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Le ultime cagate di Luca Casarini

Ognuno può esprimere fino in fondo le proprie opinioni, ma risulta ostico pensare che proprio chi proviene dalle sue esperienze possa parlare degli scontri alla May Day, tanto meno se come rivolta “finta” e “iperspettacolare”. Fermo restando che tanto le manifestazioni “pacifiche e colorate” quanto gli scontri e i riot sono interni a un meccanismo di riproduzione mediatica che non è neutro, né può essere evitato (e che in entrambi i casi questo piano è tanto tenuto in considerazione da molti dei protagonisti quanto potenzialmente rischioso se vissuto in maniera acritica), è davvero ridicolo che a bacchettare i manifestanti di oggi sia chi ha sempre basato le sue iniziative sulla creazione di kermesse buone soltanto per cameraman e fotografi, di movide della protesta concordate, oltre che con la stampa, anche con Digos e questure di mezza Italia. Era quello il piano del conflitto reale e non mimato, che si ribellava alle tentacolari catene della sussunzione spettacolare? Mah…

Poco ci sarebbe da commentare, ovviamente, se non fosse che chi rilascia tali dichiarazioni ha per anni parlato a nome dei movimenti ed esercitato un ruolo (spesso non richiesto) di presa di parola pubblica in nome degli stessi, oltre ad aver ricoperto ruoli organizzativi non secondari nel molto variegato mondo dei centri sociali. Ora che, con il passare degli anni e un po’ di comprensibile infiacchimento, l’opinionista veneto ha scelto la strada più che prevedibile dei partiti e delle poltrone (siano esse quelle dei talk-show o di qualche istituzione vattelapesca), il nostro tiene a sottolineare che le vere rivolte sono quelle “di Baltimora, degli Indignados spagnoli o di Rosarno”; che gli piacciono anzitutto perché, come sempre in questi casi, sono altrove nello spazio e nel tempo, fermo restando che nessuno ha mai preteso di assimilare i momenti di protesta e conflitto gli uni agli altri (benché accostarli e leggere certe tendenze non solo è interessante, ma necessario per produrre letture che sappiano forzare in avanti i tratti di un momento storico e creare scenari che possano comunicare solidarietà e spinta verso un desiderio comune).

Non immaginiamo, in ogni caso, Casarini a Baltimora, se non per propinare in mezzo alla rabbia e al fuoco qualche amenità sul bilancio partecipato o sulla necessità di “riappropriarsi dei nessi amministrativi” piazzando qualche assessore; né avrebbe mai avuto luogo la sollevazione di Rosarno, se in mezzo ai migranti iper-sfruttati del paesino calabrese avesse avuto voce in capitolo un simile, raffinato, super-scafato professionista del pompieraggio. Non è tutto: Casarini tira in mezzo anche la Val Susa, che è cosa totalmente altra rispetto alla May Day NoExpo, perché là c’è “un movimento di popolo”, mentre a Milano abbiamo visto soltanto “una azione identitaria e ideologica che non prende in considerazione le conseguenze”. Sarà, ma se il movimento No Tav è diventato ciò che è stato, è stato soltanto grazie a una visione concreta e reale della contrapposizione a una controparte, al rifiuto delle modalità della politica istituzionale di delega e di partito, alla costruzione di un comune che non si cita dai libri ma si costruisce anche praticando il conflitto nei boschi e nelle città. Ma per chi non vuole sentire…

Il problema che Casarini dovrebbe porsi è – proponiamo in punta di piedi una riflessione – perché l’Italia eredita dalla stagione in cui lui e molti suoi simili hanno avuto qualche influenza una situazione in cui ci si approssima a una scadenza condivisa da tutte e tutti frazionati in mille conventicole e mille partitini centro-socialisti, in cui la propria struttura di “movimento” è più importante dei sogni e dei bisogni comuni, in cui i ragazzi più giovani vengono imbruttiti dai propri capoccia se provano una tentazione per una rabbia che sia reale, per un rifiuto che faccia seguire alle parole ai fatti, per decisioni che facciano seguire ai discorsi l’azione. Uno scenario (è stato quello del primo maggio) dove anche il rifiuto attivo della zona rossa avrebbe avuto impatto ben diverso, e avrebbe più facilmente evitato certe distorsioni/distrazioni, se migliaia di ragazzi e giovani precari, divisi da cordoni spezzoni camion furgoni e chi più ne ha più ne metta (leggi: da una pluralità di organizzazioni unite, purtroppo, nell’accettazione di una compatibilità di sostanza), fossero stati liberi di unire la propria rabbia verso un obiettivo comune.

 

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