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“Storie di Gap” di Santo Peli. Una recensione

Partendo da una rigorosa documentazione Santo Peli traccia un ritratto delle vicende dei Gruppi di azione patriottica all’interno del quadro generale della Resistenza italiana. Un lavoro che inizia a collocare episodi, fatti e protagonisti fuori dal mito o dalla marginalità cui tanta storiografia resistenziale ci ha abituato. Una storia, delle storie, quelle dei Gap, che gettano luce su aspetti poco indagati del periodo resistenziale.

I Gap agiscono in città, in clandestinità, spesso individualmente, per colpire obiettivi sensibili ed eliminare figure più o meno di spicco della Repubblica Sociale. Ma anche operazioni di sabotaggio e di sostegno agli scioperi che la classe operaia prova a mettere in atto per fermare la macchina bellica del nazifascismo. E’ una lotta che richiede freddezza, capacità di liquidare un nemico disarmato, colpito nei momenti del tempo libero, e di confezionare e piazzare ordigni esplosivi secondo sperimentate tattiche terroristiche.

Caratteristiche molto differenti dall’immagine più assodata dei partigiani che di solito agiscono in gruppi egualitari, in montagna, usando tattiche guerrigliere, contrapponendo anche una loro opposta moralità ai traditori repubblichini e agli occupanti tedeschi, comprese le famigerate SS. Eppure sono proprio i Gap con i loro inaspettati e riusciti attentati a dare il via alla Guerra di Liberazione, dimostrando la debolezza della Repubblica di Salò e dell’occupazione nazista.

I Gap sono organizzati direttamente dal Partito Comunista, solo militanti sperimentati e iscritti al partito possono farne parte, vera e propria avanguardia della lotta armata al nazifascismo. Questa caratteristica si discosta dalla stessa strategia perseguita dal Pci nella Resistenza, soprattutto dopo la “svolta di Salerno” del 1944 in cui l’intero quadro delle operazioni di liberazione dell’Italia dal nazifascismo viene inscritto nella narrazione di un “secondo Risorgimento” da portare a compimento in maniera unitaria con gli altri partiti antifascisti.

Il dato nazionale prevale quindi su quello della lotta di classe. Le famigerate Brigate Garibaldi che dalle montagne dilagarono nelle città alla Liberazione, infatti, erano aperte anche ai non iscritti al partito e dovevano essere un’organizzazione di massa del popolo armato. I Gap rimarranno sempre un’esperienza ultraelitaria, tranne in Emilia-Romagna dove raggiungeranno dimensione di massa come brigate di pianura. A lungo andare verranno affiancati e in larga misura sostituiti dalle Sap (Squadre d’azione patriottica) aperte a tutti e non orientate alla clandestinità, che si dimostreranno maggiormente efficaci nella difesa di quei soggetti urbani, come la classe operaia, che a livello di massa si attiveranno con scioperi, picchetti e manifestazioni contro il nazifascismo.

Insomma è forse con la massificazione del movimento resistenziale che i Gap si dimostrano meno adatti allo sviluppo orizzontale della lotta, dopo esserne stati i detonatori e i temerari iniziatori sviluppando in profondità i loro attacchi che aprirono le possibilità della Liberazione. Tuttavia una simile conclusione è forse troppo tagliata con l’accetta se pensiamo che una linea di condotta come quella gappista per stare su un livello di lunga durata necessita di mezzi organizzativi e logistici considerevoli, che forse il Pci non era, dopo vent’anni di dittatura fascista, di esilio e di confino, nelle condizioni di fornire fino in fondo. In alcuni casi è più la disintegrazione, la profonda crisi, la paralisi e l’inazione degli apparati dello stato che Salò non riesce completamente a riattivare a dare respiro al gappismo.

D’altro canto il controllo repressivo nazifascista sulle città è molto più asfissiante in quanto sono nodi logistici e della produzione bellica, ma anche pallide vetrine dello stato fantoccio di Salò. Le aberranti torture, le fucilazioni e le rappresaglie disarticolano la prima ondata gappista, che però “senza tregua” riusciranno a scrivere altre storie sempre e costantemente “in territorio nemico”. Ma Santo Peli va anche oltre fornendoci una panoramica sulla soggettività di questi uomini e donne coraggiosi, sulle motivazioni, i comportamenti, sull’identità operaia, il rapporto con la clandestinità e con l’uccidere a sangue freddo. Virtù e debolezze, avventurismi e condotte glaciali, fermezza ideologica e opportunismo delle avanguardie della base operaia del partito e non solo che dopo anni di scollamento tornavano a rapportarsi sul campo con i dirigenti militari e politici temprati dall’esilio e dalla lotta armata al nazifascismo in Spagna, Francia ed Etiopia.

Peli fornisce con chiarezza e metodo un vivido ritratto di queste vite in carne e ossa, vite rivoluzionarie e combattenti alla prese con la storia che, è cosa nota da almeno un secolo, a volte ha bisogno di una spinta…

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