Sabir Masih, 32 anni, cattolico, professione: boia in Pakistan per tradizione familiare
Forse perché Masih appartiene ad una famiglia di boia, un po’ come i Pierrepoints al servizio di sua maestà britannica agli inizi del Novecento, i Sansons francesi tra il Settecento e l’Ottocento. Solo che adesso siamo nel ventunesimo secolo.
Come la maggior parte dei boia fin dai tempi del Raj britannico, Masih è cristiano. Il suo cognome in lingua locale significa Gesù, “colui che cancella i peccati e pulisce dalle malattie”, ed è un cognome molto comune tra i cristiani del subcontinente.
Una famiglia di boia
La Bbc incontra Sabir Masih nella sua casa di Lahore. I suoi occhi sono un po infossati e cerchiati di rughe, i suoi denti ingialliti dal tabacco masticato e ha una lieve balbuzie nel parlare, ma il fisico è asciutto e allenato.
“Eseguire condanne a morte è la professione della mia famiglia” racconta. “Lo faceva mio padre e il padre di mio padre… fin dai tempi della East India Company” (la Compagnia Britannica delle Indie Orientali, fondata durante il regno di Isabella II di Inghilterra per mercanteggiare con l’India).
Probabilmente il suo antenato più famoso è il fratello di suo nonno, Tara Masih. E’ colui che nel 1979, dopo il colpo di stato del generale Muhammad Zia-ul-Haq, eseguì la sentenza a morte di Zulfikar Ali Bhutto, presidente del Pakistan dal 1971 al 1973 e poi primo ministro dal 1973 al 1977.
“Non sento nulla. La prima volta ero preoccupato di fare bene il nodo”
Con questo tipo di storia familiare è chiaro che a Sabir Masih vengano rivolte le domande che cercano una risposta che vada oltre la risposta stessa. Riesce a dormire la notte prima di una esecuzione? Ha incubi dopo? Cosa ha provato la prima volta? Cosa pensano la sua famiglia e i suoi amici del suo lavoro?
La risposta è una per tutte: “Non sento nulla. E’ una tradizione di famiglia. Mio padre mi insegnò come fare il nodo al cappio e mi portò con sé per alcune esecuzioni in procinto della mia assunzione”.
La prima esecuzione da solo è stata nel 2007, da allora ha stretto il cappio intorno al collo di almeno 200 persone. “La cosa che mi rendeva più nervoso era di riuscire a fare bene il nodo, ma il vicedirettore del carcere mi disse di non preoccuparmi. Mi fece fare e disfare più volte il nodo in attesa che il condannato arrivasse al patibolo. Quando il secondino mi fece un cenno con la mano affinché tirassi la leva, mi sono concentrato su di lui e non ho visto il condannato cadere nella botola”.
Un rito sempre uguale
Al prigioniero condannato a morte per impiccagione sono lette le motivazioni della sentenza, gli dicono che può lavarsi e pregare se vuole, e poi lo portano al patibolo.
“La mia unica preoccupazione – racconta Sabir Masih – e di preparare il condannato almeno tre minuti prima dell’esecuzione. Gli tolgo le scarpe, gli infilo un cappuccio in testa, lego le sue mani e i suoi piedi, metto il cappio intorno al collo, mi assicuro che il nodo sia al di sotto del suo orecchio sinistro, e infine aspetto il segnale del secondino per tirare la leva che aprirà la botola”.
Non c’è aiuto psicologico né prima né dopo l’esecuzione per il boia, tanto meno un limite di esecuzioni prima di poter riposare. Ma Masih dice di non averne bisogno di queste cose. E’ un impiegato dello Stato, è un lavoro, che non corre certo il rischio di perdere considerato che nelle prigioni pakistane 8000 persone sono in attese di essere condotte al patibolo.
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