Cosa succede nel Kurdistan iracheno?
Dall’osservatorio della regione del Bashur la ricostruzione del quadro degli ultimi avvenimenti.
Lunedì 16 ottobre 2017 e i giorni seguenti sono stati giorni decisivi per gli sviluppi geopolitici nella regione del Kurdistan irakeno, a seguito del tanto discusso referendum per l’indipendenza del 25 settembre.
Le milizie sciite filo-iraniane di Hashd Al-Shaabi, da anni parte dell’esercito regolare iracheno, hanno dato il via ad un’invasione delle aree contese tra Barzani e Al-Abadi: la regione di Kirkuk, parte di quella di Ninive in cui si trova Shengal, fino a giungere a poche decine di kilometri da Erbil nella giornata di venerdì 20. Tali aree, pur non essendo parte del territorio riconosciuto dal governo regionale del Kurdistan iracheno (KRG), ne erano di fatto annesse a seguito della liberazione dallo stato islamico.
La zona di Kirkuk, originariamente curda, ha subito l’immigrazione forzata di popolazioni turcomanne durante l’impero ottomano e poi arabe, portata avanti dallo stato iracheno nel secolo scorso. Ad oggi è una città meticcia, storicamente al centro di continue tensioni non tanto su basi etniche quanto economiche, essendo la zona più ricca di petrolio dell’intero stato.
La rapida occupazione di queste aree è stata resa possibile dell’immediato ritiro delle forze peshmerga, esercito del KRG sotto il diretto comando di Barzani, che hanno abbandonato la popolazione nelle mani di Hashd Al-Shaabi praticamente senza sparare un colpo. Le uniche linee di difesa della città di Kirkuk sono state infatti portate avanti dai guerriglieri dell’HPG e dalle guerrigliere delle YJA-STAR (forze di autodifesa del PKK), da alcuni peshmerga che hanno scelto di non andarsene e dagli abitanti stessi.
Appare dunque evidente come il ritiro dei peshmerga sia frutto di un precedente losco accordo con Bagdad, su cui continua a non esserci chiarezza. Ciò che continua è invece un assurdo balletto di colpe e accuse di tradimento tra il PDK di Barzani e il PUK, storico partito di opposizione, due entità politiche fondate su base clanica con innumerevoli contraddizioni al loro interno, che basano la loro propaganda sulle reciproche accuse, per cercare di nascondere i propri fini privati.
Sopra ogni cosa risulta palese quanto scellerata sia sempre stata e continui ad essere la politica di Barzani e l’ossessione per il mantenimento del potere.
La colpa della perdita della regione di Kirkuk, che si tratti di una scelta tattica o di un tradimento, è interamente in capo alla famiglia Barzani, ai suoi 26 anni di governo corrotto e mafioso, a scelte prese unicamente in funzione di un ritorno economico in relazione alla vendita del petrolio, con l’unico scopo di arricchire il clan. Arrivando addirittura nel 2014 a contrattare con l’ISIS della prima orannnejbe.
Le potenze del Medio Oriente e non solo hanno sempre visto nel suo governo uno strumento di contrasto all’idea di unità e libertà del popolo curdo nelle 4 regioni. E Barzani si è ben prestato a questo ruolo: ha chiuso infatti i confini con il Rojava rendendo effettivo l’embargo, permette oggi la militarizzazione e il controllo dei confini con l’Iran, ma soprattutto è da sempre alleato con il regime Turco, che da anni porta avanti terribili azioni politiche e militari (bombardamenti, arresti, esili forzati, torture, omicidi, censure) tentando di attuare di fatto un vero e proprio genocidio politico e culturale del popolo curdo.
Il referendum del 25 settembre si inserisce in questo scenario in modo ambivalente.
Da un lato vi è la scelta del PDK di indire il referendum per legittimare il potere di un presidente il cui mandato è terminato da tempo, che non riuniva il parlamento da più di due anni e che ancora una volta rimanda le elezioni che si sarebbero dovute tenere il 1 novembre, nonostante il governo iracheno, l’America, l’Iran e la Turchia l’avessero minacciato di conseguenze anche sul piano militare se la votazione si fosse svolta.
Inoltre, la pretesa di uno stato indipendente è di fatto in controtendenza rispetto al progetto rivoluzionario di autonomia democratica portato avanti dal movimento di liberazione del popolo curdo e non solo, tanto nella Federazione della Siria del nord (Rojava) quanto dal PKK in Bakur e Bashur e dal PJAK in Rojilat.
Dall’altra parte, però, l’espressione del 70% degli aventi diritto al voto che, con una maggioranza schiacciante del 92%, dichiarano la volontà di uno stato indipendente è segno di come il popolo del Kurdistan Iracheno senta la necessità di mettere fine ad attacchi e vessazioni subiti dal governo di Bagdad e di poter finalmente vivere in pace nel pieno riconoscimento della propria identità.
Questo è l’aspetto che più di tutti ha spaventato le potenze vicine e che ha portato alle conseguenze cui ora stiamo assistendo: la potenza di migliaia di persone che desiderano la pace, la possibilità di autodeterminarsi e di non dover più subire guerre e massacri a causa degli interessi economici di chi le espropria ogni giorno delle ricchezze delle loro terre. E la forte presenza nella regione del movimento rivoluzionario del PKK che ha una prospettiva concreta in questa direzione per il popolo curdo e per tutto il Medio Oriente.
La mossa del governo di Barzani, che in queste vicende non ha trovato neanche il supporto dei suoi storici alleati statunitensi, è evidentemente fallito mostrandone la debolezza; a questo si aggiunge la possibilità di sfruttare le risorse petrolifere della zona e al contempo l’urgenza di arginare gli sviluppi rivoluzionari nella regione. Tutte queste ragioni hanno portato alla convergenza di interessi e quindi ad intensi scambi sul piano diplomatico, economico e militare tra Turchia, Iran, Iraq e Siria.
Il governo iracheno di Al-Abadi, avendo ricevuto il supporto politico e concreto di Iran e Turchia nella conquista di Kirkuk e un’unanime assenso internazionale, ha rifiutato la proposta di trattativa del governo della Regione Curda, che mercoledì 25 ottobre si era detto disposto a congelare il risultato del referendum per aprire un dialogo.
L’avanzamento delle milizie di Hasd Al-Shaabi e dell’esercito iracheno continua quindi quotidianamente, al limitare della regione curda riconosciuta e in direzione dei valichi di confine con il Rojava e con la Turchia, dando luogo a scontri con le forze peshmerga.
La riuscita di tale azione porterebbe da un lato all’esclusione di Barzani dai commerci petroliferi con la Turchia, dall’altro ad una stretta sull’embargo al Rojava,(il quale continua anche a subire attacchi dall’esercito turco a nord e da quello siriano a sud).
Quanto sta avvenendo non solo ha pesanti ripercussioni sulla popolazione curda del Bashur, tradita dal proprio governo, con centinaia di migliaia di profughi costretti a raggiungere le città di Erbil e Suleymaniya, ma sul futuro di tutti i popoli del medio oriente.
La sconfitta dello Stato Islamico, costata migliaia di vite di giovani uomini e donne delle Forze Siriane Democratiche, con la liberazione di Raqqa del 17 ottobre è sempre più vicina e lo scenario delinea due prospettive politiche contrapposte: quella delle grandi potenze locali e internazionali che vorrebbero ridisegnare a tavolino i confini del Medio Oriente e spartirsi le risorse a discapito della popolazione; e quella della Federazione della Siria del Nord e del movimento rivoluzionario che mira alla pace, alla convivenza tra i popoli e all’Autonomia Democratica.
Mai quanto adesso è necessario supportare quello che è un esempio per il mondo intero, una lotta che sta costruendo di una società pacifica, meticcia, egualitaria e per questo democratica.
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