“Morte viva”, il prezzo da pagare se non parli (per tradire)
Alcuni giorni fa ho ricevuto una mail da un ergastolano. Non si trattava di un ergastolano qualsiasi, ma di un carcerato sottoposto a “ergastolo ostativo”.
Prima di leggere la mail ignoravo di che cosa si trattasse. A volerlo spiegare in due parole potrei esprimermi così: lo Stato domanda ai suoi cittadini di fare una scelta. Una importante riduzione della pena, in cambio di una collaborazione con la giustizia. Bisogna precisare che coloro i quali si rifiutano di “collaborare” sono sottoposti a un regime che toglie qualsiasi significato alla parola futuro, lasciando come unica possibilità quella di un regime carcerario che non prevede deviazioni; una linea diritta sino a che morte non li separa dalla vita.
La questione ha un aspetto tragico: lo stato impone una scelta che ha a che fare con il paradosso di Antigone. Ricordate la trama? Ruota intorno a un conflitto etico, una tensione apparentemente insormontabile. Antigone amava i suoi fratelli, amava gli dei e la sua città, Tebe. Un giorno si trova a dover compiere una scelta senza via d’uscita: i fratelli si danno la morte, l’uno per la mano dell’altro, contendendosi il trono di Tebe. Il nuovo re, Creonte, dà la colpa a uno dei due e lo condanna a non ricevere sepoltura, a vagare in eterno senza trovare pace.
Ad Antigone viene fatto divieto di seppellire il fratello colpevole. Pena non lieve, in effetti, soprattutto se a sopportarla è, oltre a un morto, una sorella, scaraventata in un inestricabile conflitto etico. Antigone deve scegliere tra due principi: obbedire alle leggi scritte degli uomini e del suo re, oppure obbedire a quelle non scritte – o forse scritte altrove – che fondano i legami famigliari, le leggi avallate dagli dei.
Antigone compie la sua scelta, predilige gli affetti, decide di offrire sepoltura a quel corpo. Così facendo sceglie anche la morte, avendo infranto le leggi della sua città, insieme alla autorità che quelle leggi fonda. In tutti i modi, Antigone altro non può fare che muoversi all’interno del paradosso del conflitto etico, un conflitto tra due doveri contrastanti.
Dal conflitto descritto da Sofocle e ripreso secoli dopo da Hegel, non si esce che attraverso una rivoluzione copernicana, ridisegnando l’idea di stato e il confine delle relazioni personali.
Pensavo, prima di leggere degli ergastoli ostativi, che come comunità ci fossimo riusciti. In questo caso, tuttavia, lo stato chiede di “collaborare” ossia chiede ad alcuni dei suoi cittadini di aiutarlo a fare ciò che da solo non è in grado di fare. Il problema, però, è che non tutti gli strumenti sono leciti per raggiungere obiettivi anche nobilissimi.
In ogni caso è bene porsi il problema quando una istituzione ci domanda di “collaborare” e questa collaborazione significa venir meno alla parola data a un amico, a un fratello o anche a un semplice conoscente. Rischiamo di trovarci nel bel mezzo del paradosso del sorite senza nemmeno rendercene conto: qual è il confine da non oltrepassare?Arriviamo sino ad ammettere la trattativa stato-mafia?
Ma il fine è buono, si dirà. Anche quello di Creonte lo era. Il punto è esattamente questo: i nostri principi etici, e persino il senso comune, ci indicano una cosa semplice. Le promesse, i legami tra esseri umani, i patti o gli amici, non si tradiscono, giacché sono un tassello fondamentale del nostro vivere in comune, quello sul quale gli stati fondano il loro potere. Stupisce che lo stato chieda una deroga. Le promesse si assolvono, la parola data si rispetta e lo stato deve agire in senso etico, non può chiedere deroghe per sé. Nemmeno quando lo fa per un fine giusto.
Tiziana Andina (Università di Torino)
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