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Spazi di autonomia nel flusso della merce

 

L’ultimo libro dell’intellettuale catalano è dedicato alle «Reti di indignazione e di speranza». Un’analisi dei movimenti sociali dopo la crisi del capitalismo che ne mette in evidenza le potenzialità ma ne occulta le zona d’ombra.

Tutto ha avuto inizio in un paese della Tunisia. La versione più accreditata parla di un giovane venditore ambulante fermato dalla polizia che gli sequestra la poca merce che adorna il suo banchetto. Poche ore prima, le stesse forze dell’ordine lo avevano fermato, estorcendogli una tangente. Quello che accadde in quella giornata, il 4 Gennaio 2011, è però noto a tutti: Mohamed si cosparge di benzina e si dà fuoco. È la scintilla che che incendia la prateria, dando vita alle cosiddette «primavere arabe».

Ci sono ovviamente molte versioni sulle dinamiche che hanno portato Mohamed a darsi fuoco. Tutte concordano però nel sottolineare che fu un gesto per riaffermare una dignità calpestata da un potere arbitrario e corrotto. Ed è su proprio sulla dignità che Manuel Castells nel suo ultimo libro – Reti di indignazione e di speranza, Università Bocconi Editore, pp. 269, euro 25. Il volume sarà presentato oggi all’interno della rassegna «Mee the media guru» presso il Teatro Dell’Arte di Milano (Viale Alemagna 6, ore 21) – insiste per spiegare i motivi alla base dei movimenti sociali che dal 2009 si sono diffusi, come un virus, in Europa, Stati Uniti e parte del mondo arabo.

L’indignazione viene dal rifiuto su come viene gestito il potere; la speranza risiede nella possibilità di cambiare lo stato delle cose. La critica al capitalismo non è però tesa a superare un modo di produzione che produce ineguaglianze; bensì è finalizzata alla definizione di uno spazio pubblico autonomo dalle forme di potere per affermare la speranza in un altro mondo possibile. I movimenti sociali sono dunque «spazi di autonomia» che non possono essere giudicati secondo parametri «produttivistici» – efficacia nel raggiungere determinati risultati – ma dalle loro capacità di trasformare lo stile di vita individuale e per la «rivoluzione culturale» che alimentano. Sono cioè spazi segnati da processi di produzione di soggettività collettive all’interno delle quali i singoli affermano la loro irriducibile singolarità perché riconoscono il fatto di essere «individui sociali».

Non è la prima volta che Castells si confronta con i movimenti sociali. Ma questo libro è dettato dall’urgenza teorica-politica di interpretare il venir meno dalla distinzione tra lo spazio pubblico della Rete e i flussi di merci, di uomini e donne che hanno nel tessuto urbano la loro indispensabile infrastruttura. Con un vezzo decisamente accademico Castells dichiara, infatti, di essere venuto meno a una delle regole della sua disciplina scientifica. Ha sì raccolto materiali, elaborato inchieste quantitative sulla composizione sociale degli attivisti dei vari movimenti, ma ha altresì passato lunghe giornate discutendo con i militanti delle piazze occupate di Barcellona o con quelli di Occupy negli Stati Uniti, scoprendo di essere testimone di una «grande trasformazione» che non poteva certo attendere i tempi lunghi della elaborazione disciplinare a cui è stato sempre fedele.

Tra potere e contropotere

Con entusiasmo poco trattenuto, Castells scrive che i movimenti sociali degli ultimi tre anni sono riusciti a coniugare l’agire comunicativo dentro la Rete con l’occupazione dello spazio urbano. Le acampadas spagnole, Zuccotti park, piazza Tharir possono sì esseri spiegati evocando la Comune di Parigi, i soviet, l’occupazione della Sorbona, ma rimarrebbe un esercizio retorico che occulterebbe la rilevanti differenze tra il presente e il passato prossimo dei conflitti sociali e di classe. Più che contentarsi sulle ripetizioni, Castells prova dunque a misurarsi con le differenze tra passato e presente.

Questo è dunque il frame teorico da cui parte: le società contemporanee vedono l’azione di un potere costituito teso a garantire la riproduzione dei rapporti di forza tra la classi nella società. Ma un potere deve sempre vedersela con la presenza di un contropotere teso a contrastare quello dominante. Ed in questo dinamico dualismo che la comunicazione svolge un ruolo determinante, perché è il contesto in cui viene elaborato un significato condiviso sia dal potere che dal contropotere al fine di garantire la riproduzione della società. Per Castells, infatti, una volta che il potere riesce ad imporre, attraverso la fabbrica del consenso rappresentata dai media, la sua weltanshauung, al contropotere rimane solo la possibilità di manifestare una folkloristica e subalterna controcultura. Neppure le rivolte degli anni Sessanta sono riuscite a interrompere la produzione del consenso, fino a quando hanno preso forma e si è diffusa la Rete. Solo con la formazione della «galassia Internet» prende forma una «autocomunicazione di massa» che mette in crisi il potere manipolatorio dei media perché rompe l’incantesimo di una comunicazione dell’uno ai molti per affermare invece la comunicazione dei molti ai molti che impedisce forme di controllo da parte del potere costituito. Internet consente così la costituzione di spazi pubblici autonomi rispetto a quelli dominanti. È all’interno dei social network, della blogsfera, nelle pulviscolari forme di mediattivismo che avviene il big bang del passaggio dalla socializzazione di emozioni condivise (l’indignazione) all’azione, esemplificata dalla integrazione tra gli spazi pubblici dei social network e gli spazi urbani occupati dai movimenti sociali.

Le acampadas spagnole, Zuccotti Park, Piazza Tharir sono quindi i simboli della capacità dei movimenti sociali di poter affermare la loro autonomia dal potere, consentendo ai singoli di vivere l’intensa e entusiasmante esperienza di un rafforzamento del sé attraverso la condivisione «sentimentale» della costruzione di una comunità virtuale che afferma la propria agenda politica scardinando la temporalità imposta del potere: «siamo lenti, perché andiamo lontano», hanno scritto gli indignados di Barcellona in una loro striscione.

L’attuale risacca dei movimenti sociali non va però letta come la loro fine. Attesta semmai a una «ritirata» nello spazio pubblico dei social network per poi ripresentarsi nuovamente nello spazio urbano. Questa flessibilità e capacità di adattamento è dovuta alla forma reticolare di organizzazione – i «movimenti sono reti di reti», annota Castells – che consente processi deliberativi basati sul consenso e non sulle logiche maggioritarie della democrazia rappresentativa. Quello che stiamo vivendo altro non sarebbe che espressione della natura intermittente dei movimenti. Siamo cioè nella fase autoriflessiva, della ritirata negli spazi pubblici dei social network per fare il punto della situazione, in attesa che il miracolo del passaggio dall’emozione all’azione si rinnovi.

L’ethos condiviso

I miracoli hanno sempre uno statuto dubbio. La loro certificazione avviene infatti sempre a posteriori, cioè quando si sono già manifestati. Per i movimenti sociali c’è inoltre il rischio di una profezia che si autoavvera ogni volta che si manifestano, considerando il periodo di assenza come tempo dell’autoriflessione, della sosta all’interno di una lunga marcia che dovrebbe portare a quel mondo possibile intravisto nelle occupazioni degli spazi urbani. Sia però ben chiaro. Il libro di Castells è una fotografia dei movimenti sociali scattata da una prospettiva che ne privilegia alcuni aspetti facendo uso di un filtro che ne cancella però le zone d’ombra. Il grandangolo «culturalista» scelto dallo studioso catalano coglie sicuramente la centralità della «cura del sé», della invenzioni di identità poliedriche, della ricerca di un ethos condiviso dopo la dissoluzione dei legami sociali operata dallo sviluppo capitalistico. E in maniera altrettanto convincente Castells individua nella comunicazione on line non solo il medium per la socializzazione di informazioni e punti di vista sulla realtà, ma anche come strumento e modello organizzativo. Ma tutti questi elementi più che costituirne la soluzione, è il problema.

All’indomani della rivolta di Seattle, molti attivisti e intellettuali si posero la domanda di cosa differenziasse quel movimento dai precedenti. In molti, ne sottolinearono il carattere postideologico, individuando nello slogan «un altro mondo possibile» una tensione etica a superare alcune dicotomie della modernità – tra capitale e lavoro, tra sviluppo e sottosviluppo – all’interno di soluzioni pragmatiche al degrado ambientale e alle diseguaglianze sociali che il modello neoliberista di sviluppo accentuava più che ridurre come sostenevano gli apologeti della globalizzazione. Fu così cancellato il fatto che i movimenti sono una spazio di politicizzazione dei rapporti sociali. Allora come adesso è questo il nodo da sciogliere.

Indebitati e smarriti

Gli indignados, Occupy, ma anche i giovani tunisini e egiziani hanno operato dentro una crisi dello sviluppo capitalistico che sta terremotando le formazioni sociali. Da questo punto di vista, la descrizione dei movimenti sociali come sciami che si aggregano per perseguire un obiettivo per poi dissolversi più che individuare una forma politica, descrivono una forma di vita. Da qui la domanda: come pensare una politica della trasformazione in presenza dell’intermittenza dei movimenti sociali e la loro irriducibilità a una sintesi definita come un apriori? Una indicazione viene dalla composizione sociale del lavoro vivo nel capitalismo. Anche qui l’intermittenza e la comunicazione sono i fattori che si impongono all’attenzione.

Intermittenza della prestazione lavorativa basata sulla condivisione – e dunque sulla comunicazione – della propria singolare capacità di sviluppare cooperazione sociale. Sullo sfondo ci sono però le dinamiche messe in moto dalla crisi economiche. L’indebitamento, la precarietà del rapporto di lavoro, la dimensione pervasiva della comunicazione on line, sempre in bilico tra costituzione di spazi pubblici autonomi e inedite e sofisticate forme di controllo sociale sono fattori con cui i movimenti sociali devono fare i conti. Da qui, la centralità dell’organizzazione come capacità di elaborare proposte tese alla riappropriazione della ricchezza. I movimenti sociali non possono dunque che presentarsi come potenziali forme politiche che ricompongono i mille frammenti del lavoro vivo. È questa l’eredità delle acampadas e di Zuccotti Park che va raccolta e messa al lavoro politicamente. Affinché gli sciami possano manifestare la loro potenza e elegante, assieme alla capacità di modificare i rapporti di forza tra le classi. Fattore che tanto l’indignazione e la speranza efficacemente descritte da Castells non rimangono parole consolatorie rispetto alla miseria del presente, diventando invece la spinta a dare forma e sostanza alla ricchezza del possibile.

 

Dalle «acampadas» a Zuccotti Park

Manuel Castells lasciò la Spagna nel 1976 per la sua attività antifranchista. Il primo paese che lo ospitò professionalmente fu l’università francese della a Sorbona . Ma il punto di svolta nella sua vita fu un nuovo trasferimento. La meta erano gli Stati Uniti, più precisamente Berkeley, in California. È in quella sede che hanno preso forma gran parte dei suoi studi. Il primo libro che pubblico negli Stati Uniti fu «City, Class and Power» (MacMillan, St. Martins Press), cui seguì «The Economic Crisis and American Society» (Princeton University Press). È però del 1980 il primo libro dove lo studioso affrontò il legame tra i movimenti sociali e i movimenti sociali («The City and the Grassroots: A Cross-cultural Theory of Urban Social Movements», University of California Press). È un testo che segna anche l’allontanamento di Castells dalle costellazione marxista a cui faceva riferimento.

Nel frattempo Castells comincia a lavorare con alcune organizzazioni sovranazionali, accumulando materiali sulle trasformazioni del capitalismo contemporaneo e di come tali mutamenti si riflettono sia nella formazione e diffusione dei movimenti sociali che nella struttura urbana. Il risultato di oltre dieci anni di lavoro di inchiesta e di elaborazioni dei dati è la trilogia sull’Era dell’informazione (i tre volumi sono stati pubblicati in Italia dalla Università Bocconi editore con i titoli : «La nascita della società in Rete», «Il potere dell’identità», «Volgere di millennio») . Una trilogia che viene indicata, a quasi venticinque anni di distanza, come una delle analisi più dettagliati del declino del capitalismo fordista e l’«avvento» di quello informazionale. Castells è sì convinto che le tecnologie informatiche hanno reso possibile il coordinamento di una produzione di merci diffusa nel pianeta, ma che la produzione e la gestione dell’informazione siano diventata la fonte di ricchezza del capitalismo.

Ed è con questo spirito che lo studioso catalano avvia un nuovo progetto di ricerca. Il continente da scoprire è, questa volta, Internet. Anche in questo caso, Castells non si accontenta a descrivere la Galassia Internet (Feltrinelli), ma prova a interpretare il World wide web come la nuova frontiera del capitalismo informazionale. Anche in questo caso, i movimenti sociali svolgono un ruolo fondamentale in quanto «soggetti dell’innovazione». Argomento che torna nel libro scritto assieme al sociologo finlandese Pekka Himanen (L’etica hacker e lo spirito del capitalismo, Feltrinelli). Ma sarà solo con l’inchiesta sulla convergenza tra informatica e telefonia (Mobile communication, Guerini Associati) e con Comunicazione e potere (Università Bocconi editore) che Castells si pone il problema su come i movimenti sociali debbano essere interopretati dall’avvenuta simbiosi tra gli spazi pubblici della rete e quelli urbani.

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