Dentro il “Nido delle Vespe”: l’ascesa della Brigata Jenin
l campo profughi di Jenin è stato trasformato in una “zona liberata” dalle fazioni della resistenza armata. Ora la resistenza spera che il modello Jenin si diffonda in altre parti della Cisgiordania.
Fonte: English version
Di Mariam Barghouti – 8 novembre 2022
Immagine di copertina: Militanti palestinesi della Brigata Jenin durante una conferenza stampa nel campo il 1 marzo 2022 (photo Ahmed Ibrahim /Apa Images)
“Ci stiamo difendendo”, dice, con una voce chiara e ferma, apparentemente anticipando la domanda. “Sono diventato un ricercato da Israele per la prima volta due anni fa”, dice.
Arma sempre a portata di mano, statura imponente, andatura eretta. Abu Daboor, 28 anni, si trova all’ingresso del campo profughi di Jenin. La carnagione marrone delle sue mani contrasta con la sua divisa scura. Dietro di lui, oltre la rotatoria e attraverso le barricate all’ingresso del campo profughi di Jenin, un goffo graffito recita: “il Nido delle Vespe ti dà il benvenuto”.
Allestito nel 1953, i 420 metri quadrati di estensione del campo ospitano quasi 12.000 palestinesi, molti dei quali sono originari di aree vicino a Haifa e Nazareth, a Nord della Palestina storica.
Il campo profughi di Jenin è ampiamente conosciuto dall’apparato di sicurezza israeliano come “il Nido delle Vespe”, termine che all’inizio di quest’anno è ritornato popolare, soprattutto durante i primi mesi dell’assalto militare israeliano in corso ai bastioni della resistenza palestinese.
Sono quasi le 3 del mattino e le sentinelle del campo stanno pattugliando le strade vicine, pronte a proteggere il campo dalle invasioni israeliane. Nonostante l’ora tarda, gli uomini sono attenti a qualsiasi faccia sconosciuta, temendo che possano essere forze speciali israeliane sotto copertura in una missione di assassinio. Quest’anno, più di 16 combattenti della resistenza sono stati presi di mira e assassinati nella sola Jenin, il risultato di un ritorno alla decennale politica israeliana di “eliminazione”.
Cooperazione delle fazioni armate a Jenin
“Questa è la prima volta che vedo attacchi così mirati”, ha detto Yara Eid, una studentessa e attivista che è stata corrispondente da Gaza durante l’Operazione Alba Spezzata (Breaking Dawn), ad agosto. Si riferiva agli attacchi israeliani contro i comandanti della Jihad Islamica Palestinese (PIJ) a Gaza. L’assalto israeliano a Gaza, che ha causato la morte di 51 palestinesi, 17 dei quali erano bambini, è stato motivato dal ruolo del PIJ nel finanziamento di gruppi armati in Cisgiordania.
Uno dei principali gruppi fondati dalla PIJ era la Brigata Jenin, Katibet Jenin in arabo. Sebbene la Brigata inizialmente funzionasse come un ramo Jenin di Saraya al-Quds (le Brigate Al-Quds, l’ala armata della PIJ), la Brigata Jenin si è ora evoluta in una formazione più complessa e politicamente non affiliata. Opera come un’organizzazione ombrello per una serie diversificata di gruppi armati, e le ideologie politiche e frazionali dei vari combattenti nella Brigata sono passate in secondo piano rispetto all’obiettivo immediato di proteggere il campo e respingere le incursioni israeliane.
“Ogni fazione opera in modo indipendente”, ha detto Abu Mujahed, 43 anni, portavoce del campo per la Brigata dei Martiri di Al-Aqsa (il braccio armato di Fatah), da una casa che aveva ospitato i due palestinesi fuggiti dalla prigione di Gilboa, Munadel Nufeiat e Ayham Kamamji. “Ma quando l’esercito israeliano invade, siamo tutti schierati”, ha detto.
Con “tutti”, Abu Mujahed si riferisce a tutte le organizzazioni politiche armate, indipendentemente dalla fazione politica. Da quando Saraya al-Quds e la Brigata dei Martiri di Al-Aqsa operano in sinergia, Israele non è più interessato a prendere di mira o isolare una fazione rispetto a un’altra. L’effetto che questo ha avuto sui palestinesi è quello di erodere, se non dissolvere, le rivalità tra fazioni. Ciò, tuttavia, non ha significato il venir meno dell’affiliazione di fazione.
Per i combattenti, far parte di una fazione non è necessariamente un fatto ideologico o una linea politica, ma piuttosto diventa un mezzo per operare all’interno della sicurezza dell’appartenenza. “Ottengo la mia legittimità, la mia forza dalla Brigata dei Martiri di Al-Aqsa”, dice Abu Mujahed.
“Abbiamo informato direttamente la dirigenza dell’Autorità Palestinese che non deporremo le armi”, ha continuato Abu Mujahed. Lanciando occasionalmente un’occhiata al telefono per cercare notizie di una possibile invasione israeliana del campo, si gira verso di me e dice con aria di sfida: “Stiamo con la resistenza armata”.
Poiché i combattenti della resistenza si rifiutano di operare clandestinamente, consentono una trasparenza che ritaglia uno spazio per la diversità politica e l’unità di battaglia. Ciò continua a consentire ai gruppi di resistenza di ostentare la loro presenza nelle strade, ai loro concittadini palestinesi, ma anche al mondo, come gruppo armato legittimo che resiste a un’occupazione israeliana illegale.
Un’area palestinese liberata
A sole due ore dalle preghiere dell’alba, le strade del campo profughi di Jenin sono deserte. Le ombre del campo si allungano sulle sentinelle che vi si muovono all’interno. Tutti gli altri sono nelle loro case, sapendo che è più che probabile che si verifichi un’incursione dell’esercito israeliano.
A giugno, l’account di social media dell’esercito israeliano ha descritto Jenin come “una roccaforte per i gruppi terroristici più pericolosi del mondo”. Questo linguaggio ricorda i precedenti dell’invasione della Cisgiordania nel 2002, quando Israele lanciò l’Operazione Scudo Difensivo (Defensive Shield) contro città, paesi e villaggi palestinesi. Jenin e Nablus, che si trovano nella Cisgiordania settentrionale, hanno subito il peso maggiore dell’attacco.
L’obiettivo principale dell’Operazione era “colpire le infrastrutture terroristiche palestinesi e porre fine all’ondata di attacchi terroristici contro cittadini israeliani”, secondo il sito web ufficiale dell’esercito israeliano. Eppure, quasi due decenni dopo la brutale invasione, che ha causato il numero maggiore di danni alla popolazione civile, in particolare ai bambini, la resistenza continua a sorgere da Jenin e altrove.
Come Areen al-Usud, la Tana dei Leoni, che opera fuori dalla Città Vecchia di Nablus, il campo profughi di Jenin è diventato un quartiere di uomini ricercati lasciati a difendere se stessi e i loro concittadini dagli attacchi dell’esercito e delle forze speciali israeliane.
Abu Daboor sta con le braccia incrociate all’ingresso del campo. Il giovane combattente mostra per un momento la sua arma e la ripone. “Considero il campo profughi di Jenin un’area palestinese liberata”, dice con entusiasmo.
Durante le operazioni dell’esercito israeliano e le incursioni nelle città e nei paesi palestinesi, spesso si sente un soldato gridare dall’altoparlante posizionato sui veicolo dell’esercito che l’area è dichiarata “una zona militare chiusa”.
Questa pratica illegale funge da precursore di una violenta repressione dei palestinesi nell’area. Durante gli anni della Seconda Intifada, e dopo di essa, i soldati israeliani minacciavano comunemente attraverso gli altoparlanti che “chiunque sarà trovato in giro verrà ucciso”.
Eppure, per la prima volta, il campo profughi di Jenin non può essere trasformato in un’area militare chiusa e invaso dalle forze israeliane liberamente e senza impedimenti. “Jenin è una zona liberata. Speriamo che si estenda al resto della Palestina, man mano che le piccole aree liberate si allargano”, ha detto Abu Daboor, sperando che una tale strategia possa gradualmente vincere “un po’ alla volta”. È qui che risiede il potere del modello Jenin, nell’ispirare i palestinesi, se non con il successo, con le lezioni apprese dai fallimenti passati.
Nel mezzo della violenta repressione della resistenza palestinese a Nablus e Jenin, a Ramallah e Al-Bireh ha preso forma una nuova “brigata di disturbo”. Questo avviene in un momento in cui i giovani palestinesi di Ramallah, Nablus, Betlemme e molte altre aree della Cisgiordania stanno trovando nuovi mezzi di confronto.
Un movimento di resistenza emerge sotto il naso della dirigenza dell’Autorità Palestinese
Prima dell’assassinio dei tre combattenti della resistenza di Nablus l’8 febbraio, la Brigata Jenin stava già suscitando l’ansia israeliana attorno allo spettro dello scontro armato palestinese con l’esercito.
“Non mentirò”, ha detto Abu Mujahed. “Non c’è una vera strategia qui. Stiamo seguendo il flusso, ad essere onesti”, ha osservato con disarmante candore. “Tutto questo, è un’ondata popolare collettiva”.
I combattenti della resistenza palestinese non sono né separati dalla più ampia comunità palestinese, né isolati dai loro coetanei. In una mano portano l’arma e con l’altra perseguono l’unità di lotta e stringono legami di cameratismo.
“Il nostro approccio è aumentare e rafforzare la resistenza palestinese e l’unità nazionale”, afferma Abu Mujhad. Tuttavia, poiché i gruppi di resistenza palestinesi a Jenin e Nablus incarnano l’unità politica nella loro lotta contro il colonialismo, l’unità a livello politico rimane sempre lontana.
Le interazioni osservate tra i leader palestinesi e i rappresentanti sia di Hamas che dell’Autorità Palestinese (AP) mostrano una crescente disconnessione dalla realtà vissuta palestinese, così come le strutture diplomatiche in base alle quali i leader operano, al fine di garantire la propria sopravvivenza, rilevanza, o controllo frazionale.
“Dopo essere stato rilasciato dalle carceri israeliane, sono stato preso di mira dall’Autorità Palestinese”, ricorda Abu Daboor, sottolineando di aver trascorso quasi cinque anni nelle prigioni israeliane durante i suoi vent’anni. “Sono stato preso di mira dall’Autorità Palestinese per la prima volta un anno e mezzo fa, dopo che in passato aveva cercato di eliminarmi due volte.” Il tono di Abu Daboor diventa aspro, mentre racconta l’attentato alla sua vita dell’anno scorso.
Dopo il marcato aumento della resistenza palestinese contro l’espansione illegale degli insediamenti israeliani, l’Autorità Palestinese e la dirigenza di Hamas hanno rilasciato dichiarazioni pubbliche di sostegno alla resistenza.
Eppure entrambi sono rimasti in varia misura a guardare e hanno permesso che avvenissero gli assassinii mirati di combattenti della resistenza. Questo è stato il caso della mancanza di intervento di Hamas durante il recente attacco a Gaza: quando Israele ha preso di mira gli uffici del PIJ a Gaza e ha assassinato il comandante della PIJ Tayseer Al-Jaabari, Israele era sicuro di non danneggiare nessuno degli uffici di Hamas nell’edificio condiviso con la PIJ.
L’Autorità Palestinese si è ampiamente collusa, partecipando direttamente alla repressione della resistenza e facendo il lavoro sporco di Israele. Questo è stato il caso dell’arresto da parte dell’Autorità Palestinese di due membri della Tana dei Leoni a Nablus a settembre.
L’aspirazione della popolazione palestinese a vivere in modo indipendente, libero e con il controllo sul proprio destino è il principale motore di questo periodo di scontro armato. Ma mentre i riflettori sono ora puntati sui gruppi armati, la popolazione palestinese in generale si è impegnata in un confronto aperto con le autorità israeliane. L’impunità della violenza dei coloni e la persistente espansione degli insediamenti non fanno che alimentare la rabbia e il risentimento e provocare una marea di inquietudine collettiva.
Mariam Barghouti è la principale corrispondente per la Palestina di Mondoweiss.
Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org
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