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Rebibbia Zombie

Zerocalcare è ormai noto al grande pubblico: sforna storie che finiscono in classifica, produce le celebri “tavole del lunedì” che circolano in Rete e raggiungono qualche decina di migliaia di persone. Per noi è una vecchia conoscenza: lo abbiamo sempre incontrato nei cortei, nei centri sociali e negli spazi di movimento. Il mondo dal quale viene è ancora il suo mondo. Ci siamo ritrovati davanti ad un piatto di spaghetti alla carbonara per parlare del suo nuovo fumetto, “Dodici”, che esce in questi giorni per Bao Publishing.

Le 94 tavole che compongono “Dodici” raccontano dell’alter ego dell’autore e dei suoi amici Secco, Katja e Cinghiale alle prese con un’invasione zombie. I morti viventi come icona contemporanea ci aiutano a ragionare con Zerocalcare di come sia riuscito a tenere insieme con equilibrio e apparente semplicità “realismo” e “immaginario”, costruzione di mondi e quotidianità.

Parlando dei suoi film George Romero dice spesso che i veri protagonisti non sono gli zombie ma gli umani, il modo in cui la quotidianità delle relazioni di potere si riproduce in una situazione di emergenza. Anche per il tuo “Dodici” è così: l’invasione zombie ti offre l’espediente per raccontare la vita e le interazioni di un gruppo di umani.

Nel fumetto ci sono meno zombie di quelli che avevo pensato di mettere all’inizio. Mi sono accorto di non esser capace di scrivere storie di fantasia. Quello che mi riesce, invece, è raccontare persone che si muovono all’interno di situazioni che conosco. Da questo punto di vista, è così anche per me: gli zombie sono un pretesto. Le cose che racconto potrebbero avvenire in altre situazioni, non necessariamente in un contesto post-apocalittico. In situazioni di tensione, in momenti che si vivono quotidianamente per strada in ogni quartiere.

La periferia metropolitana di Rebibbia, quartiere “che tutto il mondo crede essere solamente un carcere”, in questa storia rappresenta il mondo contemporaneo?

Non potrei mai ambientare una storia a Centocelle o a Torpignattara! Posso ambientare le mie storie a Rebibbia o negli spazi occupati, cioè nei luoghi che conosco meglio e che ho vissuto. Dunque direi di sì: Rebibbia per me è il mondo contemporaneo. Nel libro provo a raccontare alcune caratteristiche della zona: è un quartiere senza ritmi frenetici. Da qui si parte ma non si arriva. L’invasione zombie ne dilata ulteriormente i tempi ma non la modifica particolarmente.

Ad un certo punto uno dei personaggi arriva a ipotizzare che l’invasione zombie sia solo un’arma degli speculatori, che i zombie facciano da apripista alla gentrification e ai bongi “come al Pigneto”, quartiere che in pochi anni è passato agli onori delle movide hipster capitoline. Forse è proprio il tuo quartiere il vero protagonista di questa storia.

Volevo fare una storia di zombie per non scrivere una storia autobiografica. Ma non mi è riuscito: so raccontare solo me stesso. Tuttavia, avendo deciso che in questa storia non dovevo esserci ho scelto in corso d’opera di sublimare il mio punto di vista nel quartiere. In parte le periferie si assomigliano tutte, ma Rebibbia ha una sua specificità che spero venga colta. Ad esempio, Rebibbia ha poco a che fare con una banlieue. Ancora, mi chiedo: l’hinterland milanese somiglia alle borgate romane? Solo per certi versi. L’urbanistica differente influenza anche le dinamiche sociali.

Sia nelle tavole del lunedì che nelle tue storie più lunghe intrattiene un dialogo coi personaggi dell’immaginario collettivo. Lo zombie fino a qualche anno fa pareva reduce da altre epoche, e invece col suo incedere lento e traballante ha ormai contagiato l’industria culturale: saggi, romanzi, serie televisive, film, fumetti. Dunque non potevi fare a meno di incontrare anche loro.

L’immaginario è parte della nostra storia, delle nostre vite. Per come ha influenzato la mia formazione, non è che Ken il Guerriero sia meno reale di Barack Obama o di Vandana Shiva. Sono personaggi che vedo in televisione, stanno tutti allo stesso livello. Non li posso toccare, li assumo per come li vedo. Ho scelto di incontrare gli zombie perché mi hanno sempre appassionato fin da ragazzino. Il fatto che adesso siano diventati mainstream mi dà la possibilità di rapportarmi ad essi come parte dell’immaginario collettivo. D’altro canto, è vero anche che noi che siamo cresciuti con Romero o abbiamo ascoltato i Misfits non abbiamo aderito ad una moda. È la moda che ha inseguito noi.

Uno dei motivi del tuo successo è la capacità di tenere in equilibrio leggerezza e serietà. Le tue storie fanno ridere ma nascondono sempre il riferimento ad un tema “serio”, c’è sempre una questione reale che incombe. Non si tratta solo di saper sdrammatizzare, ma di riuscire a nascondere diverse sfaccettature dentro una situazione comica.

Ho paura di attaccare un pippone o magari di scrivere una telenovela. “La profezia del armadillo” doveva essere una storia triste. Poi mi sono accorto che stava venendo fuori una cosa melensa, emo. Allora ho cominciato a metterci anche episodi buffi. D’altro canto, quando ho fatto la raccolta del blog temevo l’effetto-Brignano e allora ho messo altri elementi. Non voglio essere né Vanzina né Beautiful.

Le storie di zombie si dividono in due grandi categorie: gli zombie lenti, che incedono implacabili in massa me che presi uno ad uno sono quasi patetici, e gli zombie veloci, tipici dei film di ultima generazione. Tu a quale scuola di pensiero ti sei rifatto?

Ci ho riflettuto a lungo. Se uno vuole essere fedele alle metafore e alla filologia dei morti viventi deve fare lo zombie lento: uno zombie non può correre. È vero però che una storia di zombie deve fare paura, e lo zombie veloce fa più paura. Alla fine ho scelto la prima, quella più tradizionale.

Il tuo successo è dovuto anche alla Rete, alla diffusione virale delle tue storie. Come ti spieghi che Twitter in Italia sia colonizzato dal romanesco e che addirittura anche chi non è di Roma si trovi a scrive in romano su Twitter?

“Romanzo Criminale” ha fatto un sacco di danni al romanesco, lo ha fatto apparire più coatto di quanto non fosse già e attrattivo da quel punto di vista. È vero anche che il romanesco è entrato nella quotidianità di tutti. Se sento parlare bergamasco mi par di sentire una lingua straniera mentre il romano, a causa della televisione, mentre il dialetto romano è più trasversale, sta nella cultura popolare. Aggiungo anche che il romanesco è breve, fatto di parole tronche che si prestano ai 140 caratteri, e diretto, si presta alla battuta sarcastica o alla sentenza. Ecco, questo è un aspetto di Twitter che mi mette molta ansia: l’obbligo di far ridere o sentenziare.

Infine, chiediamo a Zerocalcare di compilare la sua personale zombie parade: quali fumetti, libri, serie tv, film o videogiochi sul tema dei morti viventi metteresti nella top 5? Lui pensa un po’. Poi prende una penna e un tovagliolo di carta e scrive questa classifica:

1) “La notte dei morti viventi”, il film di George A. Romero

2) “Dead Set”, la serie televisiva

3) “Benvenuti a Zombieland”, il film di Ruben Fleischer

4) “Resident Evil”, il videogioco

5) “World War Z”, il libro di Max Brooks

di Giuliano Santoro – tratto da DinamoPress

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