Contributo sul 15 ottobre dai compagni/e del centro sociale Rialzo
SUL 15 OTTOBRE
La crisi economico/finanziaria esplosa nel 2008 è in pieno corso nonostante tutta le misure tese ad arginarne e limitarne la portata adottate da governi e organismi sovranazionali, sotto i diktat delle organizzazioni padronali, a dimostrazione della sua natura strutturale e della inadeguatezza delle soluzioni e delle ricette neoliberiste.
L’egemonia neoliberista chiede di ripristinare i meccanismi di accumulazione, di far ripartire la macchina capitalista dopo lo scoppio della bolla finanziaria imponendo politiche di ristrutturazione che recuperino dal lavoro vivo gran parte della ricchezza fittizia bruciata o ancora in circolo. L’inganno della creazione di denaro dal denaro, attraverso la finanziarizzazione selvaggia dell’economia, svela oggi la sua debolezza: la finanza mondiale necessità di capitale e continua a dettare l’agenda politica di governi e istituzioni sovranazionali ricattandoli attraverso lo strumento del debito. Il blocco economico europeo, a guida franco-tedesca, impone attraverso l’ecofin e la BCE la ristrutturazione del modello europeo. I piani lacrime e sangue imposti prima a Irlanda, Grecia, Portogallo e Spagna, ed oggi all’Italia, hanno il duplice scopo di tutelare il capitale bancario investito nei debiti sovrani e costruire in Europa una zona ultraflessibile in cui l’implementazione coatta di alcune misure “modernizzatrici”, riguardo al welfare e alla legislazione del mercato del lavoro, allargando sempre più la massa precaria e ricattabile. Inoltre, attraverso la dismissione del patrimonio pubblico ed alle privatizzazioni in atto, si mira a realizzare una base reale più solida del capitale circolante attraverso lo sfruttamento del lavoro vivo e della rendita derivante dalla messa a valore dei beni comuni.
In Italia la progressiva ed inesorabile cancellazione dello stato sociale -che abbiamo subito negli ultimi 20 anni – è stata funzionale al processo di privatizzazione dei beni comuni e dei servizi pubblici, non trovando nessuna opposizione ne nei sindacati collaborazionisti ne nelle opposizioni ma, piuttosto, dei fedeli esecutori degli interessi capitalistici globali. Infatti, la sottoscrizione da parte della Cgil dell’accordo del 28 giugno rappresenta la resa finale alle necessità del Mercato e dei diktat di BCE e FMI.
La sommatoria dei processi politici innescatisi dal 2008 ad oggi, segnala la prevedibile incapacità delle istituzioni di declinare il senso della crisi per come lo si vive dal basso.Per i settori popolari la crisi economica non è crisi di “valorizzazione del capitale” in quanto i bisogni e le esigenze della maggioranza della popolazione non coincidono con le attenzioni di una ristretta cerchia di ricchi. L’agenda politica europea dettata dalla Bce segnala la vittoria delle forze neoliberiste, sia per la loro capacità di modificare e ristrutturare il sistema economico nel verso più funzionale alle dinamiche di accumulazione ma, soprattutto, nell’imporre la propria costruzione semantica della crisi, le proprie parole d’ordine che occultano gli elementi di sofferenza sociale dietro la presunta necessità collettiva della ripartenza economica.L’essenza della crisi reale per le popolazioni è l’assenza di reddito, di prospettive, di diritti e democrazia ma, nell’incontro con il senso della crisi costruito e diffuso dal circuito politico e mediatico egemone, il soggetto precario esce confuso e disorientato, isolato e diviso. Troppe volte il precariato è incapace di riconoscere la declinazione autentica dei propri “sogni” e “bisogni” e di individuare una prospettiva emancipatrice, ingabbiato in una situazione disperata e apparentemente “trascendentale” in cui il mercato, entità metafisica e infallibile, detta misure e compatibilità di diritti e dignità.Non sono gli effetti della crisi dell’accumulazione a creare la crisi sociale, come ci viene trasmesso dalla’alto, ma le condizioni stesse dell’accumulazione, nel lungo e nel breve periodo, che alimentano e riproducono le condizioni di disperazione e rabbia sociale.
Il 15 Ottobre è stato un giorno straordinario per chi vive dal basso questa crisi. Nelle maggiori città del mondo la rabbia e il punto di vista precario si sono fatte analisi e proposta politica. La crisi diventava finalmente crisi sociale ribaltando le categorie egemoni dell’attuale discorso politico edificate intorno alla necessità di “pagare il debito”. Mentre ai pochi “garantiti” del pianeta, che per anni hanno costruito i propri imperi accumulando selvaggiamente ricchezze sul sudore e sui sacrifici della maggioranza della popolazione mondiale, e che oggi recitano la “necessità” di socializzare le perdite, appellandosi ad un pretestuoso senso di responsabilità e all’unità nazionale, la Piazza del 15 ottobre ha risposto con una ferma e corale opposizione “noi il debito non lo paghiamo, non siamo tutti sulla stessa barca e siamo stanchi di fare sacrifici”. Ci riprenderemo quanto ci avete tolto!
Il movimento, dopo anni di maturazione, si (ri)scopre numeroso e compatto intorno ad un’analisi e ad una proposta che ribalta il senso “istituzionale della crisi”, che smaschera la collocazione dicotomica rispetto a partiti e sindacati compatibilisti. Il punto di vista precario della crisi si emancipa finalmente dal senso imposto da banchieri, padroni e politicanti assumendo la dimensione di una moltitudine incompatibile con i loro dettami.
Esaurita l’umana simpatia e comprensione verso i manifestanti Draghi, attraverso i suoi sodali della Bce, prendeva carta e penna per ribadire al nostro governo la necessità di riforme strutturali capaci di rilanciare la crescita. E dava anche la ricetta: precarizzazione estrema dell’esistente, privatizzazioni e liberalizzazione selvaggia del mondo del lavoro. La protesta che dilaga può suscitare perfino simpatia in padroni e governanti: come se fosse un fenomeno folkloristico, bello e simpatico nella misura in cui, chiuso il sipario della manifestazione, ognuno torna a casa propria lasciando tutto immutato. L’opposizione parlamentare, al servizio di confindustria e banchieri, sfida il governo additandolo come incapace di recepire i diktat dell’Ue, auto candidandosi come interlocutore più efficiente ed affidabile per attuare tutto ciò che la Piazza del 15 Ottobre contesta.
In questo quadro di democrazia bloccata, in cui la forma storica di rappresentanza mostra tutta la sua impotenza, la crisi sociale viene perpetuata dal blocco granitico di potere che impone la ristrutturazione dei meccanismi di accumulazione come unica priorità politica, in cui il rafforzamento della precarietà diventa medicina ricostituente del sistema capitalistico mentre alimenta la disperazione sociale. Sono due mondi che non potevano che confliggere e deflagrare: il blocco istituzionale al servizio dei potentati economici contro la moltitudine precaria!
La violenza del 15 Ottobre, che ci piaccia o meno, è il termometro esatto delle contraddizioni sociali esistenti, dell’incapacità di dare risposte politiche ad una generazione precaria ed incompatibile con un sistema che mette il capitale al centro e riduce l’uomo a mezzo di produzione. Mentre le istituzioni che si arrogano la pretesa di rappresentarci, inseguono la medicina salvifica per oliare nuovamente la macchina dell’accumulazione capitalista, la Piazza del 15 ottobre cerca di ristabilire la Giustizia Sociale attraverso l’abbattimento dei meccanismi di sfruttamento e imposizione che alimentano le odierne forme di accumulazione per riappropriarsi della dignità e dei diritti negati.
Non si possono confondere i due percorsi: da una parte abbiamo la necessità dei potentati economici e dei blocchi di potere di mantenere il dominio sulle popolazioni per continuare a garantirsi i privilegi, mentre, dall’altra, c’è il sentiero tracciato dal soggetto precario. Un sentiero che rivendica uguaglianza, diritti e dignità. Abbiamo la necessità di autorappresentarci e di autorganizzarci, perché nessuno lo farà per noi, perché nessuno parlerà l’alfabeto sofferente e rabbioso del soggetto precario!
Dove scompare la folta schiera di pacifisti quando l’esercizio giornaliero della violenza di stato si abbatte su una popolazione precaria e ricattabile? Non abbiamo trovato pacifisti indignarsi nei cantieri in cui muoiono lavoratori in nero; non abbiamo trovato pacifisti indignarsi davanti a call-center in cui si guadagna 3 euro l’ora (meno delle lavoratrici di Barletta); non abbiamo trovato pacifisti indignarsi davanti al diritto negato di una casa, di una sanità e di un’istruzione gratuita e d’eccellenza; non abbiamo visto pacifisti indignarsi davanti alle decine di migliaia di migranti inghiottiti dal Mediterraneo; non abbiamo visto pacifisti indignarsi davanti il silenzioso genocidio perpetrato nei lager etnici che ieri si chiamano CPT ed oggi CIE; non abbiamo visto pacifisti indignarsi di fronte ai morti dello Stato in Divisa. Perché la violenza asimmetrica dello sfruttamento legalizzato non suscita sdegno ma un ossequioso e connivente silenzio. E’ la “sovversione” violenta che fa paura mentre si esercita costantemente una condivisa “eversione” della legalità costituzionale edificata su concetti di ineludibile giustizia sociale: l’illegalità è costituente quando conserva il potere, è criminale e inaccettabile quando lo contesta. Allora, privi di ogni fanatismo irrazionale, non coltiviamo l’apologia della “violenza per la violenza” ma fuggiamo dalla condanna dei barbari, vandali e criminali del 15 ottobre propria dei media di regime, dei governanti e dei padroni e, cara, anche ad alcuni leader politici, sindacali e di movimento che solo a parole si richiamano agli ideali e ai valori della sinistra ma che nella quotidianità della loro prassi politica sono assuefatti alle logiche delle compatibilità di sistema. Nella piazza romana è esplosa la rabbia precaria in forme nichiliste o politicamente più facilmente decodificabili. E’ lo stesso soggetto sociale composto da precari, lavoratori, migranti e disoccupati che alcuni anni fa mise a ferro e fuoco le banlieu francesi, che da più di tre anni tenta di rovesciare il governo Papandreu in piazza syntagma, che negli scorsi mesi si ribellò a Londra contro l’innalzamento delle rette universitarie e che sulle coste mediterranee ha spodestato i fantocci dei governi occidentali, a cui i detrattori di oggi soltanto ieri, romanticamente, inneggiavano e salutavano come “primavere e rinascite”…
L’elemento politico che dobbiamo porci come bussola analitica è come costruire un percorso di trasformazione collettiva che sia capace di incanalare quella rabbia in percorsi di auto organizzazione e conflitto dal basso in grado di lanciare, partendo dai nostri territori, un movimento anticapitalista di massa che vive già potenzialmente nella confusa percezione comune e negli interstizi della sofferenza sociale.
Al corteo del 15 Ottobre alcuni spezzoni hanno costruito azioni conflittuali pienamente legittime poiché in un movimento variegato e composito, incapace di costruire una piena condivisione politica, non c’è nessuno che da patenti di legittimità politica a pratiche e percorsi. L’elemento della demonizzazione della violenza, a cui hanno dato sponda alcuni soggetti organizzati e di movimento, è il grimaldello politico attraverso il quale scatenare la repressione sul movimento colpendo singoli compagni e favorendo leggi speciali che andranno a restringere l’agibilità politica complessiva e le potenzialità di crescita del movimento. Per questo esprimiamo piena solidarietà ai compagni arrestati in questi giorni e rilanciamo la necessità politica, da costruire e far vivere sui nostri territori, di scoprire e smascherare le condizioni sociali della rabbia precaria, di moltiplicare pratiche di autorganizzazione e riappropriazione dal basso in grado di rilanciare una campagna contro la precarietà a 360°. E’ un sentiero difficile da percorrere, in cui ci toccherà ribaltare il senso comune della crisi, svelare l’alfabeto rivoluzionario e costituente della rabbia precaria.
CPOA Rialzo – COSENZA
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