Askatasuna: screening di quartiere, vogliamo un altro modello di salute!
L’epidemia sta entrando nuovamente in una delle sue fasi acute. Nel momento in cui stiamo scrivendo per la terza volta in un anno le terapie intensive si stanno riempiendo, il numero dei morti cresce senza tregua e ci aspetta un altro lockdown.
Questo continuo ripetersi della curva pandemica si accompagna a stati d’animo molto differenti: se nel primo lockdown si affacciava la speranza di uscirne insieme, più unit*, con un modo diverso d’intendere il rapporto tra umani e tra umani e natura, nel secondo a farsi spazio era la rabbia e la frustrazione per le condizioni di vita in cui siamo costretti ad esistere, adesso è difficile definire cosa proviamo: siamo stanchi e spossati, ma anche consapevoli, probabilmente a prevalere è un certo spaesamento, un sentirsi allibiti per la violenza di questa crisi senza fine.
Sembra quasi che questa epidemia abbia una natura divina, ma non è così. Mentre nel nostro paese siamo costretti in questo continuo ciclo di contagi, lockdown, progressive aperture e promesse vane, in altri luoghi una più accorta gestione dell’epidemia ha permesso a tornare a dei modi di vita quasi “normali”. La ricetta che hanno usato è stata semplice e intuitiva, la lezione più banale che si possa apprendere dalla diffusione di un virus come il Covid. Con un attento screening e un potenziamento della sanità territoriale hanno costruito le condizioni per evitare il dilagare del contagio, hanno evitato che ospedali, scuole e posti di lavoro diventassero veicoli del virus. Qui invece per mesi siamo rimasti nell’attesa messianica del vaccino come soluzione ultima e definitiva. Intanto le varianti più contagiose hanno fatto in tempo ad attecchire, il piano vaccinale sta subendo enormi ritardi tra crisi di governo e tira e molla con le multinazionali del farmaco e noi siamo ancora più poveri, ancora più stanchi, ancora più abbandonati all’incedere della malattia o delle conseguenze sociali e psicologiche dei lockdown.
I dati sono spaventosi, ma ad essere altrettanto drammatica è la costante caccia all’untore che i politici usano per scaricare le proprie responsabilità. Le foto fatte ad arte sui giornali, i pattuglioni nelle piazze della socialità, la continua retorica contro i giovani tengono banco nel dibattito pubblico mentre ci si contagia sui mezzi pubblici, a lavoro, nei centri commerciali, a scuola.
Bisogna trovare il capro espiatorio. “Prima del covid dopo il lavoro o le lezioni in università ci si ritrovava per una chiacchierata tra amici; in università avevamo la possibilità (già prima scarsa) di confrontarci, creare saperi diversi da quelli imposti dall’accademia, discutere dei nostri corsi o degli interessi comuni; la casa di qualche amico ci ospitava per la cena, e magari poi si usciva a socializzare… Da un anno tutto questo è impossibile: le restrizioni hanno chiuso tutti quegli ambiti della vita considerati “poco importanti”, ovvero non direttamente produttivi, come la cultura e socialità.
L’isolamento nelle proprie case a cui ci ha costretti questa gestione scellerata della pandemia è problematico! Non solo per una questione di salute mentale e benessere individuale, ma perché la socialità, lo scambio di opinioni, sembra essere ridotta al solo scambio virtuale, con relazioni mediate dai social, rese alienate e asettiche.” dicono alcun* student*.
Il modo in cui è stata gestita l’epidemia ha messo in evidenza quanto la disparità di accesso alla salute ed ad una vita dignitosa nella nostra società sia enorme. E’ misurabile persino nelle piccole cose: avere i soldi per un tampone in farmacia, potersi permettere una visita in una clinica privata o convenzionata per patologie non connesse al Covid, avere una connessione ad internet decente, vivere in una casa che non sia minuscola, avere un accesso al reddito continuativo. Tutte queste, che sembrano piccole cose, nel pieno di una pandemia sono l’unità di misura di quanto una società sia in grado di prendersi cura di chi ci vive. Qui invece evitare il contagio e sopravvivere a tutto il resto nel frattempo è una gimcana individualizzata a cui tutt* siamo costrett*. Il lavoro di cura è interamente scaricato sui lavoratori e le lavoratrici della sanità, sui singoli individui, in particolare le donne, mentre nei palazzi va in scena la solita spartizione dei denari e delle poltrone.
Noi nel nostro piccolo però dalla dignità delle persone nell’affrontare questa situazione abbiamo imparato molto. Abbiamo visto piccoli e grandi gesti di solidarietà, abbiamo visto crescere la consapevolezza, abbiamo visto finalmente alzarsi delle voci contro questo modo di giocare con la vita e la salute delle persone. Noi nel nostro piccolo non possiamo sicuramente sostituirci a tutto quello che non funziona, ma possiamo iniziare dando il nostro contributo. In questa ottica abbiamo deciso di organizzare la giornata di screening di quartiere di lunedì per chi non può permettersi un tampone, per chi vuole essere sicuro di tornare da lavoro o da scuola a casa e non rischiare di contagiare i propri cari, per chi non ha i documenti e non può accedere alla sanità pubblica o semplicemente per chi vuole incontrarsi con i propri amici e le proprie amiche senza avere l’ansia del virus almeno per un giorno. L’abbiamo fatto grazie all’indispensabile supporto dei volontari di Rainbow for Africa e Torino Street Care senza cui l’iniziativa non sarebbe stata possibile. Non eravamo sicur* di quale sarebbe stato il risultato, ma la grande partecipazione ci ha mostrato come ci sia un bisogno che le istituzioni non sono in grado e non vogliono colmare. Un bisogno che ha a che fare con alcuni concetti apparentemente semplici, ma in realtà molto sfaccettati: comunità, sicurezza sociale, e ovviamente salute. Cosa vuol dire prendersi cura della propria comunità? Che differenza c’è tra la sicurezza proposta dalla politica dei palazzi, fatta di camionette, manganelli, caccia all’untore o al diverso e un concetto di sicurezza che invece parte dalla cooperazione per costruire una società più giusta? La salute è un fatto individuale, che dipende solo dalle condizioni del singolo o è un fatto sociale, collettivo come ci sta mostrando la pandemia e la dissennata gestione delle istituzioni?
Queste sono alcune delle domande che abbiamo ereditato dalla giornata di ieri e che probabilmente replicheremo se possibile. Ci piacerebbe riuscire a discutere queste domande insieme a tutt* coloro che soffrono e lottano in questa crisi.
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