Contro ‘la Casta’
Citiamo solo gli ultimi in ordine di tempo. Lo spot della Fiat che ammicca esplicitamente al rancore verso le auto blu. Il video di Enzo Jachetti (uno che prestando la sua faccia al vero telegiornale del ventennio berlusconiano, Striscia la notizia, ha molte responsabilità della situazione in cui ci troviamo) che manda tutti i politici a quel paese. Il monologo di Enzo Brignano a Le Iene che rimastica i peggiori luoghi comuni del qualunquismo di fine regime. Il conduttore superberlusconiano Aldo Forbice che a “Zapping”, su Radio1, si fa portavoce di una campagna contro “i costi della politica” e per la riduzione del numero dei parlamentari. Quest’ultima, del resto, è l’unica rivendicazione comprensibile in mezzo alla fuffa del format messo in piedi da Giorgio Gori (uomo di Canale 5 e del Grande fratello) a favore di Matteo Renzi. Dunque, non si tratta più di un rumore di fondo, ma del rischio concretissimo che la crisi economica e politica produca un movimento d’opinione addomesticato e privo di sbocchi positivi.
La retorica – facile perché veritiera, eppure inutile – contro “la Casta” dilaga, di pari passo con l’incedere della crisi e accompagna gli ultimi atti del regime berlusconiano. Ma la struttura dei discorsi non è mai neutra. Come ha spiegato il linguista americano George Lakoff, ogni discorso costruisce un “frame”, una cornice concettuale, che i qualche modo contiene anche il suo esito. Ecco, la retorica sulla Casta è un “frame” di destra. Entrare dentro quella cornice significa portare acqua all’individualismo, al rancore senza rabbia, alla frustrazione. La (presunta) denuncia delle malefatte della “Casta” esiste da anni, viene pompata dai grandi mass-media (due giornalisti del Corriere della sera hanno coniato il termine e le televisioni non mancano di tirarlo fuori), ma non è servita a niente. È servita solo ad aggregare masse di individui abbandonati a sè stessi attorno al rancore e alla frustrazione. Non ha prodotto forme di solidarietà, sperimentazione di alternativa o lotte in grado di rompere la frammentazione. Si è concretizzata sempre in lamento sguaiato e generico contro “i politici”, alzando cortine fumogene per nascondere i rapporti sociali, la distribuzione della ricchezza, le relazioni di potere.
La retorica contro “la Casta” prescinde da qualsiasi colore politico. Tuttavia, ogni discorso che si pone oltre i confini valoriali e politici di “destra” e “sinistra”, ritenendole orpelli del passato o puri strumenti ideologici, alla fine – stringi stringi – vuole attaccare “la sinistra”. Chiunque abbia un minimo di esperienza politica quando sente pronunciare la frase “non sono né di destra né di sinistra” traduce mentalmente in “sono di destra”. Quella formuletta nove volte su dieci prelude ad una polemica verso la sinistra. Il sintagma “né di destra né di sinistra” riassume la genesi e l’autorappresentazione del fascismo. Quel modello è continuamente riproposto ai giorni nostri. Quando, nel 2008, i giovanotti telecomandati dai “fascisti del terzo millennio” di CasaPound cercarono di infiltrarsi nei cortei dell’Onda studentesca, intonarono lo slogan “Né rossi né neri ma liberi pensieri”.
Anche la Lega ha sempre cercato di presentarsi come “né – né”: il federalismo e persino la secessione vengono presentati come soluzioni agnostiche, non necessariamente di destra o sinistra”. Lo stesso dicasi per Forza Italia: Berlusconi ha sempre fatto vanto di raccogliere chiunque nel suo movimento carismatico: dai postfascisti agli ex comunisti passando per democristiani, radicali e socialisti. In un altro contesto, ma rimadendo a un movimento carismatico e populista, questo discorso vale anche per il partitino di Beppe Grillo, che ha cominciato ponendo problemi genericamente considerati di “sinistra” (l’ecologia, la lotta ai privilegi, i diritti dei giovani, l’antiberlusconismo) e che a furia di dirsi “né di destra né di sinistra” assume anche posizioni di destra, blaterando di invasione di clandestini o disegnando di complotti della finanza mondiale.
Bossi, Berlusconi e Grillo utilizzano volentieri la retorica della Casta, ci si trovano a loro agio. Bossi la piega alle teorizzazioni localiste (dice con la Padania, i politici sarebbero vicini al territorio e quindi più “controllati” dalla gente), Berlusconi se ne serve per tirarsi fuori (dice che lui non è un “politico” ma un imprenditore prestato alla politica che ha persino rinunciato allo stipendio da premier: quindi non fa parte della Casta!) e Grillo la usa per spargere la sua paccottiglia qualunquista.
Ancora: è tipico della destra banalizzare qualsiasi cosa, trasformare problemi complessi (come il deperimento della politica, la sua incapacità di fare da contropotere all’economia, la crisi della rappresentanza e della sovranità Stato-nazione) in questioni semplici. Assecondare il discorso sulla Casta significa soffocare la fiammella del pensiero critico con valanghe di frustrazioni e scorciatoie mentali. Questo non significa, ovviamente, che non ci si debbano inventare narrazioni “semplificate” per coinvolgere quelli meno abituati a muoversi dentro scenari complessi. La storia della sinistra, quella riformista e quella rivoluzionaria, è piena di simboli e miti pensati per coinvolgere la gente semplice. Ma l’arte della costruzione dei racconti e dei miti deve fare i conti con i rischi di questa attività. Le narrazioni politiche, per non fare il gioco della destra, devono sempre avere un’apertura verso sviluppi di ragionamento più alti e devono sempre disegnare scenari che producano esiti “positivi” e che invitino a mettersi in relazione con altri per costruire qualcosa. Altrimenti, siamo di fronte a una narrazione di destra: la costruzione di un “nemico” contro cui indirizzare la povera gente. Come nel caso della Casta.
Chi parla della Casta pone sempre questioni di metodo (“i politici guadagnano troppo”), ma non entra mai nel merito delle cose da affrontare. Cioè non prende posizione su nulla. Perché il più delle volte sbraitare contro la Casta serve solo disegnare uno scenario in cui ognuno fa quello che gli pare, una enorme zona grigia in cui muoversi liberamente e senza remore: “Siccome tutti rubano, lo faccio anche io per farmi giustizia da solo” (di questo tema si è occupato Franco Cassano nel suo “L’umiltà del male”, edito da Laterza).
Provate a digitare sul motore di ricerca di una qualsiasi libreria online la parola “Casta”. Vi accorgerete di quanti libri sono usciti solo negli ultimi due anni con quella parola nel titolo. Oltre al bestseller di Stella&Rizzo troviamo decine di volumi: ci si scaglia contro “La casta dei farmaci” e contro quella “dei sindacati”, si attacca “La casta del vino” e persino quella “dei radicalchic”. Per non parlare de “La casta della chiesa” e di quella “dei giornali”. Ovviamente, ci sono anche un paio di libri contro “La casta dei giudici”. Questa proliferazione di titoli è senz’altro dovuta a motivi di marketing (si cita il titolo del libro che ha venduto tanto). Il motivo di tanto successo è che lo schema del discorso sulla Casta è accattivante perché deresponsabilizzante: c’è sempre un “io” e uno “loro”, c’è sempre un confine che divide una generica “società” e qualche “casta” di rapaci parassiti. Il risultato è che la “società” indifferenziata non debba mai mettersi in discussione, che basti denunciare la corruzione (che riguarda sempre l’altro) per sentirsi in pace con la coscienza.
* Queste note sono debitrici della discussione collettiva che da tempo si dipana in rete: se n’è discusso in Giap!, il sito dei Wu Ming, ne hanno parlato nei loro blog – tra i tanti – Jumpinskark e Loredana Lipperini (emblematico lo scambio su Striscia la notizia), ne abbiamo scritto su Carta.
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