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A Gaza va in mostra l’arte dei detenuti palestinesi

Per l’ex detenuto palestinese Abdelfattah Abu Jahil, l’arte in prigione è une vittoria. “All’inizio è stato molto difficile – dice dei dipinti, delle sculture e dei manufatti prodotti durante la sua prima detenzione nel 1983 – Era proibito. Dovevamo nasconderlo dalle guardie. E dovevamo contrabbandare gli strumenti, come perle e fili, per fare arte”.

Tutto è cambiato quando uno sciopero della fame di massa ha costretto l’Israeli Prison Service a permettere ai detenuti palestinesi di avere strumenti per fare arte. “Le più grandi conquiste del movimento dei prigionieri sono arrivate nel 1985 – dice Abu Jahil – Abbiamo scioperato per costringere gli israeliani a fare delle concessioni. Io ho rifiutato il cibo per 79 giorni”. Il loro successo ha permesso all’arte in prigione di fiorire, spiega: “Siamo stati in grado di chiedere alle nostre famiglie di mandarci il materiale, o di comprarlo nei piccoli negozi della prigione”.

Oggi Abu Jahil, che è stato finalmente rilasciato dalla sua quarta detenzione nel 2002, continua a fare arte e ha come tema i detenuti e il movimento dei prigionieri a Gaza.

Collezione permanente. Con lo stipendio che il Ministero dei Prigionieri palestinee gli gira per il suo lavoro, ha realizzato molte opere per un’esibizione permanente dell’arte in prigione, ospitata dal Ministero. La collezione, che ha aperto i battenti nel 2010, occupa una stanza del quartier generale del dicastero a Gaza City, nel quartiere di Tal Al-Hawa.

Ne fanno parte lavori di ogni tipo, come un modello dorato della Cupola della Roccia fatto con dentifricio, il foglietto di rame del tubetto e schizzi su carta velina usata per avvolgere la frutta e la verdura in prigione. I pezzi più stravaganti mostrano gli effetti dell’utilizzo di nuovi materiali dal 1985 ad oggi, così come la continua partecipazione al progetto degli ex detenuti.

“Mai arrendersi”. Imponenti ritratti di prigionieri veterani, paesaggi pastello di Gerusalemme e della campagna di Gaza, sculture in cartapesta della mappa della Palestina e della nave Mavi Marmara diretta a Gaza con aiuti umanitari, sono stati ovviamente fatti a Gaza o trasportati qui dalle prigioni con il consenso dell’Israeli Prison Service.

Alcuni dei manufatti più piccoli sono stati invece nascosti dai familiari in visita ai prigionieri o dagli stessi ex detenuti una volta rilasciati, raccontano gli impiegati del Ministero: “L’esibizione mostra che i palestinesi non si arrendono mai – dice la portavoce del Ministero, Mukarram Abu Alouf, che aiuta a curare la mostra – Noi possiamo essere creativi anche nelle circostanze più difficili. Mostra anche che i palestinesi, non importa di quale partito o classe siano, sono uniti”.

Molte delegazioni che visitano Gaza vanno a vedere la mostra. Le università locali o altre gallerie spesso prendono in prestito alcune opere. Alcune sono state portate nella tenda di protesta che la Waed Captive and Liberators Society ha eretto nel complesso Saraya a Gaza City il 17 aprile, Giornata del Prigioniero Palestinese. Il sito è stato una della tre prigioni in cui Abu Jahil è stato detenuto: “Sono stato a Nafha, Ashkelon e Saraya. Era chiamata la galera di Gaza prima del 1994. È stata demolita dagli aerei israeliani il 28 dicembre 2008”.

Emozioni. “Ho prodotto circa 50 opere di diverso genere – spiega raccontando dei sette anni di prigionia – Molte hanno a che fare con il folklore palestinese, con i contadini, i vestiti tradizionali e le vecchie case palestinesi. Un altro tipo riguarda la lotta palestinese contro l’occupazione israeliana, come la bandiera, la mappa e i combattenti. Il terzo tipo è più personale, fatto per mia madre, mia moglie, i miei figli. Sono le mie opere preferite”, dice mostrando un manufatto di perle che formano un cuore e due candele che ha preparato per il giorno della mamma. 

“Ci sono tante ragioni per fare arte – continua – Primo, per tenermi occupato, per non avere troppo tempo libero a non fare nulla. Secondo, per permettere alle mie emozioni di uscire. Terzo, perché è uno sforzo collettivo. Quarto, fare felici le nostre famiglie quando li ricevono. E infine, per provare al mondo che anche se sei in prigione, sotto pressione e torture, puoi ancora fare qualcosa. Le torture non hanno danneggiato il nostro stato mentale”.

Rawsa Habeeb, ricercatrice ed ex detenuta artista, sottolinea che l’arte era un modo per portare l’eredità palestinese dentro le prigioni: “Amavamo farlo perché è parte della nostra cultura, di cui siamo tutti orgogliosi”. L’esercito israeliano ha catturato Habeeb il 20 maggio 2007 e l’ha condannato a due anni e mezzo di carcere. Come molti altri detenuti di Gaza, è stata arrestata mentre attraversava il checkpoint di Erez per andare in Israele per ragioni mediche. È stata liberato il 4 ottobre 2009, l’ultima delle 20 prigioniere rilasciate da Israele in cambio di un video del soldato dell’IDF Gilad Shalit. Lavoro di squadra. Suo cugino, il piccolo Yousef al-Zaq, è stato il 21esimo prigioniero rilasciato in quello scambio, insieme a sua madre, Fatima al-Zaq, la zia di Habeeb. Era il giorno del suo secondo compleanno, il più giovane prigioniero del mondo. Ha iniziato a frequentare l’asilo nido a Gaza lo scorso settembre.

“Abbiamo fatto tanta arte, è parte della cultura palestinese – spiega Habeed parlando della sua detenzione nella prigione di Sharon -Preparavamo cuscini, dipinti, coperte e scatole di fazzoletti. Era un lavoro di squadra. Per esempio, quando volevamo fare un quandro ricamato, una di noi preparava il ricamo, una la cornice di legno e una il vetro. Ci siamo insegnate a vicenda come lavorare”.

Mentre era in prigione, Habeed ha studiato servizi sociali. Dopo il rilascio, ha completato il corso di laurea all’università al-Azhar di Gaza City e si è focalizzato sulla vita fuori dalla prigione. “Non ho continuato a fare arte una volta fuori. Questo tipo di lavoro richiede molto tempo, che ora non ho. Ho un marito, quattro figli e un lavoro, però”.

Abu Jahuil, che ha vissuto di acqua e sale per 79 giorni per ottenere pennarelli e pennelli, non ha intenzione di smettere: “I prigionieri possono essere creativi – dice – Sopravviviamo sempre. Essere arrestati e detenuti in una prigione israeliana non è la fine della nostra lotta. Continueremo sempre a lottare”.

di Joe Catron – The Electronic Intifada (fonte Nena News)

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