Lavorare con lentezza, rompere con l’ideologia lavorista galoppante
La storia di Giuseppina Giuliano, bidella pendolare che quotidinamente percorre 800 chilometri in treno per andare a lavorare da Napoli a Milano, ha fatto il giro del web. Non sono mancati gli articoli che hanno colto la palla al balzo per screditare la storia personale e lavorativa di questa donna e che cercano “la verità” facendo i conti in tasca a chi sostiene che fare l’abbonamento del treno conviene rispetto ad affittare una stanza nella metropoli milanese.
Sorgono varie questioni rispetto a questa vicenda che ci dicono il livello di attenzione rispetto a una storia di sfruttamento e di precarietà sociale, indipendentemente dalla fattibilità o meno di quanto raccontato, ci interessa sottolineare alcuni elementi. Innanzitutto, la voracità mediatica che mette alla gogna chiunque si esponga in maniera “controcorrente” rispetto a uno standard di cosa si possa considerare “normale” o meno. Le ricerche sui social della “vera vita” di Giuseppina rispondono a un bisogno tossico della società in cui la spettacolarizzazione delle vite può essere rimbalzata agli onori della cronaca in un men che non si dica. La questione di genere è un ulteriore elemento di differenza, intanto per la facilità estrema con cui è possibile screditare pubblicamente una storia, ma anche perché sicuramente entra in gioco nella scelta di accettare tali condizioni pur di avere un reddito.
In secondo luogo, il punto che si vuole sollevare tramite questa storia è chiaramente un altro: l’ideologia lavorista secondo la quale un esempio di questo tipo dovrebbe legittimare una politica lacrime e sangue che ha tutta l’intenzione di cancellare le poche briciole di sostegno sociale ancora esistenti. Il dibattito apertosi a seguito dell’intenzione di cancellare il reddito di cittadinanza cavalca l’onda di questa vicenda: innumerevoli commenti impongono una visione percui sottoporsi a una tortura come quella raccontata da Giuseppina dovrebbe essere più adeguato e legittimato socialmente rispetto a chi invece percepisce il reddito di cittadinanza.
Lo sconvolgimento generale delle rigidità minime rispetto a ciò che viene preteso da chi è occupabile è una conseguenza diffusa delle trasformazioni sociali degli ultimi decenni e del ruolo che nel nostro paese i sindacati hanno assunto nella contrattazione con il padronato. Il fatto che i sindacati italiani svolgano un compito di tappo a qualsiasi emergere di un tenue vagito di insoddisfazione che vuole trasformarsi in riscatto è evidentemente la metastasi. La crisi attuale che affonda le sue radici in un lento e costante lavoro portato avanti dai governi precedenti e dall’imposizione dell’ideologia di una sinistra borghese e perbenista, indica le origini di queste variazioni sul tema all’interno del fenomeno della precarizzazione totale delle vite, dello sgretolarsi pezzo per pezzo del valore lavoro e nella crisi della riproduzione sociale. La stessa ipotesi di cancellazione del reddito di cittadinanza implica una ancora maggiore svalutazione dei salari e delle possibilità di contrattare condizioni accettabili.
In ultimo, un elemento da sottolineare è la tendenza accellerata negli ultimi anni che vede l’occupazione nel settore pubblico non più come una garanzia per alcune fasce specifiche della società, in particolare per la parte medio-bassa della classe, con un livello di istruzione minimo e che dal Sud si sposta al Nord per ottenere un salario garantito. L’accesso a lavori considerati fino ad ora il cuscinetto con funzione di welfare per un’Italia definita a “due velocità”, si sta allargando a macchia d’olio, in maniera direttamente proporzionale all’aumento della precarietà delle condizioni di lavoro in ambiti come il terzo settore, la ricerca, per i lavoratori autonomi. Bidelle, spazzini, postini sono solo alcune delle categorie occupazionali che verranno man mano saturate dalla presenza di laureati, giovani e con la residenza in prossimità a dove vi è una maggior offerta.
Allora, invece di preoccuparsi di chi sceglie il reddito di cittadinanza al posto di fare centinaia di chilometri al giorno o della vera vita di Giuseppina, sarebbe il caso di iniziare a preoccuparsi da quali rigidità possiamo partire per costruire un fronte di rifiuto per quanto viene “offerto” verso lo sciopero come pratica per lottare nell’esistente, per la sottrazione delle capacità umane allo sfruttamento del dominio capitalista, per una controvalorizzazione che sappia resstuire dignità non nell’individualismo ma nella collettività che vuole riscattarsi.
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