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Anche il cinema sa essere ultrà!

Il suo romanistissimo Principe (in onore del mitico capitano Giuseppe Giannini), ha la faccia di Claudio Amendola e un’etica distorta che molto ricorda i giorni nostri. Violento ma anche curioso e non moralista, è uno spaccato di mentalità e vita di un gruppo di ragazzi dediti a una squadra e a una visione del mondo tanto radicata quanto estranea alla cosiddetta “normalità”. Il finale nello stadio di Torino, in quei bagni divelti e in quelle esistenze recise da una lama, ci dice tanto, e molto prima, di ciò che non abbiamo voluto vedere. L’opera suscitò interesse e anche polemiche, persino antiche se si pensa che una delle più feroci fu sul presunto malinteso del titolo, visto che secondo molti rappresentava gli ultras e non gli ultrà. E in una s, in quel mondo a parte, passa una distinzione filosofica e ontologica che avrebbe bisogno di un libro per essere sviscerata.
Sempre nel nostro paese è tornato sul tema, anche se dall’altra parte, Acab di Stefano Sollima, tratto dal libro di Carlo Bonini. Qui si guarda ai celerini, a chi ha diviso la sua esistenza tra Genova 2001 e l’olimpico di Roma. Prendendo botte ma soprattutto dandone. Il cineasta con coraggio entra nelle ambiguità delle forze dell’ordine, mostrando come certi valori siano condivisi con i propri nemici, in nome di una violenza che diventa etica, estetica e persino modo e metodo di vita.
Di sicuro però uno dei lavori migliori in merito è E.A.M. di Vincenzo Marra. L’autore napoletano, talento cristallino alla macchina da presa, soprattutto quando guarda gli interstizi più nascosti della sua Napoli, si calò nella realtà della curva partenopea, seguendo un gruppo di persone che tenevano fede al titolo del suo documentario: E.A.M., infatti, sta per Estranei alla Massa. Senza moralismi o retorica, Marra guarda questi uomini normali nella loro seconda vita, creando nello spettatore persino fascinazione per un luogo dell’anima e della società troppo spesso rinchiuso dagli “altri” in stereotipi classisti e ignoranti. Non c’è condiscendenza nel suo racconto, ma solo verità, e a tutt’oggi sembra essere proprio il suo il ritratto più completo e profondo del tifo nostrano. Forse perché il regista intuisce il legame che c’è tra l’individuo e il gruppo, un qualcosa di unico e poco comprensibile per chi ne è al di fuori. Così lui ai Fedayn allo stadio alterna il “pedinamento” di sei componenti degli stessi, fuori dal San Paolo.
Di alto livello è anche Secondo tempo di Fabio Bastianello, che con un piano sequenza si getta proprio su quegli spalti, facendoti respirare quell’ambiente, costringendoti a intuire forse l’unica forma di pensiero collettivo, di ideologia rimasta. Lupo lo incarna con fanatismo e, allo stesso tempo, senso pratico e in 105 minuti questo film di finzione tutto ambientato allo stadio olimpico di Torino ci dice molto di quella realtà, pur non arrivando ai vertici di questo genere particolarissimo. Fu vietato ai minori di 18 anni: perché l’importante è escludere, mai capire. La politica, i benpensanti fanno sempre così.
A Daniele Segre va riconosciuto poi il merito di avere realizzato un grande “classico” come Il potere dev’essere bianconero, che si infila, quasi si infiltra in quel dedalo di sentimenti e contraddizioni che è l’ultratifo (in tutti i sensi). Meno riuscito L’ultimo ultras di Stefano Calvagna, più istintivo e iconografico. Meglio Fratelli d’Italia, nell’episodio con un Massimo Boldi eccezionale – rimarrà mitico il suo “Ostia nun fà la stupida stasera” – un pezzo di grande comicità demenziale che però intuiva alcuni nervi scoperti del tifo. E in fondo come non citare la saga di Eccezzziunale Veramente: Abatantuono il suo orgoglio ultras lo canta, quando dice “se io sto alla partita, io rischio la vita!”.
Ma, chiaramente, anche fuori dai nostri confini sono tanti gli esempi di cinema ultras.
È del 2005 Hooligans – che forse avrà ispirato Michele Dalai per il suo bellissimo programma televisivo Football Hooligans? -, in cui troviamo un inedito Elijah Wood. La regia di Christopher Franke a tratti cede a una certa furbizia, ma la struttura del racconto e i contenuti sono di grande interesse, soprattutto perché mostra i cortocircuiti che si creano quando ultras e resto del mondo si incontrano e scontrano. Dopo non andrete mai a vedere una partita del West Ham, questo è certo.
E non possiamo non citare lo splendido Il mio amico Eric di Ken Loach: con Cantona il protagonista è un supertifoso del Manchester Utd. Parte di un gruppo che con la stessa passione discute degli sponsor sulla maglietta come dissacrazione di un tempio e poi, con maschere del loro idolo, si fanno giustizia da veri ultras. In loro c’è il meglio del tifo organizzato. Anche se è proprio un tifoso dei Red Devils che provoca un eccezionale Robert Carlyle nella serie tv Cracker To be a somebody, un crime, ma con una scena da stadio da antologia.
Un altro esempio dei tanti possibili da fare ancora è The Football Factory. Con un Danny Dyer perfetto: anche perché lui hooligan, pur se non della frangia violenta, lo è stato davvero.
Insomma, a forze dell’ordine, politici e opinionisti bastava andare un po’ più al cinema negli ultimi decenni. Forse non sarebbero così sorpresi da questo fenomeno e soprattutto così incapaci di contrastarlo. Perché l’unica possibilità di avvicinare due mondi contrapposti è una rivoluzione culturale, non certo quella repressione che è la benzina per alimentare la rabbia che tiene unito il tifo più estremo.

fonte: SportPeople

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