Governo Letta, né destra, né sinistra: di classe
Il non-eletto Letta-Alfano ha allontanato quel che rimaneva del Pd da tutti i ministeri importanti: Esteri, Interni, Giustizia, Difesa, Economia, Lavoro, per affidarli alla destra, quasi a umiliare ancora una volta gli elettori Piddini che si ostinano a perdonare. “I contenuti della lettera di Draghi e Trichet rappresentano la base su cui impostare politiche per far uscire l’Italia dalla crisi. Qualunque governo succederà al governo Berlusconi dovrà ripartire dai contenuti di quella lettera”, dichiarava Letta nel 2011. E così, se buoni principi pagano, ecco oggi alla guida del paese un governo saldamente ispirato a quell’idea di austerità che le elezioni hanno bocciato e che, come ricordava Krugman due giorni fa sul New York Times, è non solo socialmente letale ma anche interamente screditata.
Mentre tutto il mondo critica l’errata codifica dei dati nel foglio excel del paper di Reinhart e Rogoff, infatti, e la regola per cui, “i tassi di crescita mediana per i paesi con debito pubblico superiore al 90% del Pil sono all’incirca dell’1% più bassi di una situazione diversa da questa”, il governo Letta sceglie di ispirarsi proprio ai loro errori. Ecco allora il neo-ministro dell’economia Saccomanni, che nel 2011 dichiarava: “le misure di austerity più che causare una recessione, spingeranno la crescita attraverso una riduzione dei tassi di interesse in tutti i settori dell’economia”. E Enrico Giovannini, che qualche giorno fa, ospite a Ballarò, aveva il coraggio di sostenere che “il pareggio strutturale di bilancio è l’unico modo di proteggere il risparmio degli Italiani” – stiamo parlando del Presidente dell’Istat, uno che i dati reali li ha.
Si è parlato con scandalo del novello inciucio tra Pd e Pdl, e molte allusioni sono state fatte alla composizione ambigua del M5S. Ma il punto non è solo, in entrambi i casi, la confluenza d’interessi tra destra e sinistra. Il punto è che la sovrapposizione tra destra e sinistra tanto nel Pd-L quanto nel M5S rivela una dirimente diseguaglianza sociale e contrapposizione tra le classi: in un certo senso possiamo dire che Pd-L da un lato e M5S dall’altro riflettono una divisione politica tra creditori e debitori, tra chi fa proprie le finalità del Fiscal Compact e chi vuole l’abolizione di Equitalia, tra chi dall’austerità guadagna e chi non ha che da perderne. L’austerità è la politica dell’1%, scriveva Krugman sul New York Times. E dunque, se anche nessuno (a parte Grillo) ha il coraggio di parlarne, il vero scandalo di questo governo non è solo l’inciucio, è la strumentalità dell’inciucio all’austerità, al solo scopo di difenderla, il clientarismo che connette come un filo rosso l’ossequio al Fiscal Compact e le parole della Finocchiaro: «non so che cosa vogliano questi signori», riferendosi agli elettori. Che cosa ci sia da attendersi, dunque, è chiaro.
Già il mese scorso, il Ministro Giarda aveva prospettato i prossimi interventi relativamente alla spesa pubblica. Si tratta di cifre da capogiro, tagli per 135,6 miliardi di euro per beni e servizi, 122,1 miliardi di retribuzioni, 24,1 di trasferimenti alle imprese e contributi alla produzione, 13,2 di contributi alle famiglie e alle istituzioni sociali, tutto entro il 2014. Come ammette anche Giovannini, si tratta di interventi a tutti gli effetti negativi, che non lasciano molto scampo all’avvitamento del debito. Gli elettori del Pd continuino, dunque, a disquisire sui pregi e le virtù di ogni ministro animati di vorace speranza, e tentino di discernere se sia meglio questo o quest’altro. Nel frattempo, diceva Warren Buffett, “la guerra di classe esiste e l’abbiamo vinta noi”.
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