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Dentro e oltre il #19A: aporie di movimento e potenza dei subalterni

(K. Sanyal, Ripensare lo sviluppo capitalistico. Accumulazione originaria, governamentalità e capitalismo postcoloniale: il caso indiano, La casa di Usher, Firenze, 2010, p. 61)

Il 19 aprile è stata una giornata di mobilitazione nazionale sul reddito e sulla precarietà, per costruire l’ingovernabilità sociale che una interessantissima fase storica ci pone innanzi, facendo seguito a una proposta del network di InfoAut (Proposta, poi, accolta e fatta propria da altre realtà di movimento a livello nazionale). Infatti, la giornata del 19 aprile ha visto manifestazioni a Palermo, Cosenza, Bari, Napoli, Bologna, Torino ecc. A Napoli, nella stessa giornata era stato promosso un corteo di migranti per rivendicare l’attivazione di corsi di formazione cui hanno aderito per solidarietà e istanze specifiche altre componenti di movimento. Nella preparazione della giornata si è deciso di confluire insieme nello stesso percorso poiché le istanze presenti potevano trovare una sintesi nella rivendicazione di reddito e salario garantito.

Dal nostro punto di vista, non una rivendicazione astratta o meramente vertenziale, bensì un tema incarnato nella reale riappropriazione di tutto quello di cui veniamo espropriati, dai diritti sociali, al diritto all’abitare, dagli spazi alla ricchezza che produciamo e di cui veniamo sottratti. La declinazione che ne è venuta fuori è stata materialmente indirizzata alla riappropriazione, simbolica e non, di tali diritti.

Infatti, la nostra giornata è iniziata molto presto: abbiamo condotto diverse iniziative sui trasporti, con azioni ben mirate, in diverse fermate della metropolitana e si è conclusa, prima, con l’occupazione temporanea di uno studentato di proprietà dell’Opus Dei, finanziato con fondi regionali, e infine, con l’occupazione di uno stabile a scopo abitativo nel quartiere Vomero.

L’aggressione della crisi economica ai redditi e il caos politico-istituzionale, da una parte, e dall’altra, i terreni della riappropriazione della ricchezza sociale, del diritto alla libera circolazione di tutte/i e del diritto al salario sociale per migranti, precari e disoccupati, avrebbero potuto essere dei multi piani accomunanti le componenti e i soggetti che hanno attraversato il corteo. Purtroppo ancora oggi si fatica a trovare un nemico comune e, innanzitutto, a fare fronte comune. Eppure gli intenti della manifestazione muovevano verso una ricomposizione delle classi subalterne. Per la prima volta in Campania, precari e immigrati, con il loro portato di bisogni, avrebbero potuto portare a sintesi delle vertenze comune, praticando una ricomposizione di classe che almeno in una piazza plurale parlasse un’unica voce, valorizzando le differenze come ricchezza di movimenti in opposizione alla crisi, alla dittatura finanziaria e alle politiche di austerità. Insomma ad una società nient’affatto a misura d’uomo.

Tuttavia, elementi di divisione sono stati introdotti, in maniera brusca e inaspettata, minando ogni possibilità di terminare la manifestazione in modo unitario e condiviso.

Durante il percorso, il corteo (all’interno del quale il nostro spezzone è rimasto compatto e composito di precari, studenti, lavoratori, disoccupati e migranti) è stato affiancato, nel passaggio davanti ai simboli della crisi finanziaria (banche, agenzie immobiliari e di credito), da manifestanti con la pettorina arancione che presidiavano con l’obiettivo esplicito di evitare che qualcuno potesse comunicare e segnalare i responsabili dell’attuale crisi. Compagni di strutture organizzate di Napoli e Caserta hanno organizzato, gestito e partecipato a questo servizio d’ordine insieme alla composizione migrante; peraltro, i fratelli e le sorelle migranti convenivano con noi piuttosto che con le posizioni manifestate da chi ha istillato il dubbio e il controllo. Non in ultimo, è inusuale, e semmai addirittura provocatorio, controllare e guardare a vista uno spezzone di un corteo composito e ampio.

La strumentalizzazione delle lotte, che vede tutelato un nemico che dovrebbe essere comune da parte di una gestione di un corteo che tutela le banche, a fronte di coloro che puntualmente si trovano a essere i soggetti del precariato coatto, vittime delle misure anti-crisi, ci sembra un attacco alla dignità di quanti sono scesi in quella giornata a manifestare degnamente una rabbia, che è anche la cifra di un umore diffuso e trasversale nella società.

Un atteggiamento, cieco e discriminatorio, che ha visto in piazza una chiusura tale da imporre a taluni una difesa dei simboli del capitale nella convinzione che ciò avrebbe comportato qualche vantaggio nel chiedere corsi di formazione alla Regione come risposta all’attuale crisi economica e sociale. Richiesta che, per la verità, ci lascia alquanto perplessi…

Siamo convinti che non sia la razza a separarci ma le classi sociali, conveniamo con Frantz Fanon quando afferma che “è un dato di fatto: ci sono Bianchi che si stimano superiori ai Neri. Ed è un altro dato di fatto: ci sono Neri che vogliono dimostrare ai bianchi, a ogni costo, la ricchezza del loro pensiero e che la potenza del loro spirito è pari a quella dei Bianchi. Come uscirne? Il Nero deve condurre la lotta su due piani” (Pelle nera maschere bianche, pp. 9-11). E chi in quella piazza non farebbe proprio tale dubbio? Forse gli atteggiamenti assistenzialisti, paternalistici e dal sapore amaramente razzistici sono riusciti a interrompere il flusso divisorio cui allude Fanon? Il tacitare gli spontaneismi, perché nulla si muova e nulla cambi, tutelando metaforicamente il capitale finanziario, le banche, i santuari in cui precari, disoccupati e migranti, senza ombra di dubbio, non si riconoscono, ha consentito di compiere passi in avanti sulla strada della ricomposizione delle vertenze e della lotta alla precarietà?

E se iniziassimo a rifiutare ogni tipo di sfruttamento, ogni tipo di segmentazione e divisione, se iniziassimo a rigettare puntualmente le classificazioni razzializzanti, forse ci accorgeremmo che il protagonismo precario, la resistenza quotidiana al ricatto di un lavoro a nero e malpagato, le lotte dei poveri non hanno bisogno di chiedere alcun permesso! Dopotutto la cooperazione sociale, la potenza della rottura che si esercita nelle prassi contro l’individualismo, la competizione, la disuguaglianza sono poste in palio su cui scommettere la costruzione di altre relazioni sociali, al di là della misura dello sfruttamento capitalistico. Nondimeno la creazione di nuove forme di istituzioni, dal basso, la forza di costituire il comune passa attraverso la capacità di produrre il mondo nella cooperazione, nell’uso libero dei saperi, degli spazi e delle opere. Detto fuori dai denti: nell’uguaglianza e nella democrazia sostanziali. Non accettiamo che venga reso fertile il terreno a dispositivi mentali che, in controluce, rilasciano ombre di strumentalizzazione e di delega. Dall’esperienza abbiamo imparato che ai terreni lisci dei dogmi preferiamo i campi striati e puntiformi della critica, che ai punti esclamativi della delega sostituiamo la pratica insegnataci dagli zapatisti dell’ascolto, della solidarietà e del camminare domandando, e che alle scelte imposteci dall’alto opponiamo la potenza che dal basso i subalterni rilanciano per mezzo della lotta.

E poi: basta con i costrutti razziali! Quelli che spesso informano rappresentazioni stereotipate ed esotiche dell’alterità e della figura migrante: figlia di assistenzialismo paternalista. Basta! Perché non tentare di produrre nuova cittadinanza a partire dal riconoscimento di una parte, quella dei subalterni, assoggettati da meccanismi e strumenti di controllo e di sfruttamento che vogliono l’uomo in lotta contro l’uomo? Perché non immaginare una società che produca per l’uomo? Sarebbe un punto di partenza. E non giustificherebbe alcun tipo di inversione reazionaria.

Ciò che a noi interessa sono i percorsi reali, quelli che, nella nostra parzialità, cerchiamo di far detonare. Sono quei movimenti in grado di generalizzare il conflitto sociale, quei momenti di rottura che possano aprire e tenere aperti i movimenti.

Uno spezzone, il nostro, che soltanto per senso di responsabilità, per non rispondere a certe provocazioni, sapendo chi fossero i responsabili di questo gesto scellerato e provocatorio, che non muoveva certo verso una ricomposizione di classe, anzi a tutt’altro, ha deciso di abbandonare il percorso, e deviando ha intrapreso un corteo selvaggio e comunicativo lungo le arterie del centro storico per poi raggiungere gli altri luoghi dove sono state compiute azioni. Niente male: abbiamo comunicato a un altro pezzo di città e ci siamo riconquistati altri spazi.

Uno spezzone composto, va detto, non da ‘alcuni pezzi di centri sociali’ bensì da tutti i centri sociali della Campania (ad eccezione dei due che hanno preferito proseguire in corteo verso i palazzi della Regione), da collettivi di lavoratori Astir di Acerra, di disoccupati, di precari, di studenti e di migranti.

 

Precar@, disoccupat@, student@ campan@ per il reddito verso e oltre il #19A

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