Far deragliare la locomotiva della Storia
di Jack Orlando per Carmilla
Gigi Roggero; Il treno contro la Storia. considerazioni inattuali sui ’17; DeriveApprodi; Roma giugno 2021
La rivoluzione è anzitutto un atto di fede diceva un tale. Forse è vero, la speranza e la fede in un domani migliore, in una certa seppur lontana vittoria sono corroboranti. Ma in tempi cupi come questi, curiosamente paludosi, dove ogni cosa si muove pur sembrando sempre immobile, è difficile tener salda la fede. Anche i monaci più devoti tendono a sbandare di fronte a una notte troppo lunga, e li si vede ripiegare nella fideistica attesa del domani migliore, o nell’autismo della ritualità che scaccia i demoni e le preoccupazioni dal perimetro sicuro del chiostro.
Brutta fine per la rivoluzione, ancorata ad un inafferrabile sol dell’avvenire, annegata nella bava e nell’attesa. Allora preferiamo prenderla in maniera più drastica la questione: la rivoluzione comincia con un atto di volontà. Ovvero inizia quando decidiamo, coscientemente, di farla finita con un certo destino e una certa Storia, quella cui siamo assegnati dal modo di produzione che ci genera, e allora ci mettiamo contro, per passare al bosco e alla lotta. Perché di certo saremo un passo più vicini alla meta agendo nell’oggi, piuttosto che pregando il domani.
Contingenza contro aspettativa. Immediatezza contro invocazione.
Eppure, diciamolo subito e chiaramente, la volontà fine a sé stessa, quando sganciata dalle condizioni oggettive, dall’osservazione reale del campo, è buona per gli idealisti e gli ingenui e, salvo gran botte di culo, ha come meta finale il disastro. La nobile parabola di Spartaco si schianta in caduta libera contro il cemento duro e indifferente del rapporto di forza.
La volontà, il coraggio, sono elementi fondamentali, necessari; ma non bastano da soli, quel che fa la differenza sono il metodo e lo sguardo: solo chi osserva il nemico e sé stesso può vincere cento battaglie diceva, più o meno, quel tizio cinese che leggono tutti e che quasi nessuno capisce.
Volontà, azione, metodo. La malta con cui nel corso di quasi due secoli si è costruita la figura del militante, il professionista della rivoluzione.
Ma chi è il militante, cosa e come pensa e agisce il militante è una domanda cui si gira intorno ormai da un po’, che riaffiora puntualmente in una realtà in cui progettualità ed esperienza politica stentano a trovare ossigeno, in cui le vecchie lenti fanno più che fatica a leggere il testo del presente e ci si interroga su qualcosa che è profondo, scomodo e difficoltoso, perchè chiama in causa il senso ultimo di storie personali e collettive. E d’altronde è una di quelle domande la cui risposta non si trova cercando su Google, né la si disegna a tavolino. Un militante non lo si crea per decreto, è una creatura strettamente incastonata nella prassi e nel tempo.
Una crisi della militanza cui si è risposto spesso sostituendo alla prassi politica l’attivismo spicciolo, al progetto collettivo il protagonismo individuale, alla disciplina collettiva il conformismo comunitario. Una praxis che si dice antagonista e si trova figlia di una pessima educazione liberale.
Riprendere in mano quindi il nodo della formazione militante, una formazione al metodo di pensiero e di azione, è una tappa obbligata per superare una impasse storica che si va approfondendo sempre di più.
Una proposta ben strutturata in questo senso è quella de Il treno contro la Storia recentemente ristampato da DeriveApprodi in una collana, per l’appunto centrata sulla formazione.
Di che treno si parla? Di quello blindato, coperto di placche di acciaio, mitologie e maledizioni, che attraversa la tragedia della Grande Guerra e approda al centro della Russia zarista per aprire le porte, di lì a poco, al grande diluvio operaio.
Questo il punto centrale, Lenin, pietra miliare che articola sulla base dell’analisi marxiana gli elementi della prassi e della volontà per piegare l’evento e far deragliare i binari di un progresso storico presunto lineare. È qui che ha origine la figura del militante come rivoluzionario di professione: non burocrate stipendiato come vuole la vulgata ma specialista della disciplina-rivoluzione, che coniuga sapere materialista con pratica organizzativa e agitativa. Né intellettuale né manovalanza; livello intermedio dove teoria e prassi restano in stretto contatto e procedono in un movimento a spirale in cui costantemente l’una informa l’altra e viceversa. Un’ermeneutica della distruzione creatrice.
Da questo punto focale si muove Roggero, triangolando il problema della militanza tra Marx, Lenin ed operaismo italiano, o meglio, dato che si tratta di assumere e trasformare categorie di pensiero e non di fare l’apologia dei nostri supereroi, tra principio marxista del materialismo storico, lezione politica leniniana e lascito del punto di vista operaista.
Il punto di vista, altro nodo cui soffermarsi per uscire anche dal relativismo democratico che avvolge tante analisi, relativismo che si rifà all’interesse generale, che poi non è altro che agenda del nemico fatta senso comune. Il punto di vista, ovvero la capacità di cogliere i fenomeni con sguardo di parte, parziale o partigiano, che muove dalla propria appartenenza per cogliere la totalità dei rapporti, un punto di vista inchiestante nel senso che è perennemente attento a registrare ciò che l’ambiente mette sul piatto, i mutamenti e i movimenti carsici sporchi, rimestando l’acqua sporca alla ricerca del bambino. È quest’ottica che permette al militante di vivere osmoticamente la composizione di cui si vuole indirizzare il cammino, fuori dal cieco ideologismo autoreferenziale e compiaciuto. Perché anzitutto guardando al proprio campo di forza che si può cogliere il punto in cui si possono spezzare le fila nemiche.
Tornando alla domanda di cui sopra, chi è il militante? Il militante è colui che si mette in gioco totalmente nella distruzione di questo modo di produzione, che disciplina sé stesso nell’adesione ad un progetto radicale e fa sua l’arte regia della trasformazione della realtà con tutti gli arnesi del mestiere che ad essa appartengono, che porta lo scontro perennemente con sé, fin dentro sé, non riconoscendo distinzione tra spazio della politica, spazio del lavoro e tempo libero. Perché la massima “il personale è politico” ha senso solo nella misura in cui si porta il conflitto e la trasformazione al fondo anche della propria soggettività (sicuramente non nel senso che qualunque paturnia esistenziale può essere tinta di politico).
Ci piace pensare, in questi tempi senza spina dorsale, che il militante sia, o per lo meno possa essere, il corpo nuovo in cui batte un cuore antico, quello di un drammatico spettro generato nel secolo delle guerre civili, che ancora allunga le sue mani nel presente, e di cui c’è disperato bisogno per dinamitare la linea ferrata del progresso, farne deragliare la sua Storia.
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