partito. Nonostante alcune notevoli eccezioni, i primi erano comunque addetti ai lavori e non erano disposti a mettere alla prova la pazienza di uno Stato che aveva imprigionato, torturato e ucciso molti dei loro predecessori.

 

L’esempio più noto di abuso della scienza da parte dei sovietici è forse il caso Lysenko. Trofim Lysenko era figlio di contadini, ed è stato un agronomo la cui visione essenzialmente lamarckiana dell’evoluzione divenne politica ufficiale alle spese di quegli scienziati che avevano seguito le scoperte di Mendel nel campo della genetica. Questo famoso caso di interferenza dello Stato nelle scienze nell’Est del mondo oscura certe cose che riguardando il rapporto tra scienza e potere in Occidente. Come prima cosa, gli ideologi occidentali hanno sfruttato il caso Lysenko a scopo di propaganda con poca attenzione alla complessità dei fatti. Il loro appello per una scienza «libera» sembra utilizzare la parola nello stesso significato che assume quando parliamo di Mondo Libero. Anche in Occidente le scienze sono state cooptate in programmi militari segreti, agli scienziati che hanno osato sollevare questioni difficili sulla politica della scienza sono stati tolti visti, le autorizzazioni al trattamento di informazioni e materiali riservati, a volte addirittura i propri laboratori e mezzi di sussistenza.

Il caso più assurdo è stato sicuramente quello di Tsien Hsue-Shen, immigrato cinese in America. Nel dopoguerra si era conquistato una carriera di prim’ordine nel nuovo campo della missilistica. Pare tuttavia che avesse involontariamente socializzato con persone che facevano parte del Partito Comunista. Fu così deportato in quella che era diventata la Cina comunista. Lì, questo scienziato in precedenza apolitico divenne un comunista devoto nonché l’architetto del programma missilistico cinese. Il missile tattico Silkworm, derivato dai suoi progetti, è stato usato perfino nelle complicate guerre per procura più recenti contro le forze militari statunitensi.

Ma questo è niente se pensiamo alla generale smobilitazione e demoralizzazione della sinistra scientifica negli anni del dopoguerra. Gli scienziati progressisti come Bernal si sono trovati sotto attacco, così come i sindacati cresciuti per esprimere e unificare gli interessi e le aspirazioni dei lavoratori scientifici e tecnologici. Ironia della sorte, la grande scienza era diventata una creatura che godeva di un massiccio sostegno statale, come Bernal aveva predetto, ma l’ideologia della scienza che ha prevalso non è stata il bernalismo, ma un’immagine della scienza come un «mercato delle idee» escogitata dalla sua nemesi ideologica: Michael Polanyi.

Chi si nutre del pregiudizio secondo il quale la scienza è intrinsecamente reazionaria o apolitica o un’estrusione della mera «metafisica» farebbe bene a studiare quanta coercizione e quanta cooptazione ci siano volute per indebolire il potere della scienza progressista e di sinistra in Occidente dopo la guerra. Il gruppo di Polanyi beneficiò addirittura dell’attenzione di quella che ora sappiamo essere stata una lega fondata dalla CIA, il Congress for Cultural Freedom. Se tornassimo indietro nel tempo fino agli anni Settanta per dire a Bernal, ormai malato e sofferente, che all’inizio del XXI secolo ci sarebbero stati degli heideggeriani di sinistra, gli sarebbe venuto un altro ictus.

E allora eccoci qui a cercare di capire cos’è successo nel corso della seconda metà del Novecento, armati di teorie critiche separate dai loro collegamenti precedenti alle lotte politiche nelle scienze e mutilate dalle ferite della Guerra fredda, ancora oggi in gran parte non analizzate.39 Non c’è da stupirsi quindi che ci siano pochi strumenti concettuali buoni per comprendere come le forze di produzione siano state davvero rivoluzionate nel periodo successivo alla guerra, e che invece abbondino le derivazioni delle teorie del consenso nello spirito di Saint-Simon. Gli «ecomodernisti», per esempio, insistono sul fatto che non c’è nulla che non possa essere risolto dalla tecnologia nella sua forma attuale, guidata dalla saggezza della classe dirigente di oggi. La linea di pensiero avviata da Bernal, che in uno stile marxista particolarmente volgare intendeva il cambiamento storico sulla base di una conoscenza approfondita delle forze di produzione lacerate dal conflitto di classe, è stata seguita molto meno.

Negli anni del dopoguerra è rimasto campo libero per un corpus teorico con un minimo di idee sull’informazione: il neoliberismo. Un corpus che non è asceso fino a quando non è divenuto evidente che l’Unione Sovietica non era un pericolo vero e attuale. Tra gli shock petroliferi dei primi anni Settanta e l’implacabile militanza della classe operaia in un contesto di crescita della produttività uguale a zero, tra le classi dirigenti di alcune delle principali nazioni occidentali ha preso piede l’idea che fosse giunto il momento di una vera e propria guerra di classe contro la forza lavoro, anziché di una guerra nucleare simulata contro l’Unione Sovietica. In effetti, potremmo chiederci se la détente sul nucleare tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica non sia nata da un interesse reciproco nel sopprimere il malcontento della classe operaia all’interno dei rispettivi imperi.

 

La politica neoliberista non fu adottata universalmente, ma anche questo faceva parte del problema. Se si potesse tornare indietro nel tempo fino alla metà degli anni Settanta e si spiegasse alla gente che all’inizio del XXI secolo l’economia giapponese si sarebbe ritrovata in una situazione di stasi e che alcune delle sue aziende, un tempo potenti, sarebbero state messe in vendita, la previsione verrebbe accolta con una certa sorpresa, dato che negli anni Settanta il Giappone rappresentava la principale minaccia al predominio economico americano, e sembrava aver capito come contenere la lotta di classe all’interno di una dinamica che aumentava la produttività. Inoltre aveva capito come incorporare le informazioni che gli operai possiedono sul processo di produzione nel controllo di qualità della produzione industriale. In Giappone lo Stato e le aziende hanno lavorato di concerto per limitare il libero mercato all’interno dei confini nazionali e combinare le risorse economiche per una spinta a tutto campo alla conquista dei mercati esteri.

Durante la guerra il Giappone non attaccò mai l’America continentale con i suoi caccia Zero. Il meglio che riuscì a fare fu sganciare un paio di bombe incendiarie da mongolfiere senza equipaggio fatte di carta di riso, incollate da scolarette e trasportate attraverso il Pacifico dalla corrente a getto. Per invadere gli Stati Uniti il Giappone ha usato al posto degli Zero le Mitsubishi Colt e le Galant, automobili che, tra l’altro, erano state costruite dallo stesso conglomerato che si era occupato della costruzione dei caccia. Così, contenuta la minaccia geopolitica sovietica e quella cinese – quest’ultima grazie alla «diplomazia del ping pong» di Nixon degli anni Settanta – la sfida riguardava più la militanza della classe operaia da un lato e le sofisticate politiche di export dall’altro. L’attacco neoliberista al lavoro, nel nome del «libero» mercato come più efficiente processore dell’informazione, prese il via.

Un’altra anomalia rispetto alla storia dell’ascesa del neoliberismo è l’Italia. A metà degli anni Settanta sembrava alle prese con una specie di guerra civile invisibile. Le Brigate rosse rapivano la gente. La polizia segreta sembrava a capo dello Stato. Il Partito Comunista era sulla via di un «compromesso storico» che lo avrebbe messo al potere insieme alla sua vecchia nemesi, la Democrazia Cristiana. Tutto questo aveva generato un movimento autonomista di sinistra dissenziente e una corrente teorica che gli corrispondeva. La polizia segreta faceva del suo meglio per incarcerare, esiliare o mettere a tacere quei teorici, come Antonio Negri e Paolo Virno. Ma sembrava davvero che l’Italia potesse svoltare a sinistra.

Se si tornasse indietro nel tempo per spiegare agli italiani della metà degli anni Settanta l’ascesa al potere di Silvio Berlusconi negli anni Novanta, non ne sarebbero certo divertiti. Negli anni Settanta, grandi aziende come Fiat e Olivetti avevano provato a usare manodopera a basso costo proveniente dal Sud rurale, ma molti di quei giovani operai si politicizzarono. Le aziende finirono così per provare a usare l’automazione per controllare il potere dei lavoratori. In ogni caso, negli anni del dopoguerra l’Italia, così come il Giappone, non era sulla via del neoliberismo anche se (a differenza del Giappone) non fu molto capace di escogitare un’alternativa. L’eccezionalità italiana ha dato origine a un filone di teoria marxista particolarmente vigoroso, ma più radicato di quanto non si voglia riconoscere nelle particolari condizioni locali.

Il mito del neoliberismo racconta che l’idea del neoliberismo è nata prima che politici come Margaret Thatcher e Ronald Reagan la facessero diventare politica e poi legge. Questa narrazione è a volte popolare tra gli esponenti della sinistra, nonostante contenga una visione chiaramente idealizzata della storia. Credo che si possa raccontare in un altro modo. Dopotutto, cosa ha reso possibile l’attuazione di politiche neoliberiste in primo luogo? Cosa è cambiato dagli anni Settanta che ha permesso di globalizzare il settore bancario e costruire filiere internazionali per combinare le componenti del processo produttivo in tutto il mondo?

Un indizio è già presente nel semplice fatto che Microsoft è nata nella metà degli anni Settanta. Non è stata l’informazione come idea (il libero mercato) a cambiare il modo di produzione. È stata un’infrastruttura enorme e globale in cui l’informazione ha permesso di controllare il flusso di denaro, macchine, risorse e lavoro. Se posso usare un computer per calcolare la posizione di diecimila atomi in una proteina, posso anche usarlo per calcolare un sistema di produzione globale che ruota intorno al potere del lavoro militante in una fabbrica di Detroit.

Una macchina del tempo che ci possa portare negli anni Settanta in realtà non esiste. Abbiamo solo una macchina del tempo a senso unico, o forse non tanto una macchina del tempo quando una macchina del tomo. Basta cercare nell’archivio alcune trame trascurate, e il passato torna come qualcos’altro. Più sbalorditive delle sorprese che si potrebbero riservare alle persone del passato se avessimo una macchina del tempo sono le sorprese che il passato può riservarci attraverso la macchina del tomo dell’archivio. Forse potremmo praticare una specie di arte storica, un raccontare le cose in un altro modo, per chiederci perché alcuni tipi di storie sono state dimenticate o soppresse. Le storie predefinite selezionate dalla combinatoria degli elementi narrativi potrebbero riflettere un’abitudine narrativa arbitraria.

 

Ecco una storia, allora: è un errore definire i nostri tempi neoliberisti, perché le loro politiche non sono né «neo» né «liberiste». La politica del presente potrebbe benissimo essere descritta con il termine altrettanto retrò di alt-fascista, dato che il suo scopo principale è salvaguardare il potere della classe dominante attraverso la manipolazione dei pregiudizi razziali ed etnici e l’uso della sorveglianza e della violenza per reprimere il dissenso. Come ci ricorda Angela Davis, è un sistema che verte principalmente sul complesso carcerario-industriale, oggi ampliato su scala globale. Ciò che è nuovo non è affatto la politica, che è un doppio farsesco delle sovrastrutture del vecchio, ma piuttosto il modo di produzione sottostante. Si potrebbe dire che nemmeno l’economia è «liberista», e che è questo a renderla nuova. Le forze di produzione organizzate intorno all’informazione cambiano la forma merce.

È una cosa strana, questo modo di produzione. Quella che Bernal e Richta chiamavano la rivoluzione scientifica e tecnologica c’è stata davvero, e in Occidente, non all’Est. Ma è stata il prodotto di un tipo strano di «socialismo». È venuta da una socializzazione del potere scientifico e tecnico in tempo di guerra. Scienziati e ingegneri, nei laboratori accademici e aziendali, cooperavano tra loro, e le loro innovazioni non venivano immediatamente brevettate, ma condivise. Ciò ha posto le basi per lo sviluppo postbellico delle forze di produzione. In una certa misura questo «socialismo» ha continuato a esistere, sotto l’egida della Defense Advanced Research Projects Agency del Pentagono che, tra le altre cose, ha finanziato dei lavori chiave in campo informatico.

Se c’è stata un’innovazione chiave che è venuta fuori da questo strano complesso occidentale statale-socialista-militare-industriale, è stata la tecnologia dell’informazione. C’è voluto un po’ di tempo per metterne insieme i pezzi. All’inizio del XXI secolo, la cosa strana è che lo sforzo scientifico e tecnico sponsorizzato dallo Stato socialista, destinato alla sconfitta prima delle potenze dell’Asse e poi dei sovietici, finì per essere un modo per competere con l’industria giapponese all’estero e per sopraffare le classi lavoratrici in patria. Un programma di ricerca fondamentalmente socializzato divenne il modo per costruire un’infrastruttura – quella che Benjamin Bratton chiama la pila, quella che io chiamo vettore – per la privatizzazione sistematica e globale degli oggetti, dei soggetti e dell’informazione che sta nel mezzo. Il fatto che questo non fosse l’ineludibile destino della scienza e della tecnologia è stato mascherato dalla soppressione delle voci critiche e dissenzienti tra gli scienziati stessi. Il bernalismo, o più in generale il movimento Social Relations of Science, è stato messo a tacere dalla politica della Paura rossa della Guerra fredda. Nella relativa assenza di un tale filone di pensiero, alle storie rimaste su questo periodo storico è mancato un senso del conflitto di classe interno a queste nuove forze di produzione e la misura in cui avrebbero potuto trasformare il capitalismo, così com’era alla fine del XX secolo, in qualcos’altro.

La storia più conosciuta sulla scienza e la tecnologia durante la guerra è quella del progetto Manhattan e della bomba atomica. Ma forse non è stata l’unico pezzo importante del puzzle. La guerra nel Pacifico è stata probabilmente la più grande operazione logistica mai condotta fino a quel momento. Robert McNamara, che più tardi avrebbe diretto la Ford Motor Company e poi il Pentagono, era un apprendista esperto di logistica durante la guerra, nel grande sforzo pioneristico di controllare il movimento e la combinazione di matrici di risorse incredibilmente complesse attraverso territori molto vasti utilizzando la comunicazione e il calcolo.

Il Capitale era convinto di usare un nuovo tipo di comunicazione e di potere computazionale nella lotta contro la forza lavoro, ma alla fine anche la classe capitalista ha finito per essere sussunta da questo potere. La classe capitalista è diventata una classe dominante sussidiaria a quella vettoriale. Il Capitale è morto; il Vettore vive.

Quello che all’inizio era un modo per cercare di sconfiggere le potenze dell’Asse, poi per contenere i sovietici, e successivamente per competere con l’industria giapponese, è stato alla fine il mezzo per globalizzare la produzione, sfruttare la manodopera a basso costo della Repubblica Popolare Cinese e distruggere il potere della forza lavoro organizzata in Italia, negli Stati Uniti e in gran parte del mondo sovrasviluppato. Ma c’è qualcosa di paradossale, in tutto questo. Il Capitale era convinto di usare un nuovo tipo di comunicazione e di potere computazionale nella lotta contro la forza lavoro, ma alla fine anche la classe capitalista ha finito per essere sussunta da questo potere. La classe capitalista è diventata una classe dominante sussidiaria a quella vettoriale. Il Capitale è morto; il Vettore vive.

Una classe capitalista possiede i mezzi di produzione, i mezzi per organizzare il lavoro. Una classe vettoriale possiede i mezzi per organizzare i mezzi di produzione. Il vettore ha una doppia forma: la forma del vettore lungo il quale le informazioni devono essere incanalate (il vettore estensivo) e la forma del vettore dove le informazioni possono essere immagazzinate e calcolate (il vettore intensivo). Una classe vettoriale possiede e controlla anche il processo di produzione attraverso brevetti, diritti d’autore, marchi, processi logistici proprietari eccetera.

È curioso che, se si guarda alle più grandi multinazionali del mondo, gran parte del loro potere e di ciò che possiedono è in forma di vettore. In realtà molte neppure fabbricano le cose che vendono, ma si limitano a controllare il processo di produzione poiché possiedono e controllano le informazioni. E anche quando fabbricano i loro prodotti, buona parte del valore dell’azienda proviene dalla proprietà intellettuale, da dati protetti sui clienti eccetera. Il Capitale è stato incorporato in una forma più astratta di potere tecnico.

Se pensiamo alla classe vettoriale, quindi, vengono alla mente altre tre cose. In primo luogo, la classe vettoriale sembra in grado di estrarre valore non solo dal lavoro, ma da quello che Tiziana Terranova chiama lavoro gratuito. Basta passeggiare per strada con il telefono in borsa o in tasca per inviare dati a qualche entità vettorialista. La classe vettoriale sembra essere in grado di estrarre ricavi dalle informazioni qualitative più o meno allo stesso modo in cui le banche li estraggono dalle informazioni quantitative. Forse l’esercizio del potere attraverso il controllo delle informazioni qualitative e quantitative è caratteristico della stessa classe dominante.

In secondo luogo, la classe vettoriale subordina il vecchio tipo di classe dirigente, una classe capitalista, nello stesso modo in cui i capitalisti hanno subordinato la vecchia classe dei proprietari terrieri che mercificava la produzione rurale affittando la terra. In questo senso, l’ascesa di una classe vettoriale è uno sviluppo simile e conseguente delle dinamiche interne alla classe dirigente. La classe vettoriale si trova ancora in cima alla piramide dello sfruttamento lavorativo, ma dipende anche dall’estrazione di surplus da un’altra classe, piuttosto privilegiata ma comunque subalterna.

Io la chiamo la classe hacker. Bernal aveva già intuito questo sviluppo quando aveva cercato di articolare gli interessi dei lavoratori scientifici all’interno e contro il capitalismo, ma non parlava ancora della classe hacker. Perché questa si formasse, si dovevano sviluppare forme sofisticate di proprietà intellettuale, che a loro volta sono incorporate nella progettazione dell’interfaccia per il processo creativo. Il lavoro qualitativo di produzione di nuove forme di informazione nel mondo si trasforma così in una proprietà che può essere resa equivalente sul mercato. In breve, una nuova dinamica di classe, tra vettorialisti e hacker, si è aggiunta a un già complesso schema di rapporti tra classi dominanti e subalterne.

L’Occidente è ora l’ex Occidente. La sua economia è diventata qualcosa di diverso. Non è più capitalismo, è qualcosa di peggio.

In terzo luogo, l’economia politica dell’ex Occidente, più che quella dell’ex Est, è stata in grado di sviluppare le implicazioni della rivoluzione scientifica e tecnologica sotto forma di ascesa della classe vettoriale. Ma è stata la forma Stato dell’ex Est a prevalere nell’ex Occidente. Il vettore non è solo un mezzo per trasformare la produzione, è anche un mezzo per trasformare il potere statale. I dati possono essere raccolti ai fini di una logistica del controllo economico; e possono essere raccolti anche per far funzionare l’apparato di sorveglianza e sicurezza dello Stato. Anche le nazioni occidentali hanno avuto i loro apparati di sorveglianza, ma mai totali come quelli dell’Est. Il nuovo modello globale utilizza il vettore per realizzare i sogni del KGB dei vecchi tempi: uno Stato dell’informazione. È quello che Guy Debord chiamava il palcoscenico dello spettacolo integrato, che combinava il peggio dell’ex Est e dell’ex Ovest.

L’Occidente è ora l’ex Occidente. La sua economia è diventata qualcosa di diverso. Non è più capitalismo, è qualcosa di peggio. Qualcosa che ha sottratto ulteriormente alle persone il controllo sulla loro vita lavorativa e quotidiana, qualcosa che espande lo sfruttamento della natura fino a una possibile estinzione. Non coincide certo col sogno meraviglioso di una «società postindustriale», né tantomeno col socialismo accelerazionista di Bernal e Richta. È una forma relativamente nuova e più elaborata del dominio di classe, una forma più o meno «pacifica» di convivenza con l’ex Est russo, la cui importanza mondiale si è ridotta a quella di un’oligarchia predatrice che monopolizza un’economia di esportazione delle risorse. L’Unione Sovietica ha pagato a caro prezzo il fatto di non essere riuscita a capire il ruolo dell’informazione e non aver raggiunto un modus vivendi con i suoi lavoratori scientifici.

Entrambe le cose coesistono ora con la Repubblica Popolare Cinese, che sotto la guida di Deng Xiaoping ha seguito un modello più simile a quello giapponese che a quello cosiddetto neoliberista, sopprimendo i salari e incanalando il surplus in una crescita guidata dalle esportazioni. Qualunque siano state le forze che avrebbero potuto spingere la Cina in una direzione più neoliberista sono state sconfitte del tutto dopo il crollo finanziario del 2008. Xi Jinping ha consolidato il suo potere e avviato la Cina su una strada diversa. Forse lo Stato neoliberista non è l’unico modello possibile di Stato dell’informazione. Pechino sta tentando un’altra modalità, quella di uno Stato dell’informazione autoritario, senza dubbio, ma che le nazioni dell’ex Occidente non sono nella posizione di criticare, viste le loro stesse propensioni.

In Occidente, il potere vettoriale ha talmente sbaragliato la classe lavoratrice e fatto scendere i salari che non è più in grado di consumare quello che la Cina produce. La capacità di farlo è stata mantenuta per qualche tempo dal debito, ma adesso l’intero sistema è sommerso da debiti inesigibili e da una capacità produttiva in eccesso. Il Partito Comunista cinese, percependo l’incombere di una crisi di sovrapproduzione, ha spinto la sua matrice di attori statali e aziendali a imbarcarsi in un piano straordinario per riavviare la via della seta e aprire nuovi mercati per i suoi produttori in tutta l’Asia centrale e oltre. L’idea dominante sembra essere ancora, come sotto Deng, quella di espandere le forze di produzione, questa volta oltre i confini della Cina stessa, e in alleanza con il controllo del vettore.

La legittimità del Partito Comunista si basa sulla sua capacità sia di accelerare le infrastrutture, sia di gestire le conseguenze per le sovrastrutture di questo progetto di ingegneria sociale che si spinge ben oltre i confini della Repubblica Popolare Cinese. Che questo dovesse essere il destino di un partito leninista è così inconcepibile sia per la sinistra che per la destra occidentali che entrambe sembrano fingere che questa mostruosità non stia accadendo davvero. Capire cosa è distintivo e cosa è generico nella politica di classe interna che ha reso possibile l’ambizioso allineamento tra Stato, vettore e capitale in Cina richiederebbe una riflessione molto più approfondita.

Benjamin Bratton pensa che quella che chiama pila, o quello che io chiamo vettore, generi un tipo distintivo di geopolitica, in cui gli ex Stati sovrani devono negoziare con un tipo di potere basato su infrastrutture di informazione distribuita, producendo una forma relativamente nuova di geografia virtuale. Vorrebbe che assistessimo non solo alla competizione strategica tra Cina e Stati Uniti, ma anche a ciò che chiama la «prima guerra sino-Google del 2009». La classe vettoriale dell’ex Occidente sembra distaccarsi dallo spazio dello Stato rappresentativo e investire in vettori transnazionali. Nel frattempo, la classe dominante cinese sta costruendo qualcosa di diverso, in cui il territorio dello Stato e il territorio della pila coincidono.

Di tutti i viaggi nella nostra macchina del tempo immaginaria o in quella reale del tomo, quelli per la Repubblica Popolare Cinese sono di certo i più sconcertanti, almeno per chi di noi appartiene all’ex Occidente, ma forse anche per chi viene dall’ex Est sovietico. E sono particolarmente oscuri per i marxisti occidentali. C’è ancora una nutrita banda di vecchi professori barbuti ed elettori di varie sette che pensano di tenere in vita la fiamma di un marxismo «ortodosso» – alcuni di loro addirittura di un ormai estinto maoismo occidentalizzato. È una strana presunzione, se si pensa che il Partito Comunista cinese ha cento milioni di membri. Sebbene si possa dissentire fortemente dalla loro versione, il marxismo ortodosso del giorno d’oggi è davvero quello che il partito dice che è. Una sua versione eretica dovrebbe prendere come punto di partenza l’approfondita critica del «pensiero di Xi Jinping», anziché le antiche dispute latenti in tomi ormai morti.

Per chi proviene dall’ex Occidente, l’ultrabolscevismo ostinato del marxismo cinese è cosa curiosa, soprattutto da quando è diventato la combinatoria mitica attraverso cui il partito ora al potere racconta e giustifica la propria traiettoria. Nell’ex Occidente è comune immaginare, non senza un po’ di eurocentrismo, che noi siamo i custodi dell’essenza del marxismo, essenza che il partito al potere in Cina ignora, a cui rende omaggio solo a parole o che invoca in modo del tutto ipocrita. Effettivamente può esserci del vero in tutto ciò.

Il Partito Comunista cinese non si preoccupa più di tanto di quello che noi ex occidentali pensiamo che sia il marxismo. Per i cinesi il destino del marxismo – qualunque cosa esso sia – è deciso in Cina, non nell’ex Occidente e di certo non nell’ex Est sovietico. E il suo destino era quello di diventare il generatore mitico di narrazioni attraverso le quali la versione cinese del bolscevismo racconta la propria storia a se stesso. Non si tratta di un esercizio di cinismo, dato che il potere del partito in minima parte dipende dalla persuasività di quella storia.

Il partito ha tratto tre tipi molto diversi di narrazione dalla combinatoria marxista in tre particolari frangenti. Il pensiero di Mao Zedong poneva l’accento sulla lotta di classe come attività volontaristica, mettendo la politica al comando e forzando un’agency sulla classe lavoratrice composta soprattutto da una popolazione contadina guidata dal partito. Il pensiero di Deng Xiaoping si è spostato invece sullo sviluppo delle forze di produzione per accelerare l’industrializzazione e la formazione di un qualche tipo di classe capitalista, guidata dal partito. Il pensiero di Xi Jinping si è spostato sull’ambizione della leadership cinese nella Storia del mondo e sulla costruzione di un’enorme infrastruttura del vettore o della pila che guida il commercio mondiale e i processi di produzione e distribuzione che girano intorno a quelli dell’ex Occidente, sempre guidati dal partito.

Mao aveva messo in guardia dai sostenitori della via capitalista, ma non sapeva di quelli della via della seta vettorialista che sarebbero venuti dopo di loro. Nell’ex Occidente, il Capitale ha spezzato il potere della forza lavoro usando il vettore dell’informazione per coordinare una nuova geografia globale della produzione, in particolare spostando la produzione vera e propria in Cina, dove è emersa una classe capitalista sotto l’egida del partito, una classe che ha probabilmente inglobato del tutto il partito. È possibile che i miliardari più ricchi del pianeta siano i maggiori esponenti del Partito Comunista cinese e le loro famiglie.

Lo Stato cinese avrebbe potuto prendere una piega «neoliberista». Tuttavia, con il crollo del sistema finanziario globale nel 2008, innescato dalla follia speculativa del mercato statunitense dei subprime, la Cina sembra avere decisamente cambiato rotta. Lo Stato e l’economia cinesi, come nel caso di altre nazioni, sono sempre più guidati da una pluralità di forme di vettori di big data anziché dalla finanza. La classe dominante cinese sembra ambire al controllo di una catena del valore transnazionale che avvenga più attraverso il possesso e il controllo del vettore dell’informazione che attraverso il possesso e il controllo dei mezzi di produzione. Le fabbriche esternalizzate in Cina dall’ex Occidente vengono ulteriormente esternalizzate in Stati ancora meno sviluppati (compresi alcuni nell’ex Est) attraverso le infrastrutture di informazione e logistica controllate dalla Cina. Il partito sembra vedersi come un agente della Storia mondiale impegnato a realizzare un’universalità globale ma con caratteristiche cinesi.

Il mondo non è abbastanza grande da potervi costruire l’ambizioso vettore globale della Cina o di chiunque altro. Il vettore informatico intensivo può ormai modellare praticamente ogni cosa, dalle forme biochimiche complesse a intere economie, fino all’intera biosfera. E a quanto pare quella biosfera è in crisi. La rivoluzione tecnologica e quella scientifica, insieme e contemporaneamente, spingono la biosfera fino al punto di crisi producendo allo stesso tempo le uniche informazioni attendibili che abbiamo sul cambiamento climatico e sugli altri sintomi dell’Antropocene. Ancora una volta, arriva il momento in cui gli scienziati iniziano a fare domande sul sistema all’interno del quale le loro conoscenze vengono sfruttate. Solo che questa volta non si tratta di gas velenosi, armi nucleari o DDT, ma è tutto il processo di produzione e consumo vettoriale e mercificato, sempre più astratto e sempre meno razionale, a essere messo in discussione.

Se volessimo tornare negli anni Settanta per spiegare agli scienziati del clima che all’inizio del XXI secolo è stato dimostrato che il cambiamento climatico causato dalla produzione industriale provoca l’aumento delle temperature medie globali, probabilmente vorrebbero analizzare i modelli e i dati che avremmo portato con noi, ma non ne sarebbero per niente sorpresi. Ci chiederebbero, però, come stanno reagendo le persone del nostro tempo. E noi vorremmo che non ce lo avessero chiesto.

McKenzie Wark è scrittrice e studiosa di teoria dei media, teoria critica e studi culturali. È autrice, tra gli altri, di Un manifesto hacker, Gamer Theory Molecular Red. Insegna Media e Cultural Studies alla New School for Social Research di New York.

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