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Vasco a Modena. Dietro il grande evento

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L’1 luglio a Modena c’è stato “il più grande concerto a pagamento nella storia” – preceduto da una scia di polemiche, seguito da un tripudio di elogi, proponiamo uno sguardo critico che parte da un posizionamento preciso: quello del lavoro che sta dietro a questi eventi.

Abbiamo intervistato Francesco (nome di fantasia), che ha lavorato al montaggio e sta attualmente lavorando allo smontaggio delle infrastrutture del concerto modenese. Un evento che ha garantito introiti milionari agli organizzatori e una cascata di milioni per le varie attività ad esso connesse. Tuttavia, come sempre accade, tutto ciò è reso possibile (anche) dal lavoro concreto che rimane invisibile ai maxi-schermi. La descrizione di Francesco parla da sola: turni lunghissimi e poco pagati per un lavoro che spacca la schiena, ampio ricorso a una mano d’opera migrante estremamente sfruttata, addirittura pasti avariati, e un comando sul tempo di lavoro totalizzante.

Si potrebbero fare molte altre considerazioni rispetto all’evento di Vasco, sulla totale sussunzione delle spinte “ribelli” presenti nei suoi tesi (emblematizzata da Bonolis che in diretta su Rai Uno lancia “Gli spari sopra”) o all’uso politico che è stato fatto del concerto quale prova di gestione ottimale della sicurezza giocata ex post da Minniti. Ma si tratterebbe di considerazioni in fondo “banali” rispetto al mondo della Cultura d’oggi. Lasciamo dunque alla lettura dell’intervista.

I: Cosa ti ha portato a fare questo lavoro?

F: Guarda, io questo lavoro già lo facevo a Padova, perché comunque è un lavoro che trovi molto facilmente, nel senso le assunzioni le fanno proprio a valanga in base a quanto lavoro c’è. D’estate per esempio assumono centinaia di ragazzi. Ebbene mi sono trovato a Padova che mi avevano assunto a lavorare negli stadi, ho cominciato a lavorare così. Poi sono venuto qua a Bologna, avevo bisogno di farmi un lavoretto per pagarmi l’affitto, e mi sono rivolto subito alla prima cooperativa che ho trovato, e mi hanno assunto subito. Cioè, mi hanno fatto un contratto a chiamata a tempo determinato. Hanno cominciato a chiamarmi ogni tanto all’Unipol Arena o nei vari teatri che ci sono a Bologna, per fare facchinaggio, cioè scarico e carico dei camion e trasporto dei bauli all’interno dell’allestimento del teatro, del palco. Ecco come mi sono trovato a fare questo lavoro, che è un lavoro che trovi in maniera abbastanza facile.

[…] Rispetto all’evento di Vasco, io già lavoravo con la cooperativa che ha preso l’appalto. È una cooperativa di soli studenti, o meglio, non siamo soli studenti ma siamo tutti bianchi dai venti ai trentacinque anni o con un passato da studente o con una carriera da studente in corso, ci sono pochissimi bolognesi, quasi tutti ragazzi da fuori venuti qui per l’università e poi finiti in questo circolo. La nostra cooperativa ha preso questo appalto per Vasco assieme ad altre, ma noi siamo quella più presentabile in questo mondo del lavoro, gli unici totalmente italiani che non provengono da storie di migrazione, e siamo quelli meglio pagati (6.5 euro l’ora, mentre altre cooperative vengono pagate 4, 4.5). A noi riservano i lavori meno faticosi. Alcuni lavori veramente molto pesanti vengono riservati a queste cooperative di africani e arabi che vengono da fuori, da Pesaro, Rimini o addirittura da San Benedetto del Tronto come la Tre Esse – ci mettono tre ore all’andata e tre ore al ritorno non pagate per arrivare a Bologna, sono totalmente africani. Girano racconti che li abbiano selezionati appositamente per il Ramadan, e infatti moltissimi erano in Ramadan e non mangiavano [facendo dunque risparmiare i soldi del pranzo]. Ovviamente il loro lavoro era minimo, poveracci, erano affaticatissimi e non riuscivano a far nulla.

Questo concerto aveva puntati addosso i riflettori della stampa, l’ASL non l’ho mai vista così tante volte venire a controllare il cantiere, quindi penso che ci abbiano selezionato per la facciata. Io ho avuto la sfortuna di andare a lavorare allo stadio a Bologna mentre lavoravo anche per Vasco, e veramente lì c’erano queste cooperative che sembra un esodo di africani, arabi, presi e portati là per nulla. Ho conosciuto un ragazzo di 19 anni che abitava a un’ora di distanza dal magazzino da dove partivano da San Benedetto del Tronto, da dove partivano alle 4 della mattina. Si svegliava alle 3, prendeva la bicicletta, partiva alle 4, arrivava alle 8 a Bologna, cominciava a lavorare pagato 4-5 euro l’ora, prendeva 50 euro al giorno, tornava a casa, dormiva 4 ore e ricominciava. A 19 anni! Veniva da se non sbaglio il Burkina Faso.

Essendo come ti dicevo la nostra cooperativa quasi dei privilegiati, ti senti in contrasto, in difficoltà a gestire e a vedere e relazionarsi con questi altri mondi che stanno comunque assalendo questo mercato del lavoro. Mi raccontano i ragazzi che sono là da un po’ di tempo che fino a 3-4 anni fa non c’era tutto questo afflusso di migranti, è una cosa che sta succedendo adesso. Probabilmente per l’alta disponibilità e per abbassare i costi della mano d’opera. Però essendo il mondo dello spettacolo una cosa molto delicata arrivare a livelli di sfruttamento estremi e metterli sotto il riflettore non è una cosa che riescono a fare molto facile, ma c’è un avanzamento di cooperative completamente di migranti.

 

I: Com’era organizzato il lavoro su Vasco?

F: Noi partiamo da piazza dell’Unità alle 6 e mezza, arriviamo alle 7.30 al Modena Park e alle 8 cominciamo a lavorare. Ci dividono in squadre: c’è chi porta i pali di ferro ai montatori, chi le luci. Facciamo cinque ore la mattina, poi un’ora di pausa, poi si riparte tendenzialmente fino alle otto di sera. Ma gli orari non sono mai definiti. Certi giorni abbiamo staccato alle 23, altri alle 19, il tempo è molto relativo. Non ti avvisano mai di quando finirà la giornata di lavoro. Tu sai che alle 18/18.30 inizi a informarti, “Andiamo a casa? Cosa facciamo?”. Il pranzo ce lo danno loro. Noi facchini mangiamo i “sacchetti”, il pranzo al sacco che ci portano, mentre tutti gli altri tecnici e produzione hanno un ristorante adibito apposta dentro al cantiere dello spettacolo. Ogni giorno il capo della cooperativa, che poi penso sia semplicemente un socio, ci dice se servirà il giorno dopo ancora da lavorare. […] È uno svolgimento del lavoro molto selvaggio: tu arrivi la mattina e non sai che squadra ti assegneranno, arriva il capo del cantiere e dice: “Ne voglio otto per le luci, otto per il ferro, otto per l’audio, otto per le transenne…” e ti distribuiscono dei braccialetti per capire che squadra sei.

[…] Questo di Vasco era un evento che non si era mai visto in Italia, il cantiere è iniziato un mese prima del concerto. Di solito è invece un mondo molto veloce. Quando sei nello stadio arrivi due giorni prima, monti tutto, poi smonti la sera stessa e te ne vai. E adesso stiamo smontando e ci metteremo una settimana. A lavorare siamo 4 cooperative: un pullman viene da Verona (Eurogroup), una cooperativa di Ravenna (Le Tre Civette – che gestisce anche l’Interporto) che saranno un 15-20 persone, noi che siamo GLS Service di Bologna, siamo 20-30 a seconda di quanto bisogno c’è. Saremo una settantina, alle volte un centinaio, più una ventina-trentina di tecnici che vengono dai grandi service e gestiscono i grandi appalti – sempre gli stessi nomi: L’Agorà da L’Aquila, L’Am Light da Roma, Ital Stage da Napoli che ormai si è comprata tutto quello che circonda il montaggio dei palchi effettivo. Da Modena non c’era nessuno. Le cooperative di Verona e Ravenna oltre a fare spettacolo fanno anche altro facchinaggio, in Interporti e magazzini, sono più lavoratori che fanno quello nella vita. Sono africani, arabi, non hanno studenti o ragazzi.

[…] Non c’è assicurazione sanitaria, ci sono dei modi per cui Inail o Inps ti diano dei soldi, ma se ti ammali o ti fai male fuori dal cantiere rimani a casa e basta. I lavori sono pesanti, poi dipende da cosa ti capita, ci sono giorni che fai poco e quelli che ti spacchi la schiena (quando devi portare le luci in posti particolari, quando devi transennare tutto il giorno). Senti la schiena che comincia a scricchiolare, sono lavori che mettono il fisico sotto sforzo. Abbiamo caschetto e scarpe anti-infortunistiche ma son cose abbastanza di forma.

[…] Coi colleghi dopo questo mese pesante di lavoro, in cui ci davano cibo spesso e volentieri avariato (una delle aziende che ce lo portavano ora non c’è più perché è stata denunciata da un ragazzo che si è sentito male), arrivava del formaggio che puzzava di acido, una pasta con lo stracchino immangiabile… Il problema del cibo si è fatto sentire molto… Il rapporto, con orari così, è cresciuto in termini di complicità. Sarebbe necessario introdurre, non dico delle garanzie maggiori, ma comunque un modo diverso di pensare questo lavoro anche in relazione alle cooperative di migranti che arrivano. Lì davvero rimani agghiacciato, essere pagati 4.5 euro l’ora per 10 ore al giorno, con un sacchetto come pranzo, senza viaggio pagato… E comunque lì non è che vieni trattato come una bestia, ma non vali nulla. Tu non conti nulla, esegui gli ordini. Le personalità che li danno variano, ma comunque tendenzialmente sono arroganti. Poi tipo i veronesi son tutti fasci, hanno tatuaggi e adesivi di Casapound, mangiano separati dagli africani. Noi essendo tutti studenti, di Bologna, abbiamo un’etica sul lavoro abbastanza formata per cui non abbiamo di questi problemi. E comunque si sta pensando di poter far qualcosa, ma il problema è che non hai nessuna garanzia. Cioè, se tu non vieni un giorno, o sollevi dei problemi, non è che vieni licenziato, non vieni chiamato e chi si è visto si è visto. Quindi è molto difficile coordinarsi, convincersi… Anche se negli ultimi giorni dopo la questione del cibo, gli orari non detti, la gestione del tempo (perché comunque il fatto che non ti dicano quando e quanto lavori influisce molto: in poche parole metti a disposizione le 24 ore, non puoi progettare nulla sulla tua vita). Tutte queste cose hanno fatto un po’ montare il malcontento e si è cominciato a parlare di non venire il giorno dopo, “domani non ci presentiamo tutti assieme”, ma son cose difficili da mettere in pratica. Non hai garanzie, alcuni hanno veramente bisogno dei soldi del lavoro, ognuno per i suoi problemi… Non è facile, ma è una cosa che sta strisciando.

 […] Il capo della mia cooperativa è sotto un altro che prende l’appalto, poi c’è la produzione che chiama le altre ditte. E non hai nessun tipo di rapporto con loro, arrivano ogni tanto in motorino per decidere che cosa va bene e cosa non va bene, ma la gestione è tutta fatta dai nostri referenti.

 

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