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Genova 2001: Qualcuno/a in Parlamento, qualcuno/a in galera – Lettera di Marina da Zapruder #54

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Riprendiamo la lettera di Marina Cugnaschi, che ha scontato 8 anni in carcere per i fatti di Genova, pubblicata su Zapruder e sul sito di Supporto Legale. Ringraziamo Marina per essere intervenuta in occasione del dibattito a San Didero durante il campeggio di lotta No Tav.

A partire dalla fine degli anni novanta, gli incontri tra i leader dei paesi a economia avanzata divennero un’arena in cui dimostrare il dissenso verso le scellerate politiche neoliberiste. Gli appuntamenti in giro per il mondo assunsero presto un aspetto liturgico. Lo scopo era inseguire i potenti per disapprovare la globalizzazione economica con azioni di protesta “globalizzate”. Il G8 di Genova si inquadrava nel medesimo scenario ma si configurava al tempo stesso come il grado più elevato nell’organizzazione dei controvertici. Di fatto il cosiddetto movimento dei movimenti vide nelle strade di Genova l’agorà in cui non solo manifestare contrarietà alle politiche liberiste sempre più selvagge, ma anche esporre le proposte elaborate durante il Forum sociale mondiale di Porto Alegre. Dal quel progetto nacquero le ambizioni egemoniche del movimento no global (Gsf). In altre parole, portare le istanze riformiste in una piazza democratica sgombra il più possibile da altre argomentazioni politiche, insieme alle differenti strategie nella gestione del conflitto sociale. Autonominatisi interlocutori delle istituzioni, essi pretesero il privilegio di pianificare nei dettagli le mobilitazioni genovesi garantendosi altresì l’attenzione dei riflettori e il ruolo da protagonisti. Al bando ogni velleità internazionalista, i mesi prima del vertice furono attraversati da un susseguirsi di dispute all’interno del movimento per l’egemonia politica, tra chi voleva sovradeterminare e chi voleva autodeterminarsi in previsione del controvertice, nonché da una sequela di negoziati con le istituzioni. A un certo punto, sembrava di trovarsi di fronte a galli nel pollaio che si azzuffavano per una briciola di visibilità, sordi a qualsiasi rivendicazione che non fosse di loro emanazione, ignorando tutto ciò che voleva alimentare il dibattito e che proveniva dalla base delle organizzazioni antagoniste. Del resto per comprendere bene ciò che accadde durante le discusse giornate genovesi è opportuno analizzare la dimensione politica che anticipò e permise la costruzione dell’evento, comprese le influenze ideologiche determinanti lo svolgersi delle manifestazioni. Ma la peculiarità di tale vicenda risiede nell’attenzione smisurata che i media dedicarono al movimento no global, offrendogli tuttavia solo lo spazio necessario su cui edificare già dalle fondamenta la criminalizzazione della protesta, anziché dar risalto alle questioni portate in piazza. Inoltre i media parteciparono attivamente alla costruzione delle polemiche relative all’ordine pubblico, seguendo passo passo le trattative fra la parte dialogante del movimento e lo stato, con l’obiettivo di regolamentare l’uso del pubblico suolo e incanalare la protesta per prevenire eventuali disordini. Contrattazione che avvenne al ribasso per la parte più debole, il movimento dei movimenti. Mentre gli incontri procedevano esso si dovette accontentare di ciò che restava delle richieste iniziali, ovvero di poche vie delimitate. Ma lo stato non si limitava a erodere il territorio pubblico per evitare sommosse, si spingeva oltre e vietava alcune delle manifestazioni in programma venerdì 20 luglio, giorno in cui i sindacati di base proclamarono lo sciopero generale. Il clima era favorevole alla costruzione mediatica del pericolo numero uno, i black bloc: ciò contribuì a formare il senso comune nell’opinione pubblica, una scorciatoia cognitiva che fornì una ragione al perché uno stato occidentale democratico si macchiò di metodi repressivi degni di una dittatura spietata.

Le prime immagini che tornano in mente rievocando il G8 sono quelle del corpo privo di vita di Carlo Giuliani e quelle dell’irruzione delle forze dell’ordine alla Diaz e dei numerosi manifestanti in barella, doloranti e insanguinati per le violenze della polizia. Eventi circoscritti e inscatolati, affinché la narrazione di quei giorni fosse consegnata alla storia nella consuetudine dell’ordine del discorso di chi comandava. Il discorso fu quello della repressione, della violenza che confina anche il più ingenuo dissenso nel luogo della paura o della mitizzazione dell’atto coraggioso. Un discorso condotto dagli interpreti principali, sempre l’area incline alla concertazione, lo stato e il suo apparato repressivo. Le immagini della ferocia repressiva annunciata per tempo a mezzo stampa si sovrapposero a quelle della contestazione, oscurandola nei suoi tratti salienti, i suoi contenuti politici. Il conflitto, quello portato in piazza durante le mobilitazioni, cresciuto insieme alle intimidazioni del governo, per i media di regime fu all’origine dello scatenarsi della violenza poliziesca, fondandola contestualmente sull’ipotesi “della calata dei barbari” (i fantomatici black bloc) affinché l’attenzione convergesse su un corpo estraneo destabilizzante sbalzato nel tessuto urbano. Ciò mentre il movimento prendeva distanza da ogni forma di protesta svoltasi nei modi non contemplati dagli accordi presi con la controparte governativa. Ma la repressione ci fu davvero, con i suoi esiti tragici. Carlo Giuliani giaceva al suolo con un proiettile in testa. Il suo corpo fu subito oggetto di congetture mediatiche e poliziesche. Etichettato come un violento appartenente all’ala dura del movimento, si affermò «che tutto sommato la morte se l’era andata a cercare». In un primo momento neanche il Gsf se lo volle accollare. In un secondo tempo il suo martirio tornò utile. Abusando come di consueto del ricordo per non far cadere nell’oblio la sua tragica morte, Carlo divenne il simbolo della violenza efferata e degli abusi di polizia durante il contenzioso che si aprì tra lo stato e lo stesso Gsf, attraverso l’istituzione di un processo che vide imputati gli organi di polizia e naturalmente il carabiniere che lo uccise. Pare che lo stesso Carlo fosse indeciso se partecipare alla manifestazione o preferire una giornata al mare. Non era membro di organizzazioni politiche e forse come tanti genovesi che si unirono ai cortei aveva vissuto la militarizzazione del territorio già quasi un mese prima del vertice: evidentemente scelse di resistere e opporsi al dispotismo dello stato. I vicoli della città noti per aver conservato la sua natura popolare e adiacenti alla zona centrale che ospitò il vertice furono militarizzati. Numerose le perquisizioni nelle abitazioni, numerosi i fermi.

Le forze dell’ordine invasero molte case del sopracitato quartiere con il pretesto di trovare anarchici appartenenti al blocco nero e scongiurare il temuto assalto alla “zona rossa”, la zona centrale recintata affinché il meeting dei capi di stato più influenti al mondo potesse dirsi al sicuro. Di fatto il bottino dell’operazione non era rappresentato dai membri del presunto blocco nero bensì dagli abitanti del luogo, in prevalenza immigrati la cui posizione sociale e giuridica li consegnava spesso alla clandestinità e a vivere di espedienti, magari illegali. Furono loro i primi a farne le spese. Ma la militarizzazione interessò tutte le aree urbane, pure i quartieri residenziali i cui abitanti, vedendo le strade occupate da lunghe colonne di mezzi blindati, dopo avere contribuito essi stessi ad alimentare la leggenda sul pericolo che si profilava con l’arrivo dei contestatori, si trasferirono in posti sicuri per tutta la durata del controvertice. Così come una profezia che si autoavvera, venerdì 21 luglio i luoghi adibiti alla protesta si trasformarono in campo di battaglia. All’ultimo, la sera di giovedì al termine del primo corteo nel quale non ci fu alcuno scontro, gli organizzatori comunicarono attraverso portavoce ulteriori divieti costituiti dalla revoca dell’autorizzazione per manifestare anche nell’area dove si era confinati, nonché l’imposizione di piazze tematiche dalle quali non sarebbe stato possibile oltrepassare il confine definito dalla topografia emergenziale. L’eccezione fu il corteo delle tute bianche dallo stadio Carlini, che rimase autorizzato pur con variazioni del percorso: non si permise il raggiungimento della “zona rossa”, nella quale doveva essere messa in scena l’azione più simbolica e spettacolare dell’intero evento. E se già da tempo si percepiva un clima esplosivo, con l’ennesima provocazione scoppiò la rivolta. Tutt’a un tratto, le contraddizioni sociali, le grida vessatorie, l’occupazione militare, il dispotismo capitalista furono innescati e deflagrarono con una tale forza, un’onda d’urto che investì tutta la zona perimetrata, definita “zona gialla”. Alle forze di sicurezza si ordinò di caricare qualsiasi gruppo che si muovesse in corteo. L’intimidazione si fece insopportabile, la base si autoorganizzava e prendeva il sopravvento, anzi prendeva la parola: quella dei fatti. Si accesero i primi focolai di guerriglia urbana che arroventarono l’aria in un batter d’occhio. Gli scontri durarono qualche ora e diedero filo da torcere agli spiegamenti di militari. La vendetta non si fece attendere. Iniziarono le rappresaglie per le vie della città, tanti arresti, numerosi pestaggi e infine l’uccisione di Carlo. È interessante analizzare l’evento politico descrivendo un aspetto che si tende a dare per scontato ma che nel caso specifico non lo è: il viaggio verso Genova. La programmazione dell’ordine pubblico comprendeva ovviamente la limitazione della circolazione a partire dalla sospensione temporanea del trattato di Schengen. Si eressero frontiere provvisorie per contingentare gli avventori respingendo gli sgraditi. Lo stesso muro si innalzò nelle stazioni delle città dove erano convogliati i manifestanti che volevano raggiungere Genova. Una barriera di poliziotti e carabinieri posta come limite invalicabile sul binario perquisiva i bagagli prima di autorizzare l’accesso al treno, quello previsto dall’organizzazione. Per coloro che partivano da Milano, saliti a bordo il treno prendeva una direzione insolita. Dopo l’estenuante attesa per prendere posto nel vagone, li aspettava un interminabile viaggio. Per raggiungere Genova il treno impiegava ben 5-6 ore a fronte di un’ora e 45 minuti. Giunti in città, lo scenario che si presentava era distopico. Sarà stata la stanchezza ma la sensazione era quella di un clima di festa in un panorama surreale, un luna park sorvegliato. Si notava una presenza militare attiva e ingombrante.

In realtà l’organizzazione era ineccepibile, va riconosciuto. Autobus arancioni messi a disposizione dal comune, scuole adibite a campeggio e sebbene i treni arrivassero a ore improbabili c’era il servizio navetta per accompagnare gli attivisti nei luoghi predisposti. Tuttavia nulla funzionò da deterrente! Il venerdì dopo aver superato i muri in divisa posti attorno al “paradigma capitalista” si innalzarono le barricate. Con determinazione, la base vomitava disordine sulla ribalta dell’ordine sociale mostrando per un attimo il retroscena di un mondo entropico. I tre giorni di controvertice terminarono. Si facevano i conti con la ferocia dei “Torquemada”. La paura aleggiava ovunque, ci si chiedeva come uno stato democratico potesse sconfinare dalla stessa propria costituzione. Il panico comporta delle rimozioni di massa e ci si dimenticò dei morti nelle strade perpetrati dalla polizia del governo Scelba, con la costituzione ancora calda. Ugualmente ci si scordò delle torture subite negli anni seguenti da chi osò attaccare lo stato. L’unica rivendicazione emersa dai proclami iniziali consisteva nella condanna dei metodi delle forze dell’ordine, dell’inadeguatezza della gestione dell’ordine pubblico, che secondo l’analisi politica più in risalto e più somigliante a un meccanismo di difesa colpì soprattutto chi scese in piazza con modi civili e pacifici, senza affrontare con fermezza i facinorosi. Il vittimismo come unico rimedio alla psicosi collettiva. Una rivolta sommersa dai piagnistei o mitizzata dal gesto eroico, mai ricordata per la sua autenticità. Un’occasione persa per riaffermare che l’unico modo per combattere il sistema repressivo consiste nel rilanciare l’offensiva riappropriandosi dello spazio pubblico. Di fatto, la predisposizione dell’ordine pubblico durante il controvertice, nonostante fior fior di professori si prodigassero a spiegarci nei dettagli i punti deboli in cui la strategia militare adottata fallì, sortì gli effetti voluti: mostrare muscoli e intransigenza. La deriva giudiziaria non si fece attendere. La procura fu per lunghi anni sede del dibattito sui fatti del G8. Lo stato trasferì la repressione dalle strade alle aule di tribunale. Numerosi processi furono istituiti: contro i compagni e contro le forze dell’ordine. Finalmente acchiapparono i misteriosi black bloc. Arrestarono dopo circa un anno e mezzo 26 persone. Furono accusate di devastazione e saccheggio, reato che prevede una pena minima di 8 anni e massima di 15. Le pescarono un po’ ovunque tra la base delle varie componenti presenti, tra cui le tute bianche, ossia una parte della moltitudine democratica che non esitò a unirsi al coro che accusava il “gruppo nero” delle peggiori scelleratezze. Gli arresti invece avrebbero potuto testimoniare che la rivolta fu generalizzata, e sarebbe stato dignitoso rivendicare le pratiche messe in atto quel giorno per opporsi e resistere al dispotismo statale-capitalista scontrandosi con il suo apparato repressivo, quantomeno per mantenere un filo di decenza e di coerenza davanti al nemico che in quella fase era incarnato dall’apparato giudiziario. Non fu così. Le differenze si fecero sentire subito e le posizioni dei singoli imputati mutarono in base al profilo politico. La divisione fu ancora più netta tra chi adottò una linea difensiva morbida, dialogante e vittimistica e chi rimase convinto di non aver nulla da abiurare. Si configurava la teoria dei “buoni” e dei “cattivi”. I “buoni” erano i poveretti che loro malgrado, nonostante si trovassero in una parte di corteo ancora autorizzata subirono ingiustamente una carica e si videro quindi costretti (costretti da che?) a scontrarsi con la polizia, talvolta costruendo barricate per proteggersi dai blindati. I “cattivi” dovevano necessariamente configurarsi in chi attaccò provocatoriamente le banche, bruciò le auto per impedire l’avanzamento dei contingenti dell’esercito e di polizia, aprì le saracinesche di un supermercato in una zona popolare (Marassi), se la prese con un commissariato di polizia, senza essere mai caricati e oltretutto privi di autorizzazione. La divisione tra buoni e cattivi è una delle teorie che si distinse per scarsità di dialettica politica e che mise in evidenza l’infantilismo raggiunto dalla “sinistra” dentro e fuori il parlamento. In sostanza, screditare i “riottosi” significava omettere la differenza tra la corrente massimalista e minimalista entrambe presenti in piazza, eliminando ogni sfumatura ideologica. Gli anni passarono, il processo andava per le lunghe. I giudici tardavano a fornirci il verdetto. Per tutto il periodo del rituale giudiziario, dentro le aule si vide unicamente la presenza degli avvocati e delle compagne e dei compagni di SupportoLegale e la segreteria legale del Genoa legal forum (entrambi impegnati anche come consulenti e tecnici nei processi), costretti a una snervante gara di resistenza. Fuori persistevano i sentimenti e le emozioni che connaturarono i giorni successivi il controvertice: paura e prudenza da una parte, desiderio compulsivo nella replicazione del gesto eroico dall’altra; due facce della stessa medaglia, oltre le relative strumentalizzazioni politiche. Intanto, con determinazione la controparte governativa faceva tesoro della strategia repressiva sperimentata a Genova e non perdeva occasione, ogniqualvolta si presentasse, di elargire dispositivi giuridici della stessa natura di quello del G8: il reato di devastazione e saccheggio, utensile desueto, rinvenuto e aggiunto alla già rifornita cassetta degli attrezzi dei giudici per criminalizzare le lotte sociali. Nel 2012 finalmente giunsero le condanne. Sia per i poliziotti, sia per i compagni. Chissà se chi cercava giustizia nei tribunali si rese conto che avrebbe dovuto cercarla altrove? Lo stato non condannava se stesso, doveva pure mostrare clemenza nei confronti dei propri addetti. Tendenzialmente condannava gli avversari, politici o sociali che fossero. Infatti, come prevedibile, le due sentenze poste sul piatto della bilancia avevano pesi differenti. La prima leggera, quella ai funzionari di stato, la seconda pesante, quella ai compagni. Ancora paura, sensi di colpa e indignazione. Morale della favola, la vita di alcuni attori in scena durante il G8 prese come da copione strade diverse. Qualcuna/o finì in parlamento, qualcun altro/a in galera.

 

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