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Per capire l’ascesa dell’estrema destra bisogna partire dai media

Processi di normalizzazione e sdoganamento nei media della politica di estrema destra dipendono dai media mainstream, più che dall’estrema destra stessa

di Aurelien Mondon da Valigia Blu

Javier Milei in Argentina, Geert Wilders nei Paesi Bassi. Sono solo i due ultimi vincitori di “elezioni shock”, la cresta di una “ondata populista” che si abbatte sulle difese indebolite delle democrazie liberali.

Nel frattempo, l’ex leader dell’UKIP Nigel Farage si rifà un’immagine riciclandosi come personaggio del reality show britannico I’m a celebrity. Un trattamento di cui ha beneficiato anche Pauline Hanson, leader del partito di estrema destra di maggior successo in Australia negli ultimi anni, invitata all’edizione australiana di Ballando con le stelle un attimo dopo il crollo della sua carriera politica.

La contraddizione nell’affrontare l’ascesa delle politiche di estrema destra nel dibattito pubblico non potrebbe essere più evidente. Ma la contraddizione va ben oltre.

Dovrebbe essere ovvio per chiunque sia preoccupato da questo fenomeno e dalla minaccia che rappresenta per la democrazia e per alcune comunità: umanizzare i leader di estrema destra attraverso divertenti reality show televisivi, puntare i riflettori sui loro hobby e non sulla dimensione politica, serve solo a normalizzarli.

Ciò che è meno evidente, eppure altrettanto dannoso, è la copertura sensazionalistica della minaccia. Milei e Wilders non sono uno “shock”. La ricomparsa di politiche reazionarie è del tutto prevedibile ed è documentata da molto tempo. Eppure ogni vittoria o ascesa è analizzata come nuova e inaspettata, e non come parte di un processo più lungo e più ampio in cui siamo tutti coinvolti.

Lo stesso discorso vale per il termine “populismo“. Tutte le ricerche serie sull’argomento indicano che la natura populista di questi partiti è al massimo secondaria, rispetto ai loro tratti di estrema destra. Ma sia nei media che nel mondo accademico “populismo” è in genere usato con disinvoltura e come tratto distintivo.

L’uso di “populista” al posto di termini più precisi, ma anche stigmatizzanti, come “estrema destra” o “razzista” agisce come una legittimazione chiave di questi partiti e dei loro leader. Conferisce una parvenza di sostegno democratico grazie al legame etimologico con il popolo, cancellando la natura profondamente elitaria – quella che io e Aaron Winter abbiamo definito “democrazia reazionaria“.

Ciò indica che i processi di normalizzazione e sdoganamento nei media della politica di estrema destra dipendono dai media mainstream, più che dall’estrema destra stessa. Infatti, non ci può essere normalizzazione nei media senza che i media stessi accolgano certe idee all’interno del proprio recinto.

In questo caso, il processo di normalizzazione ha comportato l’offerta di una piattaforma, la spettacolarizzazione e la legittimazione delle idee di estrema destra. Il tutto mentre in apparenza ci si opponeva a esse, negando la responsabilità avuta nell’intero processo.

Se da un lato è ingenuo credere che i media tradizionali ci dicano cosa pensare, dall’altro è altrettanto ingenuo ignorare che svolgono un ruolo fondamentale su ciò cui diamo importanza. Come sostenuto in un recente articolo sulla “centralità della questione immigrati”, certi temi sono centrali solo quando gli intervistati pensano al proprio paese nel complesso. Scompaiono quando pensano alla vita di tutti i giorni.

Ciò evidenzia la natura mediata della nostra comprensione della società in senso ampio, che è essenziale se vogliamo pensare al mondo al di là di quello che ci circonda. Tuttavia, benché essenziale, si basa sulla necessità di disporre di fonti di informazione fidate che decidono cosa merita la nostra attenzione e come va inquadrato.

È proprio questa responsabilità che molti dei nostri media hanno attualmente abbandonato o fingono di non avere, come se le loro scelte editoriali fossero eventi accidentali.

Non poteva essere più chiaro di così nel 2018, quando il Guardian lanciò una lunga serie sul “nuovo populismo”, scrivendo nel sommario dell’editoriale di apertura: “Perché il populismo è improvvisamente di moda? Nel 1998, circa 300 articoli del Guardian menzionavano il populismo. Nel 2016, 2000. Cosa è successo?”.

Nessuno degli articoli della serie riflette sul semplice fatto che le stesse scelte della redazione del Guardian possono aver giocato un ruolo nell’aumento dell’uso del termine.

Un processo dall’alto verso il basso

Nel frattempo, la colpa è scaricata sulle “maggioranze silenziose” di “cittadini abbandonati dalla politica” o su una fantomatica “classe lavoratrice bianca“.

Troppo spesso vediamo l’estrema destra come un corpo estraneo, qualcosa di separato e distinto dalle nostre norme e dal mainstream. In un recente articolo si evidenziava quanto sia sorprendente l’assenza di concetti come “razza” e “bianchezza” nelle discussioni accademiche su queste politiche.

L’analisi dei titoli e degli abstract di oltre 2.500 articoli accademici degli ultimi cinque anni ha mostrato come gli autori di volta in volta scelgono di inquadrare le loro ricerca in materia lontano da simili questioni. Al contrario, si ricorre all’eufemismo, all’eccezionalità nell’inquadrare l’estrema destra, concentrandosi su temi come le elezioni e l’immigrazione piuttosto che sugli aspetti più strutturali in gioco.

Questo ci porta a dover fare i conti con il ruolo cruciale giocato dal mainstream. Gli attori d’élite che hanno un ruolo privilegiato nel plasmare il discorso pubblico attraverso i media, la politica e il mondo accademico non sono asserragliati nei bastioni della fortezza del Bene e della Giustizia, mentre all’esterno infuria senza tregua l’assedio dell’orda populista.

Prendono invece parte a un’arena in cui il potere è distribuito in modo profondamente diseguale, in cui le disuguaglianze strutturali che l’estrema destra vuole rafforzare sono spesso al centro dei nostri sistemi e in cui i diritti delle comunità minoritarie sono precari e disattesi.

Hanno quindi una particolare responsabilità nei confronti della democrazia e non possono dare la colpa della situazione in cui ci troviamo ad altri – si tratti dell’estrema destra, di fantomatiche maggioranze silenziose o di comunità minoritarie.

Stare con le mani in mano non è un’opzione valida per chi svolge un ruolo nella costruzione del discorso pubblico. Ciò significa che l’autoriflessione e l’autocritica devono essere al centro della nostra etica.

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