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Commons contro e oltre il capitalismo Report di un dibattito con Silvia Federici e George Caffentzis

 

 

 

“… senza la pratica della riappropriazione delle risorse, i commons finiscono unicamente per essere una forma di redistribuzione della povertà…”


Caffentizis introduce la discussione con alcuni cenni storici. Nel 1989 a New York si ritrovano una serie di compagni e compagne che dieci anni prima avevano dato vita al progetto collettivo Midnight Notes. Durante gli anni ’80 molti di loro avevano girato il mondo, potendo toccare con mano gli effetti dell’instaurarsi su scala globale del nascente neoliberalismo. Il confronto fra queste esperienze realizzatesi prevalentemente in Asia, Africa e Sud America, produsse una importante pubblicazione nel 1990, “The new enclosures”.

In questo scritto il collettivo si interrogava su come dare una lettura dei Piani di aggiustamento strutturale e delle politiche di risanamento del debito (che oggi, rovesci della storia, conosciamo bene anche in Europa), attraverso i quali Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale stavano depredando ampie zone del pianeta. Una lettura che potesse fornire una descrizione alternativa a quelle vigenti, in grado di mostrare le lotte in corso. Ciò venne sviluppato attraverso il ricorso alle pagine marxiane del Capitale nelle quali viene descritta la “cosiddetta accumulazione primitiva”. Un processo che gli autori trovarono calzante ed attuale per comprendere i processi in atto su scala globale, definiti sostanzialmente come ripetizione della dinamica descritta da Marx e come attacco ai commons. Questi, intesi come forme di produzione comunitaria, erano il reale target delle politiche delle istituzioni del rinnovato capitale globale.

Nello stesso anno tuttavia esce un altro libro che tratta il tema dei commons, elaborato dall’economista americana Elinor Ostrom: “Governing the Commons: The Evolution of Institutions for Collective Action”. Questa produzione teorica di taglio accademico, che avrà un discreto successo arrivando sino ad oggi (agevolando anche la formazione della The International Association for the Study of the Commons – The leading professional association dedicated to the commons”), presenta un’analisi estremamente differente ed in contrasto con quella elaborata da Midnight Notes. Mentre questi guardano ai commons non solo come oggetti sotto attacco ma anche come possibili elementi per la lotta anticapitalista, Ostrom sostanzialmente li inquadra entro un quadro di trasformazione legale, proponendoli come una sorta di terza via tra il pubblico ed il privato tutta interna al sistema capitalistico. Nei suoi studi sull’Africa, ad esempio, essa afferma che il common managment funziona economicamente meglio rispetto alla via privata indicata dalla World Bank.

Federici si inserisce nella discussione mostrando come, pur all’interno di un linguaggio simile, si innestino tuttavia due prospettive radicalmente differenti. All’oggi inoltre, notano gli autori, il capitalismo necessita di una sorta di commonism come freno ai problemi interni alla sua riproduzione. Dunque i due vedono come necessario rilanciare un discorso sui commons che li veda invece quali base per la resistenza e trasformazione del presente. Viene inoltre discusso come, anche laddove il tema dei commons venga agito all’interno di contesti anticapitalisti, si è spesso determinata una dimensione problematica quando questi vengono vissuti come embrioni già costituiti di una società a venire. Questo infatti conduce a tematizzare la possibilità illusoria di isole felici, una sorta rovescio speculare delle gated community, mentre purtroppo nel nostro presente il miglioramento individuale difficilmente avviene se non a discapito di altri…

Aggiornando le analisi dei primi anni Novanta, riprende il filo Caffentzis, molte ipotesi di allora paiono confermate. Da un lato il fatto che per il capitale i luoghi stanno divenendo sempre più indifferenti, dall’altro questo nuovo e continuo ripetersi di dinamiche di accumulazione primitiva. Viene precisato come questa non debba essere letta in maniera superficiale come l’appropriazione delle terre comuni. L’obiettivo di questa forma di accumulazione sono infatti le persone, o per meglio dire la separazione di esse dalla terra (ma stesso discorso vale per gli oceani, le foreste, sino a giungere oggi all’informazione). Questa dinamica infatti produce un’enorme massa di forza-lavoro, che non a caso ha determinato un enorme aumento del mercato del lavoro su scala globale negli ultimi anni. Dunque il fine è la produzione di forza-lavoro, non l’appropriazione privata della terra.

Federici interviene sostenendo che la crisi attuale ha mostrato come sia rispetto al Mercato che allo Stato ci sia la crescente determinazione a non concedere più risorse per nessuno, come è manifesto nei continui taglia all’educazione, alla salute ecc… Ciò conduce alla necessità di ricostruire forme di solidarietà, un tessuto sociale, un potere di base che possa effettivamente funzionare come contropotere rispetto a questo violentissimo attacco alle condizioni di vita. Ci si riferisce a forme di organizzazione sociale, di solidarietà diffusa, che dopo gli anni ’60 (negli USA) sono state totalmente distrutte. Il riferimento è ai quartieri proletari estirpati da sfratti e gentrification, dove le forme comunitarie di sostegno reciproco garantivano una base di potere, una precondizione necessaria e da ripensare oggi. In quest’ottica il tema dei commons deve essere visto come una forma di ricollettivizzazione contro l’individualizzazione radicale della produzione. Ed entro la completa crisi dei servizi sociali si aprono spazi di possibilità per pensare i commons come potere trasformativo, come forma di connessione sociale e creazione di nuove modalità di produzione e riproduzione.

Caffentizis sottolinea come la loro teoria dei commons implichi il vederli come molteplicità, ossia pensare assieme la necessità di risorse, le pratiche di resistenza, e la sperimentazione e prefigurazione di nuove forme sociali. Se non si fa ciò il rischio è che il discorso sui commons si trasformi in una retorica governativa che punta a tagliare ulteriormente le prestazioni del pubblico. Cosa che è in qualche modo accaduta in Inghilterra, dove la Big Society proposta da Cameron sostanzialmente fa leva sull’idea della possibilità delle comunità di soddisfare autonomamente i propri bisogni per poter sottrarre ulteriori risorse. Federici rimarca dunque come i commons debbano necessariamente essere una base per la rivendicazione di risorse. Il mutualismo può certamente essere una base, ma senza la pratica della riappropriazione di queste i commons finiscono per essere unicamente una forma di redistribuzione della povertà.

 

Dopo una serie di domande ed interventi, riprende la parola Caffentzis, segnalando come il tema dei commons abbia avuto, ben prima degli scritti di Midnight Notes, un attacco radicale. Questo venne prodotto da Garret James Hardin, un ecologo statunitense famoso per un saggio del 1968 chiamato “La tragedia dei commons”. Basandosi sul famoso “Dilemma del prigioniero”, un paradosso elaborato da Albert Tucker nell’ambito della teoria dei giochi [per spiegazioni si può cercare su Wikipedia], l’articolo volle dimostrare come i commons fossero inevitabilmente destinati a fallire. Caffentizis elabora una critica sia empirica che teorica allo scritto di Hardin, attraverso una decostruzione che mostra come l’errore di fondo di questa impostazione stia nel sovrapporre l’idea di commons a quella di open access. Quest’ultimo concetto infatti immagina sostanzialmente uno “spazio” vuoto di accesso del quale tutti si possano liberamente servire. Invece i commons sono il prodotto di mondi storici e culturali, implicano sempre anche una pratica del commoning, ossia una trama di relazioni, delle forme di intercomunicazione [mentre il paradosso di Ticker è basato proprio sull’incomunicabilità], delle regole di gestione ecc… che non li definisco appunto che ambiti di libero accesso in quanto vuoti, bensì come terreni densi di relazioni nei quali sono implicite forme di reciprocità. Non sono ossia oggetti di cui appropriarsi. Anche su questo aspetto diviene evidente dunque la scivolosità del tema dei commons, od il loro possibile utilizzo ideologico in direzioni differenti. Non a caso anche Ostrom critica Hardin, tuttavia entro una prospettiva che tende a condurre ad una difesa in forma di chiusura dei commons, inquadrarli come dimensioni che spesso conducono alle gated communites o anche all’idea applicata in Europa della restrizione delle migrazioni.

Federici si collega a questa riflessione articolando una ragionamento sullo spazio (pubblico). Se da un lato la sua costante e progressiva sottrazione/erosione (esemplare a New York, ma rinvenibile anche ad esempio nelle spiagge in Italia) è evidente, bisogna fare attenzione a non sovrapporre semplicisticamente il tema dello spazio pubblico (e del pubblico più in generale) ai commons. Questi, in quanto multidimensionali, comprendono anche lo spazio, ma in modo inestricabile rispetto alle relazioni sociali che su di esso si sviluppano, che sono più importanti. Infatti alla domanda che viene posta se il Pianeta Terra possa essere considerato un commons, la risposta è un categorico no. Senza forme di lotta, vera sorgente di creazione dei commons e di connessione fra persone e determinante di nuove relazioni, un’impostazione che inquadri il pianeta come commons finisce inevitabilmente per fare da sponda a retoriche del tipo Nazioni Unite. Caffentzis sottolinea come al limite, laddove si definissero processi di world wide struggle che conducessero ad una comunità dell’umanità, si potrebbe pensare in questi termini. Ma all’attuale tutto questo indubbiamente non c’è. I due relatori chiariscono come sia evidente che nell’agone politico il tema è delicato da trattare. Portano l’esempio di alcuni economisti californiani che di recente hanno fatto una stima del valore complessivo della Terra (47 trilioni di dollari), e di come evidentemente di fronte a questi approcci, o alla generale volontà capitalistica di voler privatizzare il pianeta, verrebbe da rispondere sostenendo che la Terra appartiene a tutti. Epperò in questa contro-argomentazione è presente un forte rischio. Se infatti il tema dei commons non viene situato in contesti e luoghi specifici, in relazioni determinate, esso finisce per involontariamente legittimare le retoriche attraverso le quali le istituzioni globali espropriano le popolazioni in giro per il mondo. Viene portato l’esempio dell’Amazzonia. Se tutti siamo proprietari del Mondo e le foreste amazzoniche sono un bene comune dell’umanità, una proprietà sulla quale tutti possono decidere, diviene dunque legittimo che le popolazioni che in questo momento abitano quei luoghi vengano da essi cacciati per evitare che ne consumino le risorse. In questo apparente paradosso si mostra come una logica del possesso collettivo della terra da parte di una supposta umanità conduca all’espropriazione diretta delle comunità concrete che abitano il pianeta. L’idea stessa di umanità è infatti oggi uno strumento nelle mani del nemico.

L’incontro si conclude con una discussione sull’importanza ed i limiti di Occupy nel vivere la piazza occupata come sperimentazione di una pratica del commoning, sulla necessità di pensare una capacità di riproduzione dei movimenti che dunque, oltre alle forme molari (come ad esempio i cortei) possano avere dimensioni molecolari di riproduzione di vita. Viene infine suggerita la lettura di un romanzo: http://zinelibrary.info/files/p.m.__bolo’bolo.pdf, nel quale l’autore prefigura una società dei commons in cui, in maniera chiaramente da romanzo, viene però discusso come questa debba essere pensata non come insieme di comunità chiuse (un po’ come le Nazioni Unite), ma come continua circolazione e scambio.

 

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