Una speranza divenuta realtà
di Gigi Roggero (Il Manifesto)
Negli ultimi anni lo straordinario movimento che in Val di Susa si oppone alla costruzione del Tav è penetrato nell’ingordo mercato editoriale, con testi che ne spiegano le ragioni da diversi punti di vista (tecnico o morale, legandole alle battaglie per la difesa dei beni comuni o contro la corruzione). Diverso è il discorso di A sarà düra. Storie di vita e di militanza no tav del Centro sociale Askatasuna (DeriveApprodi, pp. 319, euro 18), perché non è un libro sul movimento, ma dentro il movimento. Non vuole semplicemente raccontare, quanto invece aprire un campo di riflessione sui percorsi intrapresi e sul che fare. Non un volume da conservare in biblioteca, bensì un arnese da utilizzare per la costruzione dei conflitti, in Val di Susa e altrove. Per dirla in una parola, realizzata nel suo preciso significato: è una conricerca, quindi come tale inconclusa, perché a differenza dell’inchiesta sociologica si colloca dentro un processo, di cui è al contempo spazio di analisi e motore organizzativo. Non è per semplice riconoscimento che il libro è dedicato a Romano Alquati: i suoi insegnamenti sono infatti esplicitamente richiamati e resi produttivi.
Genealogia di un movimento
Per dare conto della complessità di questo processo, il libro si struttura attraverso differenti livelli di lettura: un modello metodologico, estremamente utile per fissare concetti, punto di vista e cassetta degli attrezzi politica; le interviste a uomini e donne che, nella loro diversità – militanti di centri sociali, attivisti provenienti da precedenti percorsi di movimento, sindacali o fuoriusciti da partiti, figure che hanno avuto qui la loro prima esperienza, tecnici che hanno messo le loro competenze al servizio della battaglia contro il Tav -, compongono il quadro della partecipazione; un’accurata analisi delle interviste che illustra – senza nessun accento enfatico o apologetico – la formazione di una soggettività collettiva. Nelle conclusioni, significativamente titolate «conflitti a venire», il progetto è rilanciato in avanti: la creazione di un sito (www.saradura.it) serve non solo per aggiornare i materiali, ma per estendere la ricerca oltre la Val di Susa, interpellando le lotte a partire dai punti di avanzamento che il movimento No Tav ha determinato.
Senza entrare nel dettaglio delle singole parti, vale la pena concentrare l’attenzione su almeno quattro dei vari nodi che emergono dal volume. Il primo riguarda la forma-movimento. Spesso in Italia tendiamo a darne per scontata l’esistenza, facendola coincidere con le strutture organizzate. Il libro traccia invece la genealogia di un movimento reale, individuandone la materialità del contesto, i soggetti, cioè il chi e il cosa lo anima, il suo processo di formazione e sviluppo, i mezzi e le capacità in grado di costruire, i fini a esso immanenti. Non c’è qui spazio, si sottolinea nelle interviste, per forzature identitarie o narcisistiche, per velleità ribellistiche o protagonismi individuali: il comune si incarna in queste pagine come cooperazione antagonista e forma organizzativa. «Storie di vita e di militanza», dunque, perché la militanza ha trasformato le forme di vita. O per dirla in altri termini, la militanza è diventata una forma di vita per tante persone prima consegnate alla solitudine del lavoro e della socialità coatta di paese.
Il secondo nodo riguarda il rapporto tra spontaneità e organizzazione. Nessuna contrapposizione e dicotomia, al contrario – spiegano molti intervistati – la spontaneità è sempre organizzata, così come l’organizzazione vive dentro l’espressione di spontaneità. Solo in questa tensione la politica non diventa ceto politico, cioè separatezza e rappresentanza. L’organizzazione, dice un militante, «deve essere in grado di trasformare in azione la volontà collettiva». La militanza è, precisamente, lo spazio della combinazione tra spontaneità e organizzazione, partecipazione e progetto, rifiuto e programma, evento e continuità.
Intrecciato agli altri due, vi è il nodo del rapporto tra processo destituente e processo costituente. Diciamo anche che, tra molte altre ragioni, il libro è importante perché demolisce quella mitologia dominante a sinistra di un apparato repressivo totalitario, che si risolve in un appello all’impossibilità del conflitto e dunque all’inazione. Nella sproporzione di forze, si sostiene nelle interviste, non avrebbe senso impostare la lotta in termini militari: a risultare vincente è piuttosto una «strategia del logoramento». Così, la violenza delle misure repressive e di controllo adottate contro il movimento No Tav, lungi dal determinare un ripiegamento vittimistico, sono invece direttamente proporzionali alla loro inefficacia. «Non siamo noi a cercare lo scontro con la polizia, sono loro». Così avviene anche rispetto alla comunicazione: le pratiche di invenzione del movimento hanno sconfitto «una governance mediale di stampo ancora berlusconiano» (si legga a questo proposito la preziosa intervista al collettivo Infofreeflow). Insomma, la contrapposizione alle istituzioni rappresentative è un elemento pratico, non ideologico: la destrutturazione delle prime si accompagna sempre alla creazione di istituzionalità autonoma, è nella rottura che sorge la Libera Repubblica della Maddalena. È cioè il movimento a scegliere la propria agenda, costringendo perfino molte istituzioni locali e suoi rappresentanti a seguirlo e mettersi al suo servizio.
Andare oltre la dicotomia tra spontaneità e organizzazione ci porta infine al nodo della composizione di classe, termine ripreso dalla cassetta degli attrezzi operaista. Siamo qui di fronte a un aspetto cruciale e da approfondire: composizione tecnica e politica non vivono infatti in sfere separate, ma si determinano sempre all’interno di un rapporto sociale. La soggettività delle lotte si produce nella loro tensione e trasformazione. Su questo aspetto è importante sviluppare l’inchiesta.
Generalizzare la Val di Susa
Il libro non vuole presentare il movimento No Tav come una ricetta. Vengono messe in evidenza le specificità del contesto, la Val di Susa, con le sue peculiari caratteristiche storiche e sociali, dal secondo dopoguerra legate alla città-fabbrica e poi dello spazio metropolitano torinese. Si insiste sul fatto che il No Tav non è un movimento contro il progresso e lo sviluppo, ma per un progresso e uno sviluppo radicalmente differenti e antagonisti a quelli disegnati dal capitalismo – potremmo anche dire alternativi, se questa parola non fosse stata inquinata da una vuota genericità. Ma questo passaggio non era scontato: il No Tav l’ha conquistato trasformando discorso e pratica politica, uscendo dai confini della Val di Susa per generalizzarsi dentro la crisi, divenendo cioè un movimento contro le politiche di austerity, l’impoverimento e il peggioramento delle condizioni di vita. Più volte definito l’occupy italiano, al di là della suggestione è un fatto che il No Tav abbia posto con la potenza delle lotte il problema della ricomposizione. In mancanza di ciò il movimento, nella sua formidabile capacità di resistenza e forza inventiva, rischia di restare isolato. «Non si può vincere da soli»: come fare la Val di Susa nelle metropoli, ecco l’interrogativo e il compito politico che qui si impongono con urgenza.
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