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Obama, Isis e medioriente: il ritorno dell’instabilità costruttiva?

di l.c.

 

INTRODUZIONE: VENTI DI GUERRA MEDIO-ORIENTALI

Ci risiamo. I venti di guerra tornano a soffiare sul Medio Oriente (in realtà non hanno mai smesso…). Nella notte alla vigilia dell’anniversario dell’attacco alle Torri Gemelle, Obama ha annunciato la nascita di una vasta coalizione volta a distruggere l’ISIS, l’Esercito Islamico dell’Iraq e del Levante.

A poche settimane dall’uccisione, in mondovisione, di due giornalisti americani rapiti in Siria tra il 2012 e il 2013, gli Stati Uniti si sono impegnati, per bocca del loro presidente, a “guidare un’ampia coalizione con l’intento di mettere fine alla minaccia terroristica di ISIS”. Il piano americano prevede quattro punti fermi.

In primis una campagna di attacchi aerei in Iraq e in Siria (“We will hunt terrorist wherever they are, that means I won’t hesitate to take action in Syria as well as in Iraq.”).

In secondo luogo un sostegno in chiave di addestramento, equipaggiamento e intelligence alle forze operanti sul terreno che combattono ISIS (“Train and equip syrian opposition to fight against ISIL. We cannot rely on Assad regime that terrorizes its own people and will never regain legitimacy has lost…”) attraverso un rafforzamento dell’opposizione al regime di Assad come controbilanciamento alle forze di ISIS. Tutto ciò sarà reso possibile, nelle parole di Obama, attraverso del personale da mandare in Iraq (475 unità) a cui si aggiungeranno le altre centinaia di assets già sul posto.

In terzo luogo un contrasto finanziario, attraverso il blocco dei fondi a ISIS e, infine, una continua opera di assistenza umanitaria verso i civili colpiti dai combattenti dello Stato Islamico.

 

ISIS COME STRATEGEMMA e I SOLITI NOTI SAUDITI…

Due elementi sulla strategia enunciata da Obama vanno sottolineati: gli airstrikes non saranno confinati in Iraq, ma si estenderanno anche alla Siria, e l’impegno di Obama al sostegno alle forze moderate dei ribelli siriani, che si oppongono sia al regime di Assad sia ad ISIS.

Due punti alquanto controversi.

Per quanto riguarda il primo, sull’eventualità di una cooperazione con le forze dell’esercito siriano, Obama ha negato ogni possibilità (anche se alcuni membri del Council of Foreign Relations, storico think thank USA, tra cui il presidente Richard Haas, si sono detti possibilisti: “Un patto con Assad? Pessimo ma inevitabile..attraverso gruppi di contatto informali col coinvolgimento di Russia e Iran1.)

Per intervenire in Iraq gli USA hanno il consenso del nuovo governo Al Abadi, ma per sorvolare la Siria e bombardare ISIS necessiterebbero di un permesso/collaborazione col governo siriano. Appunto, necessiterebbero. Lo stesso governo siriano si era detto disposto a collaborare, ma, dopo il rifiuto statunitense il ministro degli esteri Walid Muallem ha parlato di eventuale atto di aggressione alla sovranità di Damasco.

La Russia stessa si è già detta contraria ad un’azione senza mandato ONU e ha parlato di ingerenza americana negli affari siriani, paventando anche la possibilità che gli Stati Uniti vogliano usare la scusa di ISIS per bombardare postazioni del regime di Assad (ma se per Obama Putin che aiuta i filorussi in Ucraina compie un’aggressione illegale, se lui interviene in Siria senza mandato e aiuta i ribelli antiAssad cos’è?). Questo è un punto fondamentale: anche Amal Saad, accademica libanese vicina a posizioni Hezbollah, ha fatto notare, in un’intervista su RT2, come la strategia americana potrebbe essere quella di usare ISIS come un “Cavallo di Troia” per ottenere col minimo sforzo il massimo risultato: con il pretesto di colpire lo stato islamico in Siria gli Stati Uniti avrebbero la possibilità di intervenire direttamente nel conflitto siriano, decidendo così di colpire il regime di Assad. La strategia appare chiara: dopo aver finanziato la crescita di movimenti jihadisti per combattere il regime di Assad, tramite l’Arabia Saudita, vera testa di ponte delle milizie integraliste, ora Washington punta a presentarsi come l’unica in grado di fermare il mostro ISIS, e usarlo per dare la spallata finale al regime siriano.

D’altronde la strategia non è nuova: l’uso politico dell’estremismo sunnita da parte americana può essere fatto risalire alla presidenza Carter, sul finire degli anni ’70. E oggi  lo vediamo all’opera con John McCain seduto al tavolo dei ribelli siriani “moderati”, a parlare con Al Baghdadi, l’autoproclamatosi califfo.

Se prima il finanziamento di queste formazioni andava in un ottica di contenimento del nazionalismo arabo socialisteggiante (un’interessante studio sul Jihad come strumento anti-sovietico e anti-panarabo è quello di Gilles Kepel, “Jihad. Ascesa e declino”) , oggi il containment punta dritto all’Iran e a quell’Asse della Resistenza composto da Teheran, Damasco ed Hezbollah (l’islamismo sciita rappresenta, per certi versi, ancora una spina nel fianco dell’Occidente, al contrario di quello sunnita “normalizzato”).

Il tutto con il leading from behind di Ryiadh (e in misura minore dell’emiro del Qatar): se quella che era considerata la mente di questa spregiudicata “arma diplomatica” è stato messo ai margini (Bandar Bin Sultan), la politica saudita di appoggio-copertura e finanziamento dei movimenti radicali sunniti, dall’Africa all’Afghanistan, non è cambiata di una virgola (l’ambiguità saudita è stata d’altronde riconosciuta e coperta più volte dall’alleato americano: Lawrence Wright3 racconta che Bush II secretò e fece distruggere documenti che comprovavano il coinvolgimento di alti ranghi dei servizi sauditi negli attacchi alle Torri Gemelle. Ma la forza di questa invischiante e torbida special relationship, basata sulla garanzia costante di flussi petroliferi in cambio di protezione e appoggio alle politiche americane nella regione, ha superato anche questo).

Nafeez Ahmed (“How the West created ISIS4”), mettendo al bando il complottismo e citando fonti d’intelligence, afferma che “dal 2003 gli anglo-americani hanno segretamente supportato e coordinato la nascita di gruppi legati ad Al Qaeda in Medio Oriente e in Nord Africa. Questo mal concepito patchwork geostrategico è l’eredità di una persistente influenza di un’ideologia neo-con, motivata dall’ambizione di lungo-termine, spesso contraddittoria, di dominare le risorse petrolifere della regione, difendere l’espansionismo d’Israele, e, nel perseguire ciò, ri-disegnare la mappa del Medio Oriente.” Divide et impera di romana memoria, nulla più nulla meno.

 

L’IPOCRISIA DELL’OCCIDENTE

Resta il fatto dell’incoerenza e dell’ipocrisia degli Stati Uniti e di tutto l’Occidente, come fa giustamente notare un’editoriale de IlSole24ore5, di “cercare di arginare il fuoco di ISIS attraverso l’aiuto di quei piromani che quel fuoco l’hanno appiccato” o comunque permesso, ovverosia l’emiro qatariota e i sauditi, ma anche gli stessi turchi. A Jeddah al vertice antiterrorismo c’erano tutti quelli che, direttamente o indirettamente, hanno permesso lo sviluppo del jihadismo (ma non c’era l’Iran, tenuto ancora fuori-per quanto ancora?-dalle politiche di decision-making regionale).

Cos’hanno fatto questi attori, turchi, sauditi e qatarioti, per contrastare ISIS e la diffusione del jihadismo sunnita? Poco, o nulla forse. Anzi. Perché di questo si tratta: dall’invasione americana dell’Iraq del 2003 il settarismo, l’uso politico di queste formazioni, in un gioco di potere tipicamente medio-orientale, è stata foraggiato da queste potenze con lo scopo di contrastare l’arco sciita composta da Iran e Siria, i due unici stati in Medio Oriente dotati di autonomia politica e sottratti all’egemonia americana.

Quello che infatti si sta manifestando in Medio Oriente, al di là delle letture orientalistiche di molti giornali nostrani e stranieri (basta leggere Ezio Mauro e i suoi editoriali islamofobici), è un scontro che di religioso ha ben poco. Riprendendo un vecchio articolo, lo scontro sunniti vs sciiti “più che essere un discorso religioso ed essenziale nella storia dell’area, come buona parte del mainstream tende a far passare, è il risultato delle specifiche convergenze di potere intra-regionali ed internazionali, abilmente dipinte da certi attori regionali come battaglie religiose e confessionali: questo per dire che gli stessi conflitti in Medio Oriente, nonostante la retorica religiosa, celino dietro di sé la volontà molto materialistica di cambiare i rapporti di forza sul campo”: dunque ci troviamo di fronte ad uno scontro (per procura) di potere, ben più ampio del discorso religioso, tra due potenze regionali, quali sono l’Arabia Saudita e l’Iran.

I telegiornali però continuano a propinarci Arabia Saudita, Qatar e Turchia come “paesi moderati”, quando di moderato hanno ben poco.

Nel ridente regno dei Saud, patria del wahhabismo più estremista (una sorta di retaggio tradizionalista beduino unito alla più bieca interpretazione del Corano), esiste la pena di morte per decapitazione, e negli ultimi mesi dell’anno i tagliatori di teste sauditi si sono dati molto da fare (di sicuro superano di gran lunga quelli dell’ISIS in quanto a teste mozzate).

Sul Guardian di qualche giorno fa, Owen Wilson, in un articolo dal titolo alquanto eloquente (“To really combat terror end support to Saudi Arabia”), notava come Riyadh, pur avendo condannato, per bocca del gran muftì, l’ISIS come nemico numero uno, e pur cercando di presentarsi come pilastro di un Islam ragionevole, continui a sostenere significativamente gruppi terroristici sunniti in tutto il mondo e faccia un uno spregiudicato della diplomazia nella regione, rimanendo al tempo stesso uno dei più fedeli sostenitori dell’egemonia americana sulla regione.

Il doppiogiochismo è d’altronde anche una specialità qatariota: da una parte prezioso alleato delle politiche americane nella regione, dall’altra donor dei più crudeli gruppi jihadisti d’esportazione. Il piccolo emirato ospita la base di Al Udeid, una delle più avveniristiche basi americane in Medio Oriente, e, ultimamente, ha ricevuto 11 miliardi di dollari in commesse di armi dal gigante a stelle e strisce. Di contro il Washington Institute, think tank che si occupa di sicurezza strategica in MO, l’ha appena definito “a permissive enviroment for terrorist financing”, arrivando a dichiarare che “gli interessi politici qatarioti sono in conflitto con l’agenda contro-terroristica americana”.

Lo stesso si può dire della “democratica” Turchia del neo-eletto presidente della Repubblica Erdogan. Da fedele amica del regime di Assad, con cui concludeva affari fino al 2011, Ankara ha voltato le spalle all’ex amico, concedendo il suo lungo confine come zona franca per le scorribande dei ribelli antiassadisti, tra cui oggi si trovano quelli di ISIS. L’anno passato la Turchia si trovò in una situazione di profondo imbarazzo, quando un’inchiesta del premio Pulitzer Seymour Hersh del New Yorker, rivelava, basandosi su fonti d’intelligence comprovate, come l’attacco chimico alla periferia di Damasco dell’agosto 20136 non fosse stato altro che un tentativo macchinato dalla Turchia stessa con al-Nusra (fazione qaedista sostenuta da Ankara vs Assad) per indurre gli States ad un intervento armato in Siria.

Si domanda Alberto Negri, giornalista non certo tacciabile di anti-americanismo, se non avrebbe più senso contrastare ISIS con le forze che da anni lo stanno combattendo direttamente sul terreno: e qui parliamo sia dell’esercito siriano di Assad “l’unico vero esercito organizzato che combatte i jihadisti, visto che quello iracheno, foraggiato e addestrato dagli Stati Uniti, si è sciolto come neve al sole davanti ad ISIS.”, sia della guerriglia curda (attenzione anche qui a non incorrere nell’errore di fare di tutta l’erba un fascio: il PKK è una cosa, le formazioni curde irachene un’altra), combattenti in grado di fornire un’alternativa viva (vedi esperienza di autogoverno del Rojava) sia all’estremismo jihadista sia al regime di Assad. Resta dunque il fatto che senza le forze iraniane e la preparazione tattica e strategica dei libanesi di Hezbollah, unite all’esercito di Assad e all’azine autonoma delle forze curde, oggi a capo della Siria ci sarebbe un fantomatico autoproclamatosi califfo, che sgozzerebbe teste sia a ribelli laici che volevano la primavera araba in Siria sia a minoranze, sciite, yazide o curde che siano. Questo è il “velo dell’ipocrisia” di cui parla Negri.

 

DOVE SONO I “MODERATI”?

Obama ha parlato poi di sostegno alle forze moderate dei ribelli in Siria, che combattono quotidianamente ISIS e Assad (è notizia di oggi una tregua tra ISIS e il Fronte Rivoluzionario Siriano, gruppo favorito degli States7…). Ma lo stesso Faared Zakaria8, uno dei più importanti giornalisti liberal americani, fautore di una visione globalista della politica americana, si è chiesto dove siano oggi i moderati in Siria. L’eterogeneità dei ribelli anti-Assad e la presenza di elementi jihadisti è sempre stata un freno ad un diretto coinvolgimento USA alle opposizioni in Siria: Obama è stato definito riluttante da molti commentatori e politici, tra cui la Clinton, che l’hanno accusato di poca decisione nelle questioni mediorientali e dell’assenza di una real agenda, che avrebbe portato all’emergere di un fronte egemonico estremista in Siria9.

Quel che risalta dalle critiche ad Obama è che una strategia senza “boots on the ground” risulta essere una strategia perdente in partenza: qui commentatori, columnist e politici a stelle e strisce sottolineano la mancanza di una visione d’insieme e di una long term strategy, che potrebbe solamente peggiorare la situazione (vedi situazione post-invasione 2003 in Iraq, con la de-baathizzazione forzata delle istituzioni irachene).

In un certo senso, anche a detta di molti consiglieri, ISIS non rappresenterebbe una reale minaccia agli interessi americani, tangibile come al Qaeda del 2001, quella sì organizzazione transnazionalista in grado di colpire con le sue cellule sul suolo americano.

ISIS sembrerebbe più interessata a creare in loco uno stato, non a colpire obiettivi americani. Come afferma sarcasticamente Rosa Brooks su FP10se tagliare teste fosse un casus belli sufficiente Obama dovrebbe considerare la possibilità di attacchi aerei ai cartelli della droga messicana, che sono i veri specialisti nelle decapitazioni, e che, sopratutto, rappresentano una vera minaccia.”

Il rischio poi che la drone strategy (uso di droni) si riveli controproducente, come avvenuto in Yemen, Somalia, Pakistan e Afghanistan, dove il capitale umano e sociale delle organizzazioni qaediste è cresciuto, è reale. In questo Obama, nonostante le auspicate differenze con Bush II, sembra ricalcare le sue orme: unilateralismo, mancanza di strategie a lungo-termine, lack of policies, alienazione degli alleati tradizionali.

 

CONLUSIONI: OBAMA COMMANDER-IN-CHIEF E INSTABILITÀ COSTRUTTIVA

Forse bisognerebbe domandarsi perché proprio ora gli Stati Uniti decidano di intervenire e quale è il fine della loro azione. Calcoli di politica interna possono aver contribuito a questa decisione: le elezioni di medio-termine si avvicinano (novembre) e Obama potrebbe aver voluto lanciare un segnale ai suoi critici, repubblicani e non, che lo accusano di essere riluttante, debole e isolazionista in politica estera. Di quell’Obama del Cairo 2009, in cui riconosceva la responsabilità dell’ingerenza occidentale nel fomentare il caos medio-orientale, non sembra esservi traccia: oggi c’è solo realpolitik da commander-in-chief e retorica fanatica stile Bush II.

Al tempo stesso anche, e soprattutto, calcoli di potenza hanno contribuito a questo shift. Gli States sembrano di nuovo impegnati in uno strategic engagement in Medio Oriente: nonostante i grandi editoriali sul self restraint e lezioni sul cambio strategico della politica estera americana nel 21 secolo, il cosiddetto Pivot to Asia, gli Stati Uniti rimangono concentrati e altamente impegnati nell’area. Tutte le chiacchiere sul Medio Oriente post-americano e sull’isolazionismo di Obama lasciano il tempo che trovano di fronte ad una regione dove si trovano i 2/3 delle riserve petrolifere mondiali e il 43% di quelle di gas naturale.

Certo, nella crisi dell’unipolarismo americano, alle prese coi costi gravosi della responsabilità come unica superpotenza globale e ripiegata con lo sguardo at home, l’autolimitazione ha cambiato gli obiettivi strategici e determinate gerarchie, in primis le alleanze basate su comuni visioni “di civiltà”, che perdono peso rispetto a quelle derivate da interessi di congiuntura: ecco dunque l’ampio uso di deleghe operative ai soggetti più vari (Fratelli Musulmani, Qatar, Arabia Saudita, Turchia ma anche jihadismo come strumento contro l’appartenenza di classe) per bilanciare minacce e situazioni di conflitto, con costi americani portati al minimo (leading from behind).

Ma la superiorità tecnologica militare nonché la combinazione eccezionale di risorse politiche economiche e culturali di cui godono gli Stati Uniti sembra difficilmente incrinabile, e questo si manifesta più che mai in Medio Oriente, regione ad alta penetrazione esterna.

Oggi dunque l’intervento sembra rimettere al centro del progetto americano quella politica tanto cara ai neo-con di instabilità costruttiva: tutto ciò col fine di ribadire l’egemonia americana sull’area, isolando e destrutturando stati con una propria autonomia politica (come la Siria appunto), mettendo fine alla (psuedo?) minaccia di ISIS a stati amici come l’Arabia Saudita, e col fine di isolare Russia e Cina dagli stati troppo autonomi sul piano politico11.

Tutto questi sommovimenti e tensioni geopolitiche vanno visti all’interno della grande competizione per la sicurezza tra Russia, Cina e Stati Uniti, dove gli States intendono rafforzare il loro ruolo di unica superpotenza mondiale, contenendo Mosca, attraverso l’allargamento della NATO a est (vedi situazione Ucraina), e la Cina in Asia orientale, attraverso accordi economici e sostegno alle rivendicazioni territoriali degli antagonisti cinesi. Un intervento americano in Medio Oriente potrebbe inquadrarsi dunque certamente in una prospettiva di rebalancing strategico degli States verso l’Asia e il containment cinese, nella misura in cui il bilanciamento venga ad essere concepito in chiave multi-dimensionale: e dunque sì riposizionamento geopolitico inteso come riequilibrio del peso strategico assegnato alle diverse regioni del sistema internazionale, ma anche e soprattutto riposizionamento individuale, da intendersi come bilanciamento della crescita cinese grazie al controllo della regione medio-orientale e dei suoi flussi energetici (centrali per la Cina). Intervento dunque leggibile come tutela della superiorità e della presenza americana in chiave anti-Cina in una regione nodale per risorse energetiche, vie di comunicazione e commerci internazionali.

Come afferma Mearsheimer, il mondo reale rimane un mondo realista, e con questo dobbiamo farci i conti, anche e soprattutto in Medio Oriente.

 

to be continued….

 

NOTE:

3 “The twenty-eight pages”, New Yorker, 9 settembre 2014

10Foreign policy, “Another dumb war”, 12 settembre 2014

11 Facciamo un passo indietro: dopo il vertice NATO di Newport, in Galles, dove la retorica “contro l’imperialismo russo” aveva dominato, nel discorso di Obama non c’è stato alcun accenno alla situazione ucraina, dove il tutto sembra essersi quantomeno stabilizzato per una tregua “imposta” da Putin a Poroshenko. Nonostante la paventata invasione russa di mezza Ucraina e la creazione di una forza NATO d’intervento rapido tra Polonia e repubbliche baltiche, la pretestuosità di certe conclusioni, come quella che considera il volo MH17 abbattuto dai ribelli filorussi del Donbass, sembra essere smentita dalle evidenze: l’aereo è infatti stato colpito e abbattuto da mitraglieri di grosso calibro (e non da un missile terra-aria SA-11 di fabbricazione russa) di cui i suddetti ribelli non dispongono, al contrario dell’aviazione di Kiev. Obama ha avuto dunque tutto l’interesse a evitare di affrontare l’Ucraina nel suo discorso e concentrare la sua attenzione su ISIS: dopo Putin dipinto come il nuovo Hitler che minaccia la pace in Europa, ecco il mostro ISIS che terrorizza e decapita a destra e a manca.

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