Vivere il proprio tempo
Introduzione (da Torino), sabato 18 giugno 2016.
Sono stati anni avari, questi, con il vecchio che muore e il nuovo che ancora non si vede, e una distanza sempre più pesante sembra allargarsi fra gli spazi di conflitto immensi che sono davanti a noi ogni giorno e l’incapacità delle nostre soggettività militanti a coglierli. Il tema, trasversale, che attraversa questa due giorni è quello delle forme organizzative, degli spazi d’intervento, delle capacità dei nostri collettivi di vivere il proprio tempo. Questa due giorni di discussione parte dalla volontà di fare il punto, di capire, di trovare le parole per analizzare questa fase. Questo non per adattare le nostre forme organizzative mimeticamente rispetto alla realtà ma per capire come la nostra militanza possa spingere verso la rottura col vecchio mondo. Non ci sono esperti invitati, non ci sono celebrità: siamo tra militanti e tra militanti vogliamo
parlare. Il livello che queste discussioni affrontano è quello che appartiene al militante ossia il livello intermedio, che può sembrare un bel paradosso per degli estremisti come noi! Intermedio a livello delle contraddizioni capitalistiche, perché crediamo che il nostro compito sia quello di essere una cerniera che arrivi a legare i livelli “bassi” dei bisogni materiali negati e coi livelli apparentemente lontanissimi di un sistema di dominio strutturato dalla sola idea di tenere il lavoro vivo in uno stato di dipendenza continua. Intermedio nel tempo, perché vorremmo riuscire ad avere qui uno sguardo di medio periodo che non si situi solo nel bilancio del passato e nella prospettiva per il futuro ma che arrivi a cogliere la tendenza. Intermedio, infine, nello spazio perché pensiamo che ci sia l’urgenza di non fare solo una sommatoria delle nostre più o meno arricchenti dimensioni locali ma di recuperare una proposta politica di distruzione dell’esistente che arrivi effettivamente a porre delle rigidità che agiscano non solo sui livelli di governo diffuso ma anche di comando più alto. Questa è per noi la sfera del politico, che è quella che ci appartiene. Una sfera che noi intendiamo come quella del rifiuto che crea e che invece in tanti intendono come quella della mediazione che gestisce. Ma questo è un problema loro.
Abbiamo fatto un appello largo invitando realtà anche molto diverse tra loro perché pensiamo che la mancanza di certezze che caratterizza questi ultimi anni non va purtroppo di pari passo con la voglia di mettersi in gioco. Ciò che, in mancanza di un termine più modesto, siamo costretti a chiamare movimento, ci sembra arrivato a un bivio che bisogna avere la chiarezza e l’onestà di affrontare.
C’è chi pensa che il compito dei compagni per i prossimi mesi e anni sarà quello di ricostruire un’idea di sinistra e le sue articolazioni sul territorio, foss’anche con nuovi laboratori che evitino di riproporre le formule stanchissime dei partitini della sinistra parlamentare, il tutto in un’ottica di stimolazione meccanismi di partecipazione democratica annullati da un potere istituzionale che ha fatto effettivamente dell’esplosione dei livelli intermedi e della passività il proprio modo di governo.
C’è chi invece pensa che la crisi della rappresentanza sia un’occasione da cogliere per produrre conflitti, conflitti che stimolino attivazioni sociali ampie e meccanismi di non-delega per approfondire le contraddizioni invece di tentare di risolverle, per allargare gli spazi d’ingovernabilità dando loro la politicità che gli serve per innalzare il livello dello scontro.
La sinistra italiana ha sempre sofferto di una visione nazional-popolare, procrastinatrice e a vocazione maggioritaria, che ha storicamente annacquato il potenziale di rottura delle classi subalterne, la loro intrinseca politicità, in favore di meccanismi di co-gestione dei conflitti. Un rischio che si ripropone fortissimo oggi, quando, nella notte della crisi, tutte le vacche sembrano magre e nere. Tutto ciò che rischia d’impedirci di articolare un discorso di unilateralità che ci consenta di non assumere l’interesse generale come il nostro. È solo un effetto ottico: la crisi non appiattisce la composizione di classe ma, anzi, ne cambia gerarchia e baricentro ponendoci la necessità di affinare i sensi per cogliere questi cambiamenti. Noi partiamo da un punto fisso. Il blocco si può sbloccare solo cercando di rimettere in moto la spirale favolosa della soggettivazione, quella spirale che parte dai comportamenti antagonisti che già si esprimono in potenza in questa nuova composizione di classe, passa per la costruzione di un punto di vista di parte, crea attivazione politica nel conflitto e genera quindi allargamento sociale. Solo così si diventa soggetti agenti contro il capitale invece che oggetti agiti dal capitale, solo così si creano quelle discontinuità che possono arrivare a far deragliare la linea retta del neo-liberismo, solo così possiamo tentare di rompere l’incantesimo della crudele mancanza di destino che la nostra epoca sembra riservarci.
Prendiamo il caso francese. Un gruppo piccolo, piccolissimo, di studenti si rende conto che una petizione contro la riforma del lavoro sta girando tanto sui social. Anticipano un sindacato che li ignora, che ha convocato solo un piccolo sciopero e solo per la fine del mese. Chiamano un corteo di poche centinaia di persone, che una settimana dopo diventano migliaia. Si menano con i celerini, coi sindacati studenteschi, raccolgono la simpatia di una parte della base sindacale, rompono i cortei come momento di ritualità stanca, forzano ad ogni occasione possibile e, a partire da questa potenza, trainano il movimento su posizioni che vanno al di là della vertenza della legge del lavoro. Una generazione iperpoliticizzata di una politica non politicante si forma nel giro di un mese, sostanzialmente nel gioco dello scontro con la polizia, nella non-accettazione dell’obbligo di prendersi carico della compatibilità delle proprie rivendicazioni di parte e delle proprie pratiche di lotta con il quadro sistemico, nella possibilità d’incontrarsi nella rottura della quotidianità. Invece di chiederci ossessivamente perché non ha funzionato in Italia, chiediamoci cosa ha funzionato in Francia: unilateralità del punto di vista, rifiuto dell’ingiunzione a farsi carico del funzionamento dell’insieme della società, rottura di quel “consenso” passivo e mediato da parte dell’opinione pubblica che sembra essere la sola bussola di tutta la sinistra dei non-movimenti in Italia.
L’Italia quindi? In Italia viviamo un momento di blocco. Siamo il solo paese in Europa che non è stato attraversato da movimenti di massa dentro e contro la crisi, se facciamo eccezione per quel mini-ciclo spurio, arrivato insieme troppo tardi e troppo presto che è stato quelle delle due Onde. Da quel momento solo risacca. Le lotte su cui abbiamo tanto investito dal NOTAV alla Lotta per la casa, nonostante abbiano rappresentato in momenti diversi e in forme diverse delle possibilità, nonostante hanno permesso, e non è poco, di consolidare esperienze militanti e formare tanti giovani compagni, non sono riuscite, per ora, a ricomporre davvero dietro di sé frammenti di classe impauriti e svogliati in forme massificate.
Qualche spazio di possibilità, non solo in potenza ma anche in concreto, ci sembra però di scorgerlo in questi mesi. Dopo due anni in cui la tenuta del governo Renzi sembrava impossibile da essere scalfita assistiamo al collasso su sé stessa della promessa alla base del partito della nazione, promessa che assicurava che rimboccandosi le maniche e finendola con le contrapposizioni “sterili” si sarebbe potuto smettere di continuare ad abbassare l’asticella di ciò che accettiamo di fare per sopravvivere.
A livello economico, la bolla occupazionale del jobs act si sta sgonfiando con la fine degli incentivi alle imprese, aumentando l’impazienza di tanti che avevano lasciato una possibilità al governo solo perché “tanto peggio di cosi non può andare”. Il salvabanche costituisce forse il primo attacco frontale a una classe media erosa ai suoi margini ma rimasta sostanzialmente intoccata nella sua dimensione centrale, mostrandoci una situazione inedita e potenzialmente esplosiva che potrebbe caratterizzare i prossimi anni. Resta sempre il nodo irrisolto della questione giovanile, la cui radicalità è bloccata dal tappo di un welfare familistico di cui bisogna sempre vedere le due facce perverse: da una parte il trasferimento di risorse inter-generazionale che blocca ogni rivendicazione rendendo possibile una sopravvivenza in uno stato di precarietà che si fa permanente, dall’altra la pressione che questo stato di dipendenza familiare mette sulle giovani generazioni spinte ad accettare livelli di salario sempre più bassi o addirittura gratuiti per mostrare alla famiglia di meritarsi il proprio sussidio diretto o indiretto.
A livello politico le ultime elezioni rappresentano senz’altro una battuta d’arresto che bisogna leggere non solo come dato aggregato ma anche nella sua dimensioni di classe. Non solo il PD perde ma perde nelle zone periferiche, perde tra i giovani perde insomma in tutti quei settori di classe che potrebbero potenzialmente essere un cuneo minoritario ma conflittuale per scardinare la porta delle lotte. Poco importa, in questo senso, chi vince, perché la sfera del voto è solo per noi un’indicazione di tendenza che ci aiuta a leggere le fasi che attraversiamo e non uno spazio da riempire.
A livello sociale, non c’è stata apparizione di Matteo Renzi e dei suoi ministri che non sia stata accompagnata da contestazione più o meno importanti. Pensiamo a ciò che è successo a Napoli e a Pisa non solo nella loro partecipazione immediata, significativa ma tutto sommato non enorme, ma soprattutto nello spazio di possibilità che ha lasciato intravedere a livello di consenso di massa verso chi non abbassa la testa.
Proprio su un NO sociale al governo Renzi pensiamo bisogna scommettere in questo prossimo anno politico che si apre con l’autunno. Sappiamo che l’avanzare della crisi è accompagnato da una ri-articolazione della catena di comando capitalistica che tende a spostare sempre più a livello europeo la governance contemporanea. Una governance che richiede misure economiche come possono essere le riforme di stampo neo-liberale, i sacrifici delle classi popolari e i tagli ai servizi ma che pretende anche un’innovazione della sfera istituzionale per permettere d’implementare in maniera più rapida le ingiunzioni provenienti dai mercati. Si tratta di un piano del comando che non possiamo ignorare. In questo senso secondo noi bisogna leggere la riforma costituzionale detta riforma Boschi: come parte di un processo più ampio di ristrutturazione della sfera pubblica (pubblica amministrazione, amministrazione locale, e anche, quindi, governo) che risponda a dei criteri di efficienza e reattività, eliminando le scorie di partecipazione formale e principi di equità che avevano dovuto, giocoforza, essere integrate in una parte del Diritto contemporaneo nel dopo-guerra, in un momento in cui un fantasma si aggirava ancora, fortissimo, per l’Europa.
È ovvio che la difesa della costituzione è qualcosa che c’interessa ben poco, anzi non c’interessa per niente, essa è infatti un documento storico frutto di un compromesso che aveva alla base un preciso rapporto di forza tra capitale e lavoro, rapporto di forza che aveva reso possibili le mediazioni “socialisteggianti” presenti nella carta. Cessato quel rapporto di forza non è rimasto che l’involucro vuoto del diritto, di cui però non bisogna sottostimare il valore simbolico per alcuni.
Detto questo, pensiamo che il momento del referendum sulla riforma costituzionale potrebbe essere un punto di precipitazione per materializzare un NO sociale al governo Renzi. Pensiamo sia il momento d’investire seriamente sull’odio diffuso che genera il Partito Democratico in questo paese e che il referendum costituzionale possa catalizzare energie troppe frammentate che si esprimono solo nel voto (o nel rifiuto di esso), facendone un momento per proporre ad ampi settori di classe altre forme di contrapposizione possibile.
Sinteticamente così abbiamo pensato di strutturare questa due giorni.
Intanto un primo breve momento generale di confronto sull’approccio con cui ci si è avvicinati a questo incontro e gli stimoli che abbiamo proposto in quest’introduzione. Dopo la pausa pranzo il tavolo forse più denso che è quello su soggetti e territori a cui abbiamo deciso di consacrare tutto il pomeriggio. A uno spezzettamento del lavoro vivo che complica il proprio riconoscersi in una condizione proletaria corrisponde una semplificazione sempre maggiore dei livelli alti del comando. Il che costituisce uno scenario in cui è più facile ricomporre una classe sempre più frammentante nella fabbrica sociale diffusa a partire non dalla propria condizione di sfruttamento comune ma dalla facilità ad individuare il nemico. Situazione interessante quindi, in una prospettiva antagonista e che apre tante domande. I processi di proletarizzazione e di polarizzazione sociale quali prospettive aprono di contrapposizione basso contro alto? Dove sta una medietà dei comportamenti e delle condizioni proletarie oggi in grado di rovesciare i rapporti di forza senza farsi schiacciare su una povertà impotente? Come attivare una composizione giovanile rimasta sostanzialmente muta nonostante i livelli di spoliazione fortissima che subisce? Quali sono i terreni possibili d’intervento per far uscire il malessere diffuso dalla sua impotenza?
La seconda giornata l’apriremo con la tematica guerra-crisi-migrazioni. Da sempre, nel capitalismo non è la crisi periodica che interrompe lo sviluppo ma lo sviluppo che interrompe la crisi permanente. Ma cosa implica questo in un momento in cui il capitale, sconfiggendo la classe operaia, ha sostanzialmente abolito, almeno alle nostre latitudini, la dialettica lotte-sviluppo? La chiave di lettura da mettere verifica ci sembra quella di un capitalismo che in cui la dimensione del dominio prende sempre più il sopravvento sulla dimensione dell’accumulazione. Viviamo una crisi ormai sempre più lunga, che si fa stato permanente, e che ci impone di ritornare sull’ipotesi stessa crisi come momento di precipitazione per vederne la dimensione propriamente di governo delle masse proletarizzate. La guerra (da intendere nella sua accezione economico-estrattiva e di disciplinamento quindi come guerra neo-coloniale nel senso proprio del termine) è l’altro aspetto di questo modo di governo propriamente contemporaneo che si porta appresso il suo corollario migratorio. Migrazioni da vedere in tutta la loro ambivalenza come spauracchio divisivo agitato efficacemente dalle destre ma anche come possibilità di nuova composizione conflittuale, pensiamo ad esempio al protagonismo dei lavoratori migranti in alcune zone del Nord Italia, forse gli unici che hanno tenuto alto il livello dello scontro sui luoghi di lavoro o quello delle famiglie occupanti o anche semplicemente alla capacità dei migranti in transito di lottare per la propria libertà di movimento mettendo in crisi il governo europeo. Questi i piani che vorremmo tenere insieme rispetto a questa discussione.
Il pomeriggio di sabato sarà invece dedicato a due laboratori dal carattere più concreto. Il primo sulle tecniche di contrasto e contenimento delle lotte con la volontà di analizzare in maniera organica i suoi due aspetti. Ci sembra infatti urgente affrontare insieme i due strumenti che solo noi percepiamo come opposti mentre per la controparte sono assolutamente complementari, ossia le forme di repressione delle soggettività e ai movimenti là dove questi esprimono reali momenti e intenti di contrapposizione e di incompatibilità; le forme di cooptazione e valorizzazione che vengono utilizzate là dove prevale la debolezza progettuale o emergono situazioni e volontà compromissorie. Come possiamo sottrarci a questa forbice per consolidare e rilanciare forme di contrapposizione reale che propongano la lotta come momento vincente e desiderabile? Quali forme organizzative possono rendere inoperante questo binomio che depotenzia ogni forma di conflitto ancor prima che possa sbocciare?
L’altro atelier è quello su linguaggi e comunicazioni, che sembra essere un tema al centro delle preoccupazioni di molti. Abbiamo assistito, negli ultimi trent’anni, alla coltivazione sistematica da parte del potere di forme di diseducazione di massa e di tentativo di disinnescare il pensiero amico/nemico tipico del ‘900 attraverso le retoriche dello sviluppo, dell’innovazione e dell’efficienza. Fatto uscire dalla porta, il pensiero antagonista rientra dalla finestra in delle forme spurie che hanno reso desueta gran parte del vocabolario classista dei movimenti e ci obbligano oggi a semplificare estremamente i nostri linguaggi. Come riuscire a non appiattire la nostra comunicazione sui livelli bassissimi del dibattito pubblico recuperando però quanto c’è di positivo nell’aspetto di contrapposizione che propongono i linguaggi di quei movimenti neo-riformisti o pseudo-razzisti che attraggono ampi strati del proletariato? I social-network ci sembrano in questo senso un terreno di sperimentazione importante su cui siamo molto in ritardo, avendoli prima percepiti come uno strumento di controllo distopico poi semplicemente come medium senza coglierne il carattere di vero e proprio ambito sociale di possibile intervento che ha le sue dinamiche, le sue brecce possibili. Un ambito che oggi ha una centralità gigantesca forse comparabile solo alla fabbrica fordista tanto nelle dinamiche di valorizzazione (pensiamo ai profitti generati da aziende come Facebook) che come ultimo spazio pubblico di massa.
Questi sono i presupposti da cui partiamo per questa due giorni. Ci siamo rivolti a chi pensavamo abbia i nostri stessi obiettivi e la stessa umiltà nel mettersi in gioco per raggiungerli, pur nelle reciproche differenze che speriamo possano venire fuori anche in maniera forte durante questi due giorni di discussione. Speriamo questo sia un momento tra i tanti di una dialettica che ci porti non ad appiattire la nostra azione politica e le specificità dei collettivi presenti su inutili compromessi mediani ma avvii un percorso di discussione, anche qui, di medio raggio, che ci permetta di ricominciare seriamente non solo a coordinarci e a convergere in occasioni specifiche ma a organizzarci e lottare.
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