Lo Stato razziale e l’autonomia dei movimenti decoloniali
Un’intervista a Houria Bouteldja e Louisa Yousfi del settembre 2023
Riproponiamo questa intervista pubblicata originariamente su Machina in vista dell’incontro di presentazione del libro “Maranza di tutto il mondo unitevi. Per un’alleanza dei barbari nelle periferie” di Houria Bouteldja, tradotto in italiano da DeriveApprodi, che si terrà presso l’Università di Torino.
Il titolo originale è “Beaufs et barbares. Le pari du nous”, un titolo che vuole lanciare una scommessa su un’ipotesi di ricomposizione tra soggetti tra loro polarizzati, i beaufs (bifolchi) da una parte e i barbares (barbari) dall’altra, ma contestualmente appartenenti alla classe proletaria, divisa sulla linea della razza. Questa ipotesi vorrebbe costituire la proposta per contrastare ciò che viene definito dall’autrice lo “Stato integrale razziale”.
L’interesse di un approfondimento sul tema dell’antirazzismo politico e dei movimenti decoloniali assume una particolare centralità oggi, alla luce delle recenti mobilitazioni a sostegno della causa palestinese. Allargare lo sguardo a un patrimonio esistente di ragionamento e dibattito aperto in una Francia vicina ma lontana per specificità, storia e contesto sociale e politico può essere una chiave di interpretazione della realtà che viviamo in quanto soggetti che si pongono l’ambizione di potenziare processi di movimento e di conflittualità.
In questa intervista, abbiamo ripercorso alcuni dei temi centrali affrontati nei volumi, a partire dal concetto di «Stato integrale razziale» di Bouteldja. Per iniziare, le abbiamo chiesto di spiegarcene la genesi e l’uso politico che ne propone.
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Houria Bouteldja: Riprendo da Gramsci l’idea di «Stato integrale» e lo arricchisco con il concetto di razza. Gramsci ha dato una definizione di Stato che non è limitata all’apparato istituzionale ma permette di spiegare in che modo la borghesia, che domina lo Stato, riesce a mantenere la propria posizione di potere nel tempo e nello spazio. Con questo concetto Gramsci ci dice che lo Stato non è solo le sue istituzioni, il suo esercito, la sua polizia e la sua amministrazione ma è fatto anche dalle sue organizzazioni politiche, comprese quelle che si oppongono alla borghesia, e dalla società civile. Questo concetto mi sembra molto utile per definire il razzismo. Ci permette di dire che il razzismo non è solo una questione istituzionale, non è solo un prodotto dello Stato e delle sue istituzioni, ma trova anche la collaborazione della società politica e della società civile: ogni attore trova il proprio tornaconto nella produzione del razzismo e quindi contribuisce a produrlo. Per me lo «Stato integrale razziale» è un modo per spiegare perché il razzismo è perenne, perché funziona e perché è strutturale e per questo difficile da combattere. Nelle società in cui viviamo, tutto e quindi anche il modo in cui la polizia è presente e reprime le rivolte nelle banlieue, è in rapporto con lo «Stato integrale razziale» o quanto meno con una fase della sua storia sociale, con una precisa fase dello sviluppo e della mutazione del capitale in Francia.
A differenza di altri, come per esempio Badiou, ritengo che il capitalismo occidentale sia in crisi. È un capitalismo ultra-liberale che non può che esprimersi come crisi. Non può fare a meno di essere ultra-liberale e per questo è costretto a sacrificare le classi popolari bianche, che perdono potere d’acquisto, vengono declassate e fanno venir meno il loro consenso per le élite al potere. Il risultato è una situazione di crisi della democrazia e forti esplosioni di collera e mobilitazioni. I «Gilets Jaunes» e gli altri movimenti sociali degli ultimi anni ne sono l’espressione. Ma le classi popolari bianche non sono le uniche a essere sacrificate, ci sono anche gli indigeni, i non-bianchi, che vivono il declassamento in maniera, oserei dire, naturale. Queste sono le classi che maggiormente soffrono la mancanza di potere politico e di rappresentanza istituzionale. E poiché il razzismo è sempre più forte – perché il potere ha bisogno di un livello molto alto di razzismo tra i petits blancs[1] – le discriminazioni sono sempre maggiori e lo Stato è portato a reprimere le classi indigene in modo sempre più duro. A un certo punto la situazione esplode. Lo «Stato razziale integrale» demonizza e reprime qualsiasi forma di politicizzazione delle classi indigene e dei non-bianchi e l’esplosione di rabbia rimane l’unica possibilità. È dal 2005 che non avevamo rivolte così possenti e forti, ce ne sono state delle altre ma non così intense, e in questi diciotto anni il potere non ha mai smesso di reprimere i non-bianchi, in un modo o nell’altro. Durante il periodo degli attentati (terroristici, ndr) la repressione dei non-bianchi e dei musulmani in particolare è raddoppiata. Tutto questo crea una situazione di forte tensione che prima o poi deve esplodere. Noi lo sapevamo. Ce lo aspettavamo, perché non c’erano altri canali attraverso i quali poter esprimere la collera.
Nel rapporto tra lo «Stato razziale integrale» e gli indigeni, Bouteldja individua due tendenze: il razzismo esplicito delle destre e l’umanesimo paternalista della sinistra che vuole integrare l’indigeno per umanizzarlo. Yousfi, da parte sua, ha largamente evidenziato come l’integrazionismo sia il problema e non la soluzione. Nel suo libro, «restare barbari» è «una formula magica», una «boccata di aria fresca!». Le abbiamo chiesto cosa questo vuol dire nel contesto delle recenti rivolte nelle banlieue.
Louisa Yousfi: Nelle banlieue il tema della «barbarie» assume una maggiore rilevanza perché i giovani rivoltosi, in genere uomini dei quartieri popolari che provengono da esperienze di immigrazione, sono considerati, dall’intero dispositivo statale francese, i veri barbari. Quando dico dispositivo statale intendo anche tutte le forze politiche, comprese quelle di sinistra. Questa parte della popolazione è allo stesso tempo stigmatizzata dai razzisti tout court e fatta oggetto degli slanci di civilizzazione della sinistra che, per restare al tema delle rivolte, ritiene che ci siano dei modi di lottare più legittimi di altri. Nella missione di civilizzazione del discorso della sinistra, questi giovani assumono comportamenti che sono in fondo controproducenti perché non è distruggendo tutto che si fa politica; ci sarebbero pure delle rivendicazioni che potrebbero essere considerate ma la scelta della violenza non facilita il compito, non possiamo che reprimerle. Bisogna invece dire che questa violenza è inevitabile, perché è una forma di resistenza. È una violenza che resiste a un’altra violenza che è sistemica e che ha fondamento nel vero potere. Semmai la violenza dei rivoltosi è l’espressione di un’impotenza perché tutte le altre strade per la resistenza sono bloccate. In Francia tutti i partiti politici sono assolutamente allineati nel sabotare l’autonomia politica dei quartieri indigeni o nel metterla sotto tutela. Insieme a ciò è aumentato il degrado dei quartieri popolari, sia per la nota presenza della polizia sia anche per questioni di ordine sociale che noi interpretiamo come questioni razziali: discriminazioni sociali che sono a tutti gli effetti forme di razzismo. Lo Stato si accanisce contro questi «barbari» che non hanno alcuna possibilità di organizzarsi politicamente per rispondere alla sua violenza. Nel 2005, per tornare a quello che evocava Houria quando parlava di «patto razziale», la sinistra era prevalentemente per la repressione delle rivolte, stava dalla parte della violenza di Stato, del discorso razzista e della missione di civilizzazione. Quest’anno la missione di civilizzazione del discorso della sinistra si è espresso con una nuova prospettiva, che segue il #metoo. Ci sono state donne di sinistra e femministe, penso per esempio a Sandrine Rousseau della sinistra riformista ed ecologista, che hanno visto le rivolte come un’occasione di esibizione della violenza maschile, come se quello con cui abbiamo a che fare fosse un problema di genere poiché si sono scontrati degli uomini, i rivoltosi, contro altri uomini, i poliziotti. Per queste esponenti politiche e per qualche altra ricercatrice in scienze sociali si tratterebbe di un ciclo di violenza legato al genere. È indecente affermare queste cose in una situazione come quella che viviamo tutti i giorni, quando un giovane ragazzo è morto, andando ad allungare la lista dei morti per mano della polizia: tredici in un anno, al 99% uomini neri o arabi. Di fronte a tutto ciò l’unica cosa che le femministe sono in grado di dire è che c’è un problema di virilità, che pone la necessità di educare questi giovani uomini ad altre forme di espressione della collera. Questo è un modo per cancellare la questione razziale e per assimilare il problema delle rivolte a un’agenda progressista e femminista. Per di più negando qualcosa che oggi è nuovo ed è il risultato delle lotte antirazziste di questi anni: un esercito di donne che provengono da esperienze d’immigrazione, militanti e figure pubbliche, che hanno solidarizzato senza nessuna riserva con i rivoltosi.
Barbari e bifolchi è, nella traduzione italiana, il suggestivo titolo del libro di Bouteldja che allude alla composizione politica delle classi popolari bianche e indigene contro lo «Stato integrale razziale». È un soggetto tutto da costruire, «una chimera», scrive nell’introduzione al volume. Alla luce dei conflitti sociale degli ultimi anni in Francia, del declassamento dei ceti medi e della perdita di consenso delle forze politiche di cui già ci hanno parlato, abbiamo chiesto alle due studiose decoloniali se Beaufs et barbares possa diventare qualcosa di più di una suggestiva allusione ed eventualmente a quali condizioni.
L. Y.: A questa domanda deve rispondere soprattutto Houria perché la questione dell’alleanza è il nocciolo del suo ultimo libro. Io voglio dire che bisogna prima di tutto considerare la fase generale nella quale si danno queste rivolte. Da qualche anno siamo in piena effervescenza sociale, ci sono movimenti sociali ampissimi che si sono radicalizzati,. Tutta la società civile francese è stata coinvolta e si è radicalizzata, il disconoscimento del governo è al suo parossismo. Durante questi movimenti, soprattutto con quello dei «Gilets Jaunes», la questione che tornava di continuo era: perché i quartieri popolari non sono presenti? Perché non raggiungono le proteste, sarebbe l’occasione tanto attesa per fare alleanza, per una convergenza delle lotte. Allora dicevamo che in Francia esistono spazi-tempo che non si incontrano. Le mobilitazioni e le esperienze di resistenza nei quartieri popolari, soprattutto da parte dei musulmani, vanno a sbattere contro un muro, non riescono a infrangere il soffitto di cristallo, soprattutto a causa della sinistra che non riconosce le questioni legate alla razza o all’islamofobia ed è attraversata da forti conflitti e ambiguità interne che rimandano al patto razziale. Quello che oggi vediamo di nuovo rispetto al 2005, quando tutto l’arco politico ha fatto muro contro i rivoltosi, è che la sinistra riformista – parlo di France Insoumise, con dei deputati all’Assemblea nazionale – si è mostrata senza ambiguità solidale con le rivolte e ha condannato, come non avremmo mai potuto immaginare, le violenze della polizia. Ha finanche assunto un’agenda politica in qualche modo affine a quella portata avanti dai militanti antirazzisti decoloniali come noi, in un contesto in cui l’antirazzismo decoloniale è spesso stato il bersaglio degli attacchi politici anche di questa stessa sinistra.
Ciò che spiega questa inversione di marcia è la radicalizzazione dei movimenti sociali che nell’ultimo periodo in Francia hanno fatto esperienza dell’autoritarismo dello Stato, qualcosa che noi, gli indigeni della Repubblica, conosciamo da molto tempo. La repressione, che i «Gilet Jaunes» e il movimento contro la riforma delle pensioni hanno subito, ha creato dei punti di contatto tra i bianchi delle classi popolari e gli indigeni. D’altro canto, bisogna dire che questa nuova situazione è anche una nostra conquista poiché è il risultato di un nuovo rapporto di forza che i militanti decoloniali hanno saputo imporre. Oggi in Francia le questioni legate alla razza o alla violenza poliziesca sono inaggirabili e non possono essere nascoste sotto il tappeto come accadeva dieci o vent’anni fa. C’è quindi un orizzonte che si apre e consente di immaginare la costruzione di un «noi» ma non è qualcosa che si costruirà in modo naturale. Sappiamo molto bene che ci sono dei momenti, come questo, in cui una forza politica può essere interessata a posizionarsi favorevolmente su un punto per distinguersi dal blocco fascista che si sta costituendo – per loro è una scelta strategica interessata – per questo non è scontato che domani potrà continuare su quella strada. Sta a noi, militanti decoloniali, e ai movimenti dell’immigrazione di continuare a fare un lavoro politico autonomo capace di costruire rapporti di forza che costringano la sinistra a tale posizionamento e alleanze. Possiamo certamente prendere atto di un avanzamento ma non bisogna considerarlo acquisito una volta per tutte, dobbiamo continuare a lavorare per garantirlo e soprattutto non abbandonare mai la nostra autonomia, quella delle lotte antirazziste e dei quartieri popolari, perché è l’unico modo per riuscire ad avere un rapporto alla pari con la sinistra e costruire un blocco antirazzista capace di rompere il patto razziale.
H. B.: Come ha detto Louisa, nel 2005 la sinistra non stava dalla parte delle rivolte oggi una parte non trascurabile della sinistra riformista e radicale sostiene i rivoltosi. Si tratta di un piccolo cambiamento verso la costruzione di un «noi». Nel 2005 i petit blancs erano esplicitamente contro i rivoltosi e dalla parte della polizia, oggi sono «tendenzialmente» dal la parte della polizia. C’è stata un’evoluzione positiva perché ci sono stati i «Gilets Jaunes» e perché le rivolte, in un primo momento, hanno raccolto solidarietà e opinioni favorevoli. Tuttavia molto rapidamente la situazione è cambiate. Per dirla in maniera sintetica, c’è una sinistra che evolve positivamente e c’è il sentire del popolo che è molto più lento. Non ne siamo affatto stupiti, siamo invece molto stupiti di vedere una frazione della sinistra che affronta con lucidità una serie di questioni e questo non è male, ma non siamo affatto stupiti della lentezza con cui si sposta l’opinione popolare bianca. Non ne siamo stupiti perché se si capisce che cos’è lo Stato razziale integrale, si comprende che le classi popolari bianche e quelle non bianche sono costruite dentro un rapporto antagonista, sono costruite precisamente per non incontrarsi. Il risultato è un popolo bianco sempre ostile al mondo non bianco. Questo è il prodotto di secoli di razzializzazione dei rapporti sociali e soprattutto è il prodotto di uno Stato e della sua borghesia – qua non parlo dello Stato integrale razziale ma proprio dello Stato e della borghesia che ne è egemone – che hanno interesse a mantenere il più alto livello di razzismo tra i petits blancs per impedire qualsiasi tipo di convergenza delle lotte.
La costruzione del noi è molto problematica e complessa perché se sono bianca e penso ai miei interessi immediati non ho alcuna ragione oggettiva per voler costruire un «noi» con gli indigeni. Quello di cui ci dobbiamo renderci conto è che i bianchi, i petits blancs, i «bifolchi» delle classi popolari non hanno ben chiaro chi sono i loro principali nemici: è il blocco di potere capitalista che li opprime e li sfrutta oppure gli abitanti dei quartieri di periferia che sono più poveri di loro? La questione non è stata ancora risolta. Quindi il problema della costruzione del «noi», per me, non si risolverà aspettando un’evoluzione spontanea della coscienza bianca, al contrario può risolversi soltanto sotto la pressione di un vincolo superiore. Quale può essere questo vincolo non lo so, ma ciò può accadere solo quando il popolo bianco sarà convinto che il blocco di potere non ha solo l’obiettivo di sfruttarli ma anche di tradirli. C’è bisogno di questa convinzione. Il problema è che l’offerta politica dell’estrema destra è spesso più interessante di quella dell’estrema sinistra che offre di tutto tranne che sicurezza. Noi militanti decoloniali proponiamo l’anti-imperialismo, la fine del rapporto di sfruttamento nord-sud ma questo può essere inteso anche come la fine della dominazione del proletariato bianco. Quale bianco sarebbe così pazzo da assumere una prospettiva del genere? È impossibile. Ad esempio la fine dello Stato-nazione, l’apertura delle frontiere a un popolo che rivendica sicurezza non può che generare paura. Voglio dire che un programma di sinistra decoloniale non è capace di garantire ciò che i petits blancs chiedono sopratutto: la sicurezza, il mantenimento o miglioramento del loro livello di vita e la dignità.
È evidente che se i bisogni sociali dei petits blancs sono questi, l’estrema destra è in apparenza, a livello del discorso pubblico, più adatta a soddisfarli. Dico in apparenza perché non credo nella capacità dell’estrema destra di offrire un migliore livello di vita al popolo dei petit blanc, perché il potere bianco si sta consumando a livello globale. Al contrario credo nella sua capacità ultra demagogica di rispondere alle paure e alle angosce dei poveri. Mi sembra che ci troviamo in una specie di impasse perché bisognerebbe essere in grado di offrire ai petits blancs qualcosa che risponda alla loro angoscia esistenziale e contemporaneamente garantisca loro di poter continuare a vivere in maniera dignitosa in un mondo sempre più incerto, dove vediamo gli immigrati arrivare a fiumi in Europa, dove ci sono problemi ecologici, un mondo in crisi profonda. Oggi è molto difficile immaginare un progetto politico che sia desiderabile e al contempo possa concorrere con quello dell’estrema destra. Per me, che preferisco prendere le cose non in maniera diretta ma di riflesso, l’Europa rappresenta per i bianchi una fonte di angoscia, declassamento e disaffezione politica, per questo, mi sembra, che occorra andare verso un progetto che metta in questione l’Europa. Anche se lo Stato-nazione non ci piace bisogna considerare che l’Europa è una specie di super Stato-nazione, super liberale e anti democratico. Serve riconquistare una forza popolare che metta al centro la questione del potere: che cosa possiamo fare affinché il popolo trovi il suo potere di agire? Mi sembra che l’Europa rappresenti un ostacolo al potere di agire e di prendere decisioni del popolo. Per me ricostruire una convergenza popolare sulla base di una critica dell’Europa è una maniera indiretta di rispondere alle angosce popolari dei bianchi.
L. Y.: Vorrei tornare sul tema delle alleanze per aggiungere una cosa. Di recente alcuni importanti canali francesi di informazione hanno pubblicato una lista dei nomi dei rivoltosi arrestati. Sebbene l’iniziativa fosse con tutta evidenza mossa dall’intenzione di mostrare all’opinione pubblica che alle rivolte hanno partecipato gli arabi, cioè persone che hanno un problema con la Francia, che non sono completamente francesi. Questa volta, diversamente da altre occasioni non hanno nascosto che in questa lista oltre ai nomi arabi, c’erano anche altri nomi francesi, molti dei quali con una forte connotazione sociale, nel senso che sono nomi che rimandano al contesto sociale dei petits blancs. Non so cosa ne pensi Houria ma, per quanto possa essere stata una mossa per rispondere alle accuse delle destra, questa lista sembra restituirci una qualche rappresentazione di un’alleanza tra «bifolchi» e «barbari». Ѐ una cosa che non possiamo verificare ma potrebbe essere l’indizio di un processo che va in questa direzione.
H. B.: Sì, bisogna però fare attenzione, perché molti nomi francesi potrebbero appartenere ai Neri. È difficile stabilire quale sia stata la partecipazione dei bianchi in queste rivolte ma possiamo dire con certezza che la loro presenza è stata più massiccia di altre volte perché negli ultimi quindici anni – a partire dalla crisi del 2008 – c’è stato un progressivo declassamento dei bianchi che sono oggi sempre più poveri. Inoltre non tutti i bianchi poveri sono razzisti. Lo stesso Darmanin ha dovuto riconoscere la presenza di bianchi nelle rivolte sebbene lo abbia fatto in maniera razzista per difendersi dagli attacchi dell’estrema destra che lo accusava di essere stato troppo lassista nei confronti dei rivoltosi. Tutto questo però ci mostra che un processo di convergenza è possibile.
Le ultime battute sono per Louisa Yousfi che circoscrive il campo decoloniale di possibilità di questa convergenza antirazzista.
L. Y.: il solo antirazzismo di cui abbiamo bisogno è quello che emerge dalle lotte e soprattutto che muove da chi è razzializzato, cioè i Neri e gli arabi. Eravamo oggetti politici al servizio della sinistra, una forza inerte della sinistra. Eravamo voci messe a disposizione dell’opportunismo della sinistra. Ora siamo soggetti politici, protagonisti delle nostre lotte. È vero, quando ci sono dei movimenti sociali forti, i rapporti di forza si impongono e le cose accelerano improvvisamente.
Note [1] La traduzione letterale è «piccoli bianchi» e indica i membri delle classi popolari bianche.
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Antonio Alia ha coordinato la redazione di commonware.org, con cui ora cura l’omonima sezione. La sua formazione da militante è iniziata con il movimento dell’Onda.
Anna Curcio, ricercatrice, saggista e traduttrice militante, ha insegnato e svolto attività di ricerca in Italia, Regno Unito e Stati Uniti. Attualmente insegna discipline giuridico-economiche nelle scuole superiori. Studia le trasformazioni del lavoro produttivo e riproduttivo nel rapporto con la razza e il genere.
Ha curato per DeriveApprodi: Introduzione ai femminismi (2019) e Black Fire (2020).
Houria Bouteldja, scrittrice e militante politica decoloniale, tra i fondatori del PIR (oggi sciolto), è autrice, di I bianche, gli ebrei e noi. Verso una politica dell’amore rivoluzionario (Sensibile alle Foglie 2016). «Machina» ha già pubblicato Addio Bandung, una conversazione con Anna Curcio e l’introduzione a Beaufs et barbares, che sarà prossimamente tradotto da DeriveApprodi.
Louisa Yousfi è giornalista e anima il blog politico «Paroles d’honneur». Figlia di algerini immigrati in Francia, con questo libro denuncia il conflitto assimilazionista che le politiche delle istituzioni francesi non smettono di alimentare da almeno mezzo secolo. Per DeriveApprodi ha già pubblicato Restare barbari. I selvaggi all’assalto dell’Impero (DeriveApprodi, 2023).
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Per un ulteriore approfondimento consigliamo la lettura della recensione del libro in oggetto pubblicata da Sandro Moiso su Carmillaonline
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