
Italia: una società anziana, malata e sempre più diseguale
Due recenti rapporti ci offrono un affresco delle condizioni in cui versa la società italiana, disegnando uno scenario di forti diseguaglianze, frammentazione sociale e crisi demografica.
Lo stato dell’economia
Secondo il rapporto annuale dell’Istat “l’Italia ha mantenuto, per il secondo anno consecutivo, un ritmo di crescita dello 0,7 per cento, che riflette un debole contributo positivo della domanda estera netta e un rallentamento della spesa per consumi e, soprattutto, per investimenti. La crescita del Pil dell’Italia è risultata inferiore a Francia e Spagna, mentre la Germania ha sperimentato il secondo anno di contrazione”. Nello stesso periodo di tempo gli Stati Uniti sono cresciuti del 2,8%, la Cina del 5 e la media dei 27 paesi dell’Unione Europea è passata da una crescita del 0,4% del 2023 ad una dell’1% del 2024. Le cause di questa crescita moderata dell’economia italiana secondo l’Istat sono da rintracciare all’interno delle dinamiche internazionali incerte e in particolare rispetto alle esportazioni, ma anche nelle caratteristiche del sistema produttivo italiano “quali la dimensione delle imprese, la specializzazione in settori tradizionali e il limitato contenuto tecnologico/innovativo dei prodotti – a loro volta negativamente associate all’efficienza e all’incremento della produttività.”
Il rapporto sottolinea come la crescita sia piuttosto diversificata a seconda dei settori produttivi. Sull’onda lunga degli incentivi fiscali e del PNRR il settore dell’edilizia e delle costruzioni ha segnato un aumento del valore aggiunto in termini reali del 1,2% (anche se nel 2023 l’incremento era stato molto più consistente: +6,9%). In positivo anche l’agricoltura con un +2%, ma con performances ancora molto al di sotto dell’economia pre-pandemica (-5,2 per
cento).
Nel settore industriale poi si nota con più chiarezza l’andamento estremamente frammentato a seconda dei diversi settori produttivi. Complessivamente si riscontra una riduzione del -0,1%, mentre nel 2023 la contrazione era stata dell’1,8%. A sollevare i destini del settore sono stati “la forte crescita nei comparti della fornitura di energia (+7,3 per cento, dopo -3,1 dell’anno precedente) e dell’industria estrattiva (+6,2 per cento, recuperando il -5,2 del 2023), mentre nell’industria manifatturiera si è avuta una diminuzione dello 0,7 per cento, che segue un calo dell’1,2 per cento nel 2023.” Anche all’interno della stessa industria manufatturiera i risultati sono contrastanti: mentre crescono in maniera sostenuta la chimica e la farmaceutica (+8,7 e +6,7 per cento rispettivamente), la fabbricazione dei mezzi di trasporto ed il tessile vanno incontro ad una perdita del 7%. Ad una lettura superficiale l’andamento dell’economia sembra premiare gli ambiti industriali soggetti alla maggiore speculazione sui mercati finanziari (energia ed industria estrattiva) e quelli che storicamente vedono un’alta specializzazione nel nostro paese (chimica e farmaceutica), mentre tutti gli altri settori manufatturieri versano in una profonda crisi, in particolare naturalmente l’automotive.
Infine per quanto riguarda i servizi vi è un rallentamento della crescita che si ferma allo 0,6%. “Tra i diversi comparti, aumenti superiori all’1,5 per cento sul 2023 si sono avuti nelle Attività amministrative e di supporto alle imprese, Immobiliari, Finanziarie e assicurative, e nei Servizi di informazione e comunicazione. I Servizi di alloggio e di ristorazione, seppure in rallentamento rispetto agli anni precedenti, e le Attività professionali, scientifiche e tecniche sono continuati a crescere più della media.” E’ importante notare come invece hanno segnato una flessione le attività dei Servizi sanitari (-2,9 per cento): come vedremo più avanti a contribuire a questa contrazione potrebbe essere la tendenza degli italiani a curarsi di meno a causa dei costi insostenibili. Infine anche i Servizi di trasporto e magazzinaggio non vanno bene (-2 per cento), condizionati dalla debolezza del manifatturiero.
L’Istat rileva che i settori con le migliori performance economiche sia nei servizi che nel manifatturiero sono quelle ad alta tecnologia ed intensa conoscenza. Ma in Italia questi settori sono molto circoscritti, la maggior parte delle aziende rientrano all’interno dei settori tradizionali. La collocazione di molte piccole e medie industrie italiane è all’interno della catena del valore tedesca nella fabbricazione di semilavorati.
Questi dati vanno letti alla luce del fatto che il settore manufatturiero rappresenta ancora uno degli snodi fondamentali del sistema economico italiano al di là della propaganda sul turismo. Inoltre le stime sulla crescita, comunque molto moderata, sono viziate dalle performance del settore estrattivo e soprattutto energetico dove, dalla pandemia in poi, si sono riscontrati forti movimenti speculativi. Non a caso la Confindustria lamenta i costi esorbitanti dell’energia durante la sua assemblea annuale.
E’ chiaro che scavando dentro i risultati vantati dal governo in termini di performances economiche si scopre un nugolo di contraddizioni significative che prima o poi dovranno esprimersi. Ecco come si spiega la distanza tra la percezione della realtà di lavoratori e lavoratrici che si misurano quotidianamente con crisi aziendali, licenziamenti e un approfondimento dello sfruttamento e la narrazione sull’economia di Meloni e co.
Occupazione
Anche qui sentiamo quotidianamente gli epigoni del governo affermare che l’occupazione è in aumento, ed in effetti ad uno sguardo superficiale gli occupati sono aumentati dell’1,5 per cento (+352 mila unità), dopo una crescita del 2,1 per cento nel 2023 e del 2,4 nel 2022. Secondo quanto riporta l’Istat: “L’incremento dell’occupazione riflette anche dinamiche differenti per carattere dell’occupazione. Nel 2024 i dipendenti a tempo indeterminato sono aumentati del 3,3 per cento e gli autonomi dello 0,9 per cento, mentre è proseguita la diminuzione dei dipendenti a tempo determinato (-6,8 per cento). L’incremento degli occupati è stato dell’1,3 per cento tra gli uomini(+173 mila) e dell’1,8 per cento tra le donne (+179 mila).”
Ma di che tipo di occupazione si tratta? Anche qui i dati Istat sembrano essere confortanti ad una prima lettura. Nel 2024 i dipendenti a tempo indeterminato sono aumentati del 3,3 per cento e gli autonomi dello 0,9 per cento, mentre è proseguita la diminuzione dei dipendenti a tempo determinato (-6,8 per cento). L’incremento degli occupati è stato dell’1,3 per cento tra gli uomini (+173 mila) e dell’1,8 per cento tra le donne (+179 mila). L’arcano viene svelato appena si inizia a ragionare di salari in termini reali, cioè a fronte dell’inflazione: infatti considerando il periodo da gennaio 2019 alla fine del 2024, la crescita delle retribuzioni contrattuali è stata pari al 10,1 per cento a fronte di un aumento dell’inflazione (IPCA) pari a 21,6 per cento. Rispetto al 2019, le retribuzioni lorde di fatto per dipendente stimate dalla Contabilità nazionale in termini nominali risultano essere aumentate di circa il 13 per cento, a fronte di una crescita dei prezzi al consumo armonizzati del 18 per cento.
In pratica tra il 2019 ed il 2024 i salari sono cresciuti di quasi la metà rispetto alla crescita dei prezzi. Ciò ha significato sostanzialmente che i salari reali sono diminuiti e che i padroni grazie a questa differenza hanno scaricato i costi dell’inflazione sui lavoratori e le lavoratrici. In un regime del genere è conveniente assumere per le aziende, anche a tempo indeterminato, perché il costo reale dei salari è nettamente minore. Ecco che così si spiega anche lo studio rilasciato dalla CGIL in vista dei referendum del 8-9 giugno: secondo l’ufficio Economia della Cgil nazionale sono 6,2 milioni (35,7%) i dipendenti del settore privato che nel 2023 hanno percepito un salario inferiore ai 15 mila euro lordi annui, guadagnando nel migliore dei casi 1.000 euro netti al mese. Non solo: nel complesso, i lavoratori che guadagnano meno di 25mila euro lordi annui sono circa 10,9 mln di dipendenti (62,7%).
Di fatto una parte sostanziale della classe lavoratrice in Italia, anche tra chi usufruisce di un contratto a tempo indeterminato, fa parte della categoria dei cosiddetti working poors. I salari, già tra i più bassi rispetto alla media europea, vedono un’ulteriore erosione a causa dell’aumento indiscriminato dei prezzi. D’altronde basta andare al supermercato per rendersi conto di quanto il nostro potere d’acquisto si sia significativamente ridotto.
Dunque i principali risultati economici rivendicati dal governo, cioè la modesta crescita e l’aumento dell’occupazione, sono in realtà paradossalmente un indice preoccupante della crisi sistemica del modello produttivo italiano e un campanello dall’allarme per l’aumento dello sfruttamento.
Riproduzione sociale
Naturalmente questa crisi si riversa direttamente nell’ambito della riproduzione sociale del proletariato. A tendenze di lungo termine come quelle demografiche si affiancano la sempre maggiore frammentazione sociale e l’ovvia conclusione che con la diminuzione del salario reale l’accesso a beni e servizi dei singoli e delle famiglie si contrae nettamente.
Partiamo proprio dagli aspetti demografici: l’Italia si conferma uno dei Paesi più anziani al mondo, con un quarto della popolazione di 65 anni e più e oltre 4,5 milioni di individui con 80 anni e più. Nel frattempo, le nascite continuano a diminuire, con 370 mila nuovi nati nel 2024 e un tasso di fecondità sceso a 1,18 figli per donna. Nonostante le sbandierate politiche sulla natalità, pregne di vaneggiamenti ideologici, del governo Meloni non si può notare alcun cambiamento di rotta.
E’ chiaro che molto più prosaicamente in questa fase i trend demografici sono almeno in parte direttamente collegati alle dinamiche dei redditi. Infatti se si guarda alla composizione delle famiglie vi è un drammatico aumento delle persone che vivono da sole (tra gli anziani, ma anche tra i giovani), delle libere unioni, le famiglie monogenitore e quelle ricostituite, mentre si riduce la presenza dei nuclei familiari con figli. Le famiglie monopersonali rappresentano oltre un terzo del totale, mentre le coppie con figli si attestano al 28,2 per cento.
Le nuove generazioni incontrano ostacoli nei loro percorsi di transizione alla vita adulta, che diventano sempre più lunghi e complessi. Oltre due terzi dei giovani tra i 18 e i 34 anni vive ancora con i genitori, un dato che ci colloca tra i paesi europei con la maggiore permanenza in famiglia. I motivi sono molteplici: instabilità lavorativa, difficoltà abitativa, incertezza economica. La prolungata dipendenza dalla famiglia di origine si riflette anche sulle scelte riproduttive, contribuendo al calo della natalità.
La popolazione residente in Italia diminuisce costantemente e questa diminuzione e solo in parte compensata dai flussi migratori. La popolazione straniera residente e i nuovi cittadini italiani rappresentano le uniche componenti in crescita. Gli ingressi dall’estero raggiungono 435 mila unità nel 2024 e anche le acquisizioni di cittadinanza raggiungono nuovi massimi. Al netto degli specchietti per le allodole tipo i centri in Albania è evidente che i flussi migratori tengono in piedi diversi settori produttivi e riproduttivi che altrimenti collasserebbero a fronte della scarsità di manodopera: dalla logistica, alle cure domestiche dell’enorme quota di popolazione anziana e debilitata.
Nel frattempo però continua la fuga all’estero della manodopera qualificata e dei giovani con un alto livello di istruzione: negli ultimi dieci anni, il Paese ha avuto una perdita netta di circa 97 mila laureati di età compresa tra 25 e 34 anni, con un forte impatto sul capitale umano disponibile per lo sviluppo.
Ritornando brevemente sulla questione dell’occupazione infatti si evidenzia come i trend evidenziati sopra riguardino in misura minore i giovani e le donne. L’Italia presenta ancora tassi di partecipazione tra i più bassi d’Europa, in particolare per giovani e donne. Il tasso di occupazione è salito al 62,2 per cento, ma l’inattività resta elevata, soprattutto per la componente femminile e tra i giovani. L’inattività giovanile è l’unica in Europa a essere aumentata dal 2019, principalmente per effetto del calo della partecipazione delle giovani donne. Anche in termini contrattuali mentre la tendenza indica una crescita dei contratti a tempo indeterminato oltre un terzo dei giovani e quasi un quarto delle donne sperimenta forme di lavoro precario o part-time involontario. “Si cercano lavoratori sotto i trent’anni con vent’anni di esperienza”, una battuta un po’ boomer, ma efficace per rendere le caratteristiche del mercato del lavoro italiano.
Un capitolo particolarmente significativo riguarda la salute della popolazione italiana. Nonostante vi sia un’aumento della speranza di vita vi è una diminuzione degli anni di vita vissuti in buona salute: per gli uomini la speranza di vita in buona salute osservata nel 2024 (59,8 anni) segna il riallineamento a quella del 2019 dopo una crescita negli anni precedenti. Per le donne, invece, nel 2024, la stima di 56,6 anni segna il punto di minimo dell’ultimo decennio: in un solo anno si stima, pertanto, che le donne abbiano perso 1,3 anni di vita in buona salute, ampliando il noto divario di genere a loro svantaggio (-3,2 anni). Il divario non riguarda solo uomini e donne, ma anche Nord e Sud, per ovvi motivi collegati allo stato della sanità pubblica in queste regioni.
Un dato particolarmente indicativo è quello della rinuncia alle cure: nel 2024, circa una persona su dieci (9,9 per cento) ha riferito di avere rinunciato negli ultimi 12 mesi a visite o esami specialistici, principalmente a causa delle lunghe liste di attesa (6,8 per cento della popolazione) e per la difficoltà di pagare le prestazioni sanitarie (5,3 per cento). La rinuncia alle prestazioni sanitarie è in crescita sia rispetto al 2023 (7,5 per cento), sia rispetto al periodo pre-pandemico (6,3 per cento nel 2019.)
Cresce il ricorso al privato per quanto riguarda le visite e gli esami specialistici in cui chi può permetterselo si addossa l’intero costo della prestazione. Il rapporto dell’Istat conclude che dopo la pandemia da Covid-19, si rileva un generale peggioramento dell’accesso alle prestazioni sanitarie. Il fenomeno della rinuncia è aumentato nel tempo, e coinvolge oggi l’intero territorio del Paese, interessando tutti i gruppi di popolazione, anche quelli che prima del 2020 si trovavano in una posizione di relativo vantaggio (residenti nel Nord e persone con un elevato titolo di studio).
Se si guarda all’ambito della salute mentale il disagio psicologico continua a crescere indicando l’impatto a lungo termine della pandemia, ma anche la maggiore frammentazione sociale e l’impoverimento di fasce della popolazione. Il disagio psicologico colpisce in particolare giovani e anziani, con un impatto più marcato sulle donne.
Conclusioni
Sono molti altri i dati che varrebbe la pena di esplorare, ma per il momento ci fermiamo qui.
E’ evidente che senza una trasformazione radicale dei rapporti sociali questo paese è destinato a cadere in un baratro sempre più profondo. Le caratteristiche del sistema produttivo, estremamente dipendenti dalle catene del valore internazionale, in parte significativa predatorie, a scarso valore aggiunto e con scarse prospettive di rinnovamento rendono la società particolarmente soggetta ai fenomeni generali come le guerre (guerreggiate od economiche), le crisi ed il cambiamento climatico.
Il governo agisce evidentemente per liberare ulteriormente le forze predatorie del capitale nazionale ed internazionale favorendo di fatto il lavoro povero, la privatizzazione del welfare e la frammentazione sociale.
Viviamo in una società sempre più anziana, povera e debilitata in cui le disuguaglianze si fanno sempre più marcate e le prospettive più cupe.
Prima di chiudere vanno fatte alcune considerazioni: tutti questi fenomeni sono ampiamente conosciuti e dibattuti da tempo, ma non hanno prodotto alcun significativo cambiamento nelle politiche istituzionali. E’ importante sottolinearlo per almeno tre motivi:
- In primo luogo vi è una questione di metodo: avere chiaro un generico quadro sociologico delle condizioni in cui versa il nostro paese non garantisce in alcun modo di per sé una efficacia dell’azione politica. Può aiutare a intuire tendenze, a comprendere il contesto in cui siamo collocati. Ma, con una metafora medica, si può dire che questi rappresentino al massimo i sintomi e non la malattia. Questi dati ci dicono poco o nulla del sistema produttivo italiano sul profilo di come si articola lo sfruttamento, spesso ancor meno delle forme della crisi della riproduzione sociale, niente o quasi delle esperienze soggettive dei gruppi sociali e delle soggettività. E’ necessario sottolineare questi aspetti perché il rischio, sempre presente, è quello di mettere il carro davanti ai buoi: cioè di credere che basti agitare questi dati per produrre qualche cambiamento. La realtà è che senza individuare ed esplorare le contraddizioni che generano questi sintomi, senza cercare di comprendere come mobilitare delle forze sociali che vivono determinate condizioni, senza individuare dei terreni pratici della contesa, senza la capacità di elaborare il “programma implicito” di queste forze sociali in “programma esplicito” non c’è possibilità trasformativa.
- E’ evidente che le dinamiche dei mercati, delle catene del valore, della geopolitica agiscono repentinamente sul tessuto produttivo e riproduttivo di un paese, il nostro, che ha una collocazione peculiare nelle dinamiche capitalistiche, una sorta di regno di mezzo, di semiperiferia. Questo ci deve far riflettere in due differenti direzioni: da un lato bisogna essere consapevoli che gli anni che abbiamo davanti rappresenteranno una significativa accelerazione in cui i rapporti sociali consolidati, il quadro economico-politico potranno andare incontro a sconvolgimenti difficili da prevedere. Dall’altro lato è importante verificare se, come ci sembra, la percezione di questi fenomeni sulla vita reale è molto più diffusa e radicata, anche se a volte confusa, rispetto a quanto siamo soliti credere e quindi se vi è uno spazio di possibilità che sta lentamente maturando.
- Infine serve pragmatismo e credibilità. La scommessa che il degradarsi dei rapporti sociali attualmente esistenti conduca ad una ripresa dell’azione collettiva in un paese come il nostro, anziano, impoverito e debilitato, dipende anche dalla capacità di elaborare prospettive credibili e di leggere i potenziali conflitti sociali in anticipo, cercando di mettere da parte lenti eccessivamente ideologiche e visioni semplificate della realtà. Se c’è qualcosa di chiaro è che il governo delle destre regge non per meriti propri, ma per la totale assenza di un’alternativa credibile. Allo stesso tempo questa alternativa non si può ricercare all’interno di una “sinistra” che funge da droga sistemica, tentando di catturare le mobilitazioni sociali per rafforzare la tenuta di un sistema capitalista sempre più in crisi. Bisogna pensare ed agire qualcosa di nuovo. Capire di cosa si tratta è una parte non marginale della scommessa.
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