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La frontiera elettronica che vive nel mondo sommerso

 

Del deep web, ovvero di quella porzione di Internet invisibile ai motori di ricerca, si sa poco o nulla. Eppure si tratta di un territorio elettronico sconfinato, la cui estensione è di gran lunga superiore rispetto a quella che circoscrive i domini delle major della rete. Sotto il pelo delle acque calme, dove galleggiano placide le grandi piattaforme di comunicazione commerciale, si nasconde infatti un abisso vertiginoso di ecosistemi informativi popolati da mercanti, corsari, avventurieri, banditi, hacker, truffatori di ogni risma e calibro.

Avventurarsi lungo questi immensi fondali non significa però solamente lanciarsi alla scoperta di luoghi affascinanti, selvaggi e irriducibili al comando dei signori della Silcon Valley: vuol dire anche, e sopratutto, misurarsi con le diverse tecno-culture che li attraversano e trovano la loro comune radice in quello spirito libertario che animava l’Internet delle origini.

Ecco perché Deep Web. La rete oltre Google (Quintadicopertina, 161 pp. 3,99 €) l’ultimo e-book di Carola Frediani, non è solo un’accurata inchiesta giornalistica sul campo che racconta le storie dell’Internet sommersa. Certo, il lettore sfogliandone le pagine avrà modo di comprendere i meccanismi dei cosiddetti black market, quelle piazze di scambio virtuali dove vengono trafficate illegalmente merci di ogni tipo (droga, armi, beni contraffatti e sopratutto informazioni)pagate in Bitcoin sonanti; verrà messo a conoscenza della guerra senza quartiere condotta contro di essi – con metodi investigativi per altroa loro volta illegali – dalle autorità federali statunitensi; scoprirà i principi tecnici minimi soggiacenti al funzionamento di network e circuiti di comunicazione anonima (come Tor o Freenet).

Ma il vero punto di forza di questo libro non risiede solo nella meticolosità(cui pure l’autrice ci ha già abituati in passato) con la quale sono ricostruitigli ultimi episodi dell’epopea di Anonymous o la vicenda di Silk Road (il più grosso mercato nero del deep web, chiuso da un raid dell’FBI nel settembre del 2013). A renderlo davvero prezioso è la sinfonia di voci, acida e sincopata,in cui si intrecciano i racconti dei protagonisti, intervistati dalla giornalista genovese in un‘interminabile serie di sessioni di chat cifrate. Ascoltandone con attenzione le note, il lettore più accorto non potrà che trarre preziosi spunti di riflessione in merito all’ambiguità di cui si è nutrito l’immaginario della rete con la sua promessa di libertà: sempre in bilico tra il sogno di una nuova frontiera ingovernabile e la realizzazione di inedite forme di impresa e sfruttamento.

 

La profezia del cypherpunk

Libertà. Che cosa significa questa parola nel cyberspazio profondo, là dove la razionalità di Mountain View non ha ancora attecchito? Posti di fronte al quesito, Dread Pirate Roberts (pseudonimo collettivo dietro cui si nascondono i trafficanti dei mercati neri on-line) o un hacktivista di Anonymous risponderebbero probabilmente così: «Libertà significa potersi muovere in uno spazio anonimo dove gli atomi non sono alla mercé dei colossi e le leggi fisiche della crittografia mettono l’individuo al riparo dalla coercizione e dalla violenza statale». Ed è lecito ritenere che non siano certo gli unici a pensarla in questo modo se è vero, come sostiene Carola Frediani, che «c’è un filo rosso che lega Anonymous, Wikileaks, The Pirate Bay, Bitcoin, la comunità crypto e gli attivisti pro-privacy».

Non ci si faccia però ingannare. Nonostante i soggetti summenzionati siano accomunati da un’identità di vedute che affonda le sue radici nella «profezia dark del cypherpunk», c’è da dubitare che condividano il medesimo orizzonte politico. In Italia per esempio gli hacker nascosti dietro la maschera di Guy Fawkes hanno ormai esplicitamente fatto proprie battaglie e contenuti riconducibili all’antagonismo sociale: in più di un’occasione si sono dimostrati solidali con il movimento No Tav, tanto da esserne considerati parte integrante; il 19 ottobre 2013 hanno assediato virtualmente i portali web di alcuni ministeri romani, di concerto con le manifestazioni anti austerity che attraversavano le vie della capitale; nel febbraio scorso, a finire nel loro mirino sono stati i server della Granarolo, oscurati da un attacco condotto per esprimere vicinanza alle lotte dei facchini articolatesi nell’ultimo anno sul territorio bolognese.

Rampa di lancio di tutte queste incursioni è stato proprio il deep web, un rifugio ideale cui fare ritorno al termine di ogni operazione. Perché ideale? Perché la sua architettura distribuita, anonima e decentralizzata mette al riparo dallo sguardo indiscreto di Stato e forze di polizia. Ebbene, ciò che emerge dal libro è che questo è stato anche il motivo che ha spinto Ross Ulbricht (arrestato dalle autorità federali statunitensi con l’accusa di essere il fondatore di Silk Road) a fondare il suo impero economico nelle profondità dell’internet nascosta. L’anti-statalismo del giovane texano è però tutt’altro paio di maniche rispetto a quello professato dai “cugini” di Anonymous: non solo è privo di qualsiasi venatura antagonista, ma si contraddistingue per una marcata inclinazione anarco-capitalista. La libertà dei black market infatti si realizza esclusivamente in termini di scambi economici: decentralizzazione e anonimato sono sinonimi di una deregolamentazione necessaria alla creazione di un mercato “buono per natura”, privo cioè di qualsiasi forma di interferenza esterna. Tasse comprese, ovviamente.

È all’insegna di questa polisemica “libertà” che nel deep web è prosperato un florilegio di shop, piccole imprese ed esercizi commerciali a gestione familiare, la cui conduzione è nelle mani di personaggi dalle fattezze evanescenti: ex white hat (ovvero hacker etici il cui incarico è garantire la sicurezza informatica di aziende private ed enti pubblici) passati dall’altra parte della barricata che, indossato il cappello nero, fanno razzia di numeri di carte di credito da rivendere al miglior offerente; ricercatori di security mal stipendiati che per arrotondare a fine mese commerciano in malware e virus; impiegati, stanchi di passare otto ore al giorno dietro la scrivania, che lasciano il posto di lavoro e si reinventano come piccoli spacciatori di sostanze stupefacenti.

 

Una zona impenetrabile

Quella del deep web è insomma una composizione cromatica eterogenea, di cui Carola Frediani ci restituisce sia le tonalità più nitide che quelle più sfumate, attraverso una serie di istantanee scattate in presa diretta. Ciò che colpisce, sfogliando l’e-book su tablet, è il fil rouge che si dipana tra i vari capitoli. Nelle parole di quasi tutti gli intervistati riecheggia infatti il mito della frontiera, lo stesso che caratterizzava l’Internet dei primordi e che oggi apparterrebbe a questa vasta zona della rete impenetrabile allo sguardo di Google. Riemerge in essa, a quasi 20 anni di distanza dalla “Dichiarazione d’indipendenza del cyberspazio” siglata da J.P.Barlow, la visione di una nuova epoca inscritta nella promessa di una tecnologia salvifica, capace di scardinare i meccanismi opachi di intermediazione burocratica che impedirebbero alle forze sociali e al mercato di dispiegarsi completamente. Una promessa di cui, nel web 2.0, non resta che il ricordo, sbiaditosi con la progressiva affermazione di nuove ingombranti tecno-burocrazie, diventate player egemoni nei processi globali di comunicazione sociale (Big G su tutte).

Sorge quindi spontanea una domanda: sarà forse il deep web il nuovo territorio di conquista dell’irresistibile “distruzione creatrice” del capitalismo? Difficile dare una risposta, ma certo questo libro offre una serie di materiali grezzi che potranno essere saranno utili nella stesura di ulteriori e più approfondite analisi.

 

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