Devastazione e saccheggio
Era indispensabile, dopo la sentenza sulla macelleria messicana della scuola Diaz e sul lager di Bolzaneto, sanzionare che a Genova c’era una situazione di guerra, o poco meno: a futura tutela di eventuali azioni giuridiche nei confronti delle forze e dei tutori dell’ordine costituito. A quanto pare, i macellai della Diaz sono colpevoli non per aver fatto ciò che hanno fatto, ma per averlo fatto nei confronti di un centinaio di innocenti: avessero scelto meglio i loro bersagli, avessero scaricato il loro sadismo nei confronti dei tanti devastatori e saccheggiatori che si intuisce essere stati lì, a portata di mano, non avrebbero patito conseguenze giudiziarie. Fascista, ma anche un po’ pirla, il loro daimon…
Era altresì indispensabile, a futura tutela della necessità di condotte un po’ meno messicane (vogliamo dire: greche o spagnole?) che fosse evidente a tutti lo scambio, il pari-e-patta tra la condanna, indifferibile, dei violenti all’interno delle forze dell’ordine e la speculare condanna dei violenti all’interno del movimento: due anomalie da rimuovere in modo chirurgico, la cui asportazione giustifica il tornare a parlare del G8 di Genova dopo quasi un decennio nel corso del quale non il G8 in sé, ma la stessa città di Genova era scomparsa dalla televisione, dai notiziari, persino dalle location delle fiction. Adesso se ne può parlare (vivaddio, è pur sempre la città d’adozione di Fabio Fazio!), ma entro ben circoscritti confini.
E, soprattutto, era necessario rimarcare cosa Genova e il G8 sono stati – meglio: cosa si deve dire e pensare che sono stati. Si ha un bel riempirsi la bocca con il gran testo narrativo del mondo, all’interno del quale sono possibili tutte le narrazioni che si vuole: le narrazioni dominanti, quelle che egemonizzano la percezione e la coscienza del mondo, sono oggetto di una produzione discorsiva che è in strettissima relazione con i dispositivi di potere in atto. A Genova, nei tre giorni del luglio 2001, non c’è stata alcuna manifestazione di libero pensiero, né libere manifestazioni di dissenso possono essere considerate le pratiche di resistenza alla violenza omicida del 20 e 21 luglio, alla trappola di piazza Alimonda, alle cariche selvagge contro i trecentomila manifestanti. Come ha rimarcato il sostituto procuratore generale Piero Gaeta, «oltre alla devastazione, non ci può essere altra libera manifestazione del pensiero: ed è bene chiarire che questo reato viene perseguito da una norma garantista a tutela dei diritti costituzionali dei cittadini». E poco importa se questa norma garantista a tutela dei diritti sia stata introdotta nell’ordinamento giudiziario in epoca fascista. Così come poco importa l’esiguo numero dei saccheggiatori. È certo «odioso» ricordare che questi dieci sono, alla fine dei conti, i capri espiatori – lo ha riconosciuto persino Carlo Bonini, uno che di “black bloc” se ne intende, uno che i “black bloc” da intervistare li tira fuori dal cilindro, come lo scorso 15 ottobre, a beneficio dei gonzi e dei coglioni che credono alle fole del suo giornale-partito: ma, prosegue Bonini, «questo non può e non deve essere un motivo per non applicare i principi del diritto: ne va dell’uguaglianza di tutti di fronte alla legge».
Certo, la giustizia è una dea bendata, come ci insegnavano i miti ai tempi del liceo: magari per coprire le palpebre imputridite e la follia sul volto di un’anima morente, come ci ricorda Lee Masters. Ma nel suo pesare e misurare sui due piatti della bilancia, traduce senza sosta le vite, gli affetti, le passioni in peso, ordine e misura, mettendole a valore. E non c’è santificazione del diritto e dello Stato che possano nascondere l’oscena evidenza della sproporzione tra i tre anni inflitti al torturatore di Bolzaneto o al massacratore della Diaz, e i dieci inflitti a chi ha rotto una vetrina, ha riempito un carrello di beni, ha distrutto un bancomat. La vetrina di una banca vale ben più di un corpo martoriato, il denaro sottratto a una scatola di ferro è un bene più prezioso di arti e crani fracassati, di una milza fratturata e asportata, di un sistema nervoso lesionato per sempre. Davvero hanno ragione Bonini, Gaeta e tutti quelli che si affretteranno ad accodarsi al coro plaudente: ne va dei principi del diritto, perché questi sono i principi del diritto e dello Stato di diritto.
David Foster Wallace ha riassunto in tre righe cos’è lo Stato presente: «Una specie di intersezione abborracciata di desideri e paure, dove l’unica forma di consenso pubblico a cui il ragazzo ben disciplinato deve arrendersi è la supremazia riconosciuta della ricerca diretta di quest’idea miope e piatta della felicità individuale» [Infinite Jest, p. 98]. In questa improbabile intersezione si annida la ragion d’essere dei dispositivi dell’ordine e del consenso, le questioni della governance e dei governati: l’uso politico del desiderio e quello, altrettanto politico, della paura. La paura della devastazione delle proprie trincee, dei fortini, delle casematte in cui il buon governato si rifugia, e il saccheggio di quei beni che devono essere a disposizione degli apparati di somministrazione e regolamentazione del desiderio, sono fatti e pratiche politiche, come politica è l’illusione di una possibile felicità individuale – e tanto peggio per le masse, le moltitudini, le collettività, tanto peggio per il comune – al termine del tunnel della crisi: e dunque taci, lo spread ti ascolta. Che non si disturbino, oggi come ieri, i manovratori, che non si metta in discussione la santità del diritto e dei buoni calcoli dei “tecnici”, che non si pretenda di aver voce in capitolo: “devastazione” e “saccheggio” sono parole pronte all’uso, per gli eventuali perturbatori del buon ordine dei mercati.
di Girolamo de Michele per Uninomade
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