Viaggio al termine della polvere
Un reportage dal “triangolo dei poveri” Gafsa-Kasserine-Sidi, con uno sguardo sulla Tunisia post-rivoluzionaria.
Di Andrea Zisa e Roberto Renino
Polvere: sabbia, terra arida e residui di fosfato. Siamo nel territorio della Compagnia dei Fosfati di Gafsa (CPG), chiamata qui semplicemente “La Compagnia” onnipresente, un’entità solenne e quasi ultraterrena che gestisce tutta l’estrazione e la lavorazione del fosfato tunisino.
Qui la Compagnia è il primo datore di lavoro, assieme allo Stato. La sede CPG di Gafsa-città assomiglia nemmeno troppo vagamente ad una caserma, le poche aperture del muro di cinta rivelano una fortezza fatta di uffici: all’interno, impiegati e dirigenti della prima industria di Stato. Ma l’Eldorado è ormai un ricordo evanescente, il saldo migratorio verso la città (ed in generale verso il bacino minerario) è negativo dagli anni 80, da quando cioè anche la CPG è stata sottoposta ad una “ristrutturazione” di stampo neoliberista. Il modello non cambia: licenziamenti di massa, da 15 mila dipendenti del 1985 ai 5000 del 2010, ed esternalizzazione e privatizzazione dei servizi collegati all’impianto minerario.
Ci spostiamo a Redeyef, poche case a un’ora e mezzo dal capoluogo, con un louage, i minibus da nove posti che si usano qui per spostarsi da una città all’altra. Al fondo del pulmino, scambiano due parole con Taieb, professore di liceo, latitante per due anni nelle montagne e poi prigioniero fino alla caduta del regime, per aver preso parte alla rivolta del bacino minerario del 2008. Parla poco, attorno a noi scorre un arido deserto roccioso, ogni tanto sul tragitto incrociamo macchinari o edifici della Compagnia.
Una volta a Redeyef, ci rendiamo conto che la città stessa sorge in funzione della miniera: al centro della città c’è un trenino da estrazione con macchina e vagoni tutti colorati, come se scendere in una miniera fosse qualcosa da festeggiare allegramente. Le case sono rade e alcune poco più di baracche; di quelli che incontriamo, chi non ha una tuta blu ha vestiti logori e ciabatte semidistrutte.
Ci fermiamo ad uno dei due bar del paese, attorno a noi oltre a poche macchine che sfrecciano sulla strada principale, è solo la polvere a muoversi, sospinta da un debole vento caldo, che la fa danzare attorno fino ad insinuarsi ovunque, occhi e polmoni di chi respira compresi.
Oltre i pochi avventori del bar tutto è immobile, statico; ogni cosa subisce il bacio velenoso della polvere. Tossiamo, tossiscono tutti qua attorno. La chiusura delle miniere sotterranee è stata una magra vittoria per una popolazione di operai che ha un’aspettativa di vita di cinquanta, massimo sessant’anni. Ebbene, qui sono state ridotte le morti sul lavoro con la limitazione all’estrazione superficiale del fosfato, ma non è migliorata affatto la qualità della vita delle persone che vi lavorano. Ed è qui, in questo immobile bar in una città altrettanto immobile, che ascoltiamo i racconti di Omar, il barista, alla cui voce si è poi pian piano aggiunta quella di altri uomini in tuta blu marchiati con il simbolo CPG.
Come molti altri tunisini incontrati fino ad ora, Omar ha un passato in Italia: ha lavorato clandestinamente a Latina per 5 anni, nei campi. Conducendo una vita peggiore di quella che viveva in Tunisia, è ritornato a Redeyef, dove prepara il caffè (sotto un enorme poster della Juventus) agli operai della Compagnia. Conosce gli affari di tutti in paese e ricorrente nei suoi racconti è lo stato di salute decisamente precario, comune a tutti i suoi concittadini. Indica la polvere fuori l’ingresso del bar e ci dice “quella roba si infila dappertutto, ce l’abbiamo ovunque, tutti tossiscono e nessuno è al riparo.”
A sostegno delle sue parole, apre la bocca e con le dita tira verso il basso il labbro inferiore. “Guardatemi i denti, sono distrutti”, seguito nel medesimo gesto anche dagli altri tre o quattro lì presenti in quel momento. “La Compagnia prende tutta l’acqua della falda per la lavorazione del fosfato (ndr 10 mln di m3 per anno), quella che resta per noi è poca ed è contaminata.”
A Redeyef ci si lava e si cucina con acqua contaminata, che danneggia pesantemente il corpo, calcifica i denti e distrugge le unghie di mani e piedi. Il modo più comune di andare all’altro mondo qui è per blocco renale, calcoli così grandi che non riescono ad essere espulsi dal corpo.
Ma in fin dei conti, tutto ciò non importa molto: un impiego nella Compagnia è uno dei posti più ambiti in Tunisia, uno dei lavori meglio retribuiti, una condanna vantaggiosa che assume le fosche tinte di un sacrificio di chi spesso mantiene la propria famiglia accettando un destino scritto nella polvere.
Seduti al bar di Omar, osserviamo la polvere di fosfato alzarsi e roteare: ci ritornano in mente le parole di Farid, responsabile di una ONG per la promozione culturale a Gafsa. Le sue parole, le parole dei tanti che abbiamo incontrato anche solo casualmente per la via, sono parole grigie, appesantite dalla disillusione, sintomo accusato da tutti gli ammalati di grandi speranze. Farid, però, è un osso duro: un signore mingherlino, dall’abbigliamento nostalgico, che ha osato, insieme ad un esercito di poveracci, ergersi contro la Compagnia, il Sindacato, il Partito. Il 2008 è stato un anno di fuoco per le città del bacino minerario, sei mesi di riscoperta della dignità, a riprova che non c’è popolo abbastanza dimenticato da non potersi sollevare contro un sistema ingiusto, un clientelismo becero ed alla luce del sole.
“Au debut c’etait trés simple (all’inizio era molto semplice) – inizia Farid, che si occupava di diffondere le immagini delle manifestazioni all’estero, tramite l’emittente londinese Al-Horra TV – la gente di Gafsa si è sentita oppressa e dimenticata”.
Sono le pubblicazioni degli esiti di un concorso nazionale di assunzione della CPG a detonare la rivolta: come sempre, non erano i locali a beneficiare della ricchezza del sottosuolo, in una regione in cui la disoccupazione tocca punte del 38%. Inizia così un ciclo di protesta indirizzato soprattutto contro il notabile locale Ammara Abbassi. Contemporaneamente segretario regionale del sindacato UGTT, membro del partito di Ben Ali (RDC) e dirigente alla CPG, gestiva direttamente i servizi di sicurezza per tutta la Compagnia, attraverso la proprietà di una delle agenzie esternalizzate: in poche parole, il Domineddio di Gafsa. Sei mesi di manifestazioni, di migliaia di Davide contro Golia disorganizzati e dimenticati da tutti, si conclusero nel 2008 con una massiccia repressione poliziesca e giudiziaria: 260 membri incarcerati e molti altri costretti alla latitanza nelle montagne.
Quello stesso desiderio di redimersi con le proprie braccia da una condizione infame, quella stessa ricerca di dignità, però, non si ferma lì. Farid ci racconta di un popolo che, anche se in maniera sotterranea, ritorna a politicizzarsi, soprattutto attorno alle commemorazioni di quei quattro ragazzi uccisi nel 2008, vittime dello Stato.
E’ così che, il “triangolo dei poveri” Gafsa-Kasserine-Sidi Bouzid torna ad insegnare ai giovani della costa l’arte della rivolta: è la rivoluzione, è la caduta di Ben Ali.
Seguono anni confusi, quelli che la Tunisia vive tuttora. Cosa ne è oggi di Gafsa? Cosa ne è della CPG? Per questo alla fine siamo arrivati fin qui, per respirare tra i vivi e coi vivi.
“E’ triste da dire, ma il mio paese mi ha tradito”, basterebbe solo questa frase, ultima di una lunga discussione avuta sull’ennesimo louage: chi ci parla è un ragazzo di trent’anni, di cui undici passati in Europa a lavorare col sogno di costruire qualcosa a casa sua. I relitti della rivoluzione si sono riorganizzati velocemente ed altrettanto velocemente hanno riempito i vuoti lasciati dalla fuga dei Trabelsi. Moncef Marzouki, il primo presidente della Repubblica post-Ben Ali, ha dichiarato da poco di essere stato troppo indulgente, ma non si tratta solo di indulgenza, si tratta di complicità.
Quando parliamo di questo con Farid, lui prende un grosso respiro, sembra pesare una ad una le parole: “Mi piace sempre dare una piccola immagine, per restituire poi quella più grande. Questa immagine ha un nome: si chiama Lofti Ali. C’era una volta un imprenditore molto conosciuto che era membro dell’RCD, nel 2011 l’hanno arrestato, poi è uscito ed è diventato più potente di prima. Ora è deputato per Nida Tounes (ndr il partito secolarista di Essebsi). Ha utilizzato le stesse reti, gli stessi mezzi finanziari, “mêmes moyens, meme bût”, ed ora gestisce il trasporto su gomma del fosfato (ndr possiede il 25% della società)”: Lofti Ali è il nuovo Ammara Abbassi. La maggior parte dei servizi che la CPG precedentemente appaltava ad esterni sono stati internalizzati dopo la Rivoluzione, con un aumento dei dipendenti da 5 a quasi 30 mila, ma l’affare (17 milioni di dinari) del trasporto è stato privatizzato nel 2014, con conseguente quadruplicamento dei costi per la Compagnia, e dunque per lo Stato tunisino. Su questo schema – ci racconta Farid – funziona tutta la “Tunisia dimenticata”, l’interno: il potere dei notabili locali si fonda sulla loro capacità d’accesso alle risorse statali.
Quest’uso privato della cosa pubblica soffoca la regione e ne impedisce lo sviluppo: della distrazione di risorse soffrono tutti i settori che non siano quelli già convertiti in clientificio. Un matrimonio tra politica ed economia che può solo dar luce ad un capitalismo parassitario e oligopolista: è questa la morsa che opprime la Tunisia, questa la chiave per capire davvero le ragioni della rivolta nel 2011.
Il sapore aspro della polvere nelle nostre gole ci induce a salutare Omar ed il suo sgangherato bar, sempre più convinti che nessun male sia stato curato a fondo.
Aspettiamo il louage che ci porterà a Tamaghza, un’oasi al confine con l’Algeria. Tutto è fermo, nessuno sa con esattezza se e quando passerà.
Seduti su un gradino, ci sorridono due algerine, madre e figlia che con poche borse stanno per attraversare il confine, non molto distante. Anche loro in balia del tempo che passa. Non capiamo bene quello che dicono, si fa il nome del loro eterno presidente Bouteflika: la madre ci guarda sospirando, “Fi Tounes femma horria”, in Tunisia c’è la libertà. Ma la libertà è poca cosa qui a Gafsa, e si legge negli occhi di tutti.
Dei tuoni improvvisi preannunciano un miracoloso acquazzone: come apparse dal nulla, delle nubi scaraventano sul nostro deserto un’impressionante quantità d’acqua, la gente accorre a vedere da porte e finestre. Non piove da mesi, la quiete si rompe, una strana euforia prende i nostri interlocutori e finalmente il nostro louage si mette in moto in questo raro attimo di aria fresca, respirabile.
Partiamo.
Lasciando la città si legge scritto grande su un muro bianco.
“LA LIBERTÈ COMMENCE OÙ L’IGNORANCE FINIT”
La libertà comincia dove l’ignoranza finisce
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