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Zyed, Bouna e la violenza coloniale della polizia francese

 

Da “Il nemico interno” a questo libro (“La dominazione della polizia”), abbiamo l’impressione che l’ordine poliziesco sia un oggetto importante del tuo lavoro. Come sei arrivato a questo libro?

La mia idea è costruire degli strumenti per smontare il meccanismo di dominazione. In “Il nemico interno”, avevo studiato l’esercito e la sua influenza sulla società del controllo, quel lavoro dimostrava come le guerre coloniali abbiano fortemente orientato la ristrutturazione in senso securitario del capitalismo durante tutta la 5a Repubblica. Restava da approfondire la maniera in cui la polizia fa suoi il personale, i saperi, le pratiche, le tecniche e i materiali formati dalla, per e nell’esperienza coloniale e militare – ciò che Michel Foucault chiama gli “effetti di ritorno”. Mi sembrava necessario fare il punto sulle trasformazioni della polizia e della sua violenza in questi ultimi vent’anni. Non per l’amore dei libri ma per rinforzare le lotte.

 

Come hai circoscritto il campo di ricerca e d’azione?

Non faccio finta di scrivere su una società di cui non farei parte e che osserverei da un punto di vista esterno introvabile. Non voglio mascherare il fatto che tutti i metodi e tutte le problematiche sono orientate da chi le analizza, dalla sua posizione nella società e dai suoi punti di vista. Sotto la copertura della distanza col terreno di ricerca, numerosi studi mascherano necessariamente i privilegi e le connivenze che il ricercatore intrattiene con la società. Quindi rivendico il fatto che faccio ricerca da un posto preciso – i territori e le classi che subiscono quotidianamente e frontalmente il dominio della polizia, poi fornisco elementi per permettere di criticare le mie conclusioni, per correggerle e far avanzare la nostra comprensione del fenomeno. Ho passato una trentina d’anni nella banlieu parigina e una quindicina nei movimenti sociali e militanti. Non ho fatto ciò che i sociologi chiamano “osservazione partecipante”, appartengo a questo mondo e ho vissuto da vicino le trasformazioni della polizia. Ho formulato delle ipotesi mettendo in comune i ricordi e le narrazioni di numerose persone che subiscono direttamente la dominazione della polizia o dei collettivi che lottano su quel piano. Ho confrontato queste ipotesi con le ricerche universitarie sulla questione, con un corpus di autobiografie di poliziotti, con delle interviste e dei racconti di vita condotti da altri ricercatori con poliziotti di diversi corpi e con diversi status, con l’osservazione di blog di poliziotti e l’analisi di riviste sulla polizia, sulla difesa e sulla sicurezza ma anche con gli archivi dei movimenti di lotta contro la violenza della polizia. Da punto di vista pratico, prendo parte alle lotte popolari contro i sistemi di dominio e oppressione. Non cerco di fare della ricerca impegnata, mi sembra che non si possa separare la pratica, l’inchiesta e la vita quotidiana. L’inchiesta non è pertinente se non è fatta al servizio delle lotte e attraverso di esse. Questo lavoro è anche frutto di riflessioni collettive e deve tutto a chi combatte ogni giorno.

 

Parli quasi della riattivazione di una guerra contro-insurrezionale nel tuo libro. Quali sono i contorni di questo campo di battaglia?

Noto meno una riattivazione più che un processo lungo dove la guerra e il controllo, l’esercito e la polizia, s’influenzano in maniera reciproca al punto di arrivare quasi a fondersi in certe situazioni. Affermo che la contro-insurrezione è la grammatica, la matrice, il programma ideologico e tecnico che spinge il sistema securitario. Ma si tratta per l’appunto di vedere in che modo si opera la riformulazione, la traduzione, l’ibridazione della contro-insurrezione dentro la società francese. Non mi verrebbe in mente di dire che viviamo la stessa cosa della guerra d’Algeria o lo spiegamento di forze in Iraq. Ma osservo che abbiamo davanti, nei luoghi di segregazione della società post-coloniale, una forma di contro-insurrezione di bassa intensità, mediatica e poliziesca. L’inquadramento militare del territorio diventa occupazione poliziesca dei quartieri (polizia “di prossimità”), i commando diventano le feroci unità d’intervento (BAC…), i media dominanti s’incaricano dell’azione e della guerra psicologica, la propaganda di Stato recupera la figura del nemico interno “manipolato da Mosca” sotto la forma del “sinistroide-musulmano”; i campi, la tortura e il sistema di scomparsa delle persone sono recuperati nella prigione e nei fermi, nelle brutalità e negli omicidi della polizia… Mostro come le armi, le tecniche, le dottrine, le pratiche che vengono dalla contro-insurrezione coloniale e militare passano nel campo mediatico e poliziesco, come esse sono riutilizzate, ridispiegate, rielaborate per mantenere l’ordine sociale, economico e politico all’interno della metropoli.

 

Puoi definire la “tattica della tensione” di cui parli abbondantemente nel libro? 

È giustamente una forma di dominazione, regolata tecnicamente e razionalmente, che attinge dal repertorio contro-insurrezionale, coloniale e militare per schiacciare i dannati interni. È un riferimento ai meccanismi politici che permettono di controllare la popolazione strumentalizzando la paura o fabbricando dei nemici convenienti. Si parla spesso di “strategia della tensione” per designare gli anni di piombo in Italia, negli anni ’70. Lo Stato italiano manipolava l’estrema destra, grazie ai servizi segreti, facendogli realizzare degli attentati che attribuiva in seguito agli anarchici, cosa che gli permetteva di giustificare la repressione del movimento operaio e dei movimenti rivoluzionari. I gestori di questa strategia erano, tra l’altro, affascinati dal metodo francese di contro-insurrezione. Con l’espressione “tattica della tensione” intendo spiegare che questa tecnica, che consiste nel fabbricare dei nemici utili a facilitare il rinforzamento securitario, è passata ormai nel campo della polizia. Tecnicamente, questa traduzione è in opera dal prototipo coloniale e militare della battaglia di Algeri, nel 1957. La Casbah era stata allora chiusa e strangolata da forze d’inquadramento e occupazione militari-poliziesche, dopo penetrata, molestata e terrorizzata dall’invio di unità speciali all’interno per catturare, interrogare e far sparire i “capi”. Molestare e aggredire una popolazione rinchiusa e strozzata genera ovviamente molta tensione. Spiego che questo schema è stato dispiegato di nuovo sui quartieri popolari, alternando alle leve dello Stato frazioni di destra e di sinistra della classe dirigente che hanno moltiplicato le unità d’occupazione e di reclusione come anche le unità d’intervento e disturbo nei quartieri popolari. Progressivamente è così stata riformulata una tecnica di reclusione e aggressione combinata, supportata da elementi ideologici molto vicini alla contro-insurrezione e che tenta di distruggere la vita sociale e le forme di autonomia e di non-sottomissione delle “popolazioni” nel mirino.

 

L’imperialismo è un concetto molto forte. Nel tuo lavoro sembra un’evidenza perché usi questa retorica ma se ti chiedessimo di definirlo, come ne parleresti?

Non è una retorica, l’imperialismo è uno stadio dello sviluppo del capitalismo e dello Stato, che arriva in un momento determinato nella storia della lotta di classe. Si tratta di un rapporto di dominio di velocità diverse che s’inscrive nello spazio: è un processo d’espansione di uno Stato-nazione che parte dalla conquista di territori, di risorse e di popolazioni al di fuori delle sue frontiere e mette in pratica forme di dominio e segregazione basate sulla classe, il sesso e la razza. I geografi radicali anglosassoni mostrano che siamo entrati in una nuova fase dello sviluppo dell’imperialismo che assomiglia stranamente alla fase di accumulazione primitiva che aveva dato luogo alla nascita del capitalismo e che funziona attraverso la spoliazione delle risorse, dei territori, delle culture e delle forme di vita autonome. Provo a far vedere che le campagne di conquista portate avanti dai grandi stati imperialisti nel “mondo arabo” (Iraq, Afghanistan, Egitto, Siria…) si combinano con una dimensione interna sui loro stessi territori: l’espansione delle megalopoli urbane (Grand Paris, Grand Toulouse, Nantes Métropole…). Quest’espansione è sostenuta direttamente dalla tensione poliziesca e ha come obiettivo la conquista e la ristrutturazione piccolo-borghese dei quartieri popolari, il rinforzo della socio-apartheid, l’industrializzazione della reclusione e la massificazione del neo-schiavismo in prigione. La polizia è la punta di lancia di questa crociata interna.

 

Denunci la militarizzazione del lavoro di agente di polizia ma passi sotto silenzio il fatto che questa militarizzazione si è anche accompagnata ad una professionalizzazione e una migliore formazione degli effettivi. Ne “L’invenzione della violenza”, Laurent Mucchielli dice che c’è una regressione delle violenze della polizia da trent’anni a questa parte.

Non faccio nessuna denuncia, provo a spiegare le trasformazioni in corso. Non mi situo in quel dibattito. La violenza non è una quantità, non ce n’è di più o di meno. Le forme di coercizione evolvono in funzione delle situazioni da governare. Se la polizia si perfeziona effettivamente nel livellamento della coercizione e non spara più – per il momento, in Francia – con proiettili veri sui movimenti operai, il numero di persone uccise nei quartieri popolari non fa che aumentare. Quando finivo questo libro, nel settembre del 2012, 12 persone erano state uccise in sei mesi, una cifra record in aumento costante. Le armi “sub-letali” mutilano quasi quotidianamente nei quartieri. In alcuni di essi, perdere un occhio è una minaccia quotidiana. Sì, i poliziotti sono meglio formati per controllare i poveri per evitare di provocare rivolte ingestibili. Ma nei centri d’addestramento ci si prepara alla guerra urbana. Non si può capire se si guarda dal lato dei poliziotti, che cercano effettivamente di uccidere il meno possibile, che hanno paura anche loro e per cui la coercizione è un elemento minore in una loro giornata o in una loro carriera. Guardando dal punto di vista della polizia, non si vedono gli effetti reali del rinforzarsi della repressione. In realtà, se ci piazziamo dal lato di chi le violenze le subisce, il dato di fatto è diverso. Nel contesto dei quartieri popolari, delle prigioni e delle lotte sociali, vediamo che la polizia gestisce un sistema di violenza trasversale che distrugge la vita delle persone, ieri come oggi e che, ben lungi dal diminuire, si alimenta e trova risorse nell’esperienza coloniale e militare.

 

Che percezione hai di Manuel Valls?

Incarna perfettamente la sinistra di governo: quasi le stesse logiche e le stesse pratiche che sotto Sarkozy – perché si tratta sempre e comunque di sottomettere e bandire i poveri permettendo al capitalismo di ristrutturarsi – ma con una propaganda più sottile, un rivestimento un po’ più soft e quindi ancora più ingannevole. Mentre sotto Sarkozy, la figura del nemico interno era ricorrente, Valls si sente obbligato a dire che non c’è un nemico interno, continuando però a fare le stesse cose dei suoi predecessori. Non c’è nessun dubbio che Valls sia consigliato dalle stesse persone di Sarkozy o Guéant, Alain Bauer tra gli altri. E la situazione è sempre la stessa, i processi in corso continuano. Mentre la destra ha tendenza a ridurre il numero di poliziotti, a sviluppare unità feroci e a moltiplicare le tecnologie e gli armamenti, la sinistra conserva il tutto e dopo assume e sviluppa in particolare le unità d’occupazione (“di prossimità”). La successione della sinistra e della destra alle leve del governo non alterna i modelli ma li impila, assicura la continuità dello Stato e del rinforzo securitario.

Dicembre 2012 Les inrocks (traduzione italiana a cura della redazione d’Infoaut)

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