Tommaso torna libero: una lettera sul #9D dai domiciliari
Di ieri, però, la buona notizia che il giudice ha acconsentito a tramutare gli arresti domiciliari in obbligo di firma, così che Tommaso è tornato nuovamente (quasi) libero. Cogliamo quindi l’occasione per proporre le sue riflessioni su quelle giornate di dicembre e sull’operazione giudiziaria nel quale è stato coinvolto.
Il 13 maggio un’operazione della Questura di Torino ha fatto scattare misure cautelari e denunce nei confronti di 6 persone, accusate di aver partecipato ai disordini di piazza Castello e ad altre manifestazioni nel corso della settimana di mobilitazione promossa dal Coordinamento 9 Dicembre, i cosiddetti “forconi”.
Tra queste persone ci sono anche io, che ho attualmente scontato due mesi di arresti domiciliari con restrizioni, con l’accusa di avere preso parte attiva a quello che fu l’assedio al palazzo della Regione nella mattinata del 9 dicembre.
Come molti ricorderanno, la radicalità e la diffusione delle proteste di quei giorni provocò molte polemiche e non pochi mal di pancia all’allora governo Letta, insediatosi da pochi mesi e già sul procinto di essere fatto fuori dal suo stesso partito. A Torino e nei comuni della sua “cintura” le manifestazioni, i blocchi stradali, le serrate dei negozi e gli scioperi selvaggi ebbero un’incisività molto diversa rispetto al resto d’Italia, provocando una vera e propria paralisi della città per cinque giorni consecutivi. Molte persone ricordano quelle giornate per questioni relative all’ordine pubblico, altre per i picchetti (non sempre spontanei) degli esercizi commerciali, altre ancora per gli ipocriti gesti delle forze dell’ordine (scambiati per solidarietà), e moltissime ancora non riescono a capacitarsi di come tutto ciò sia potuto accadere.
Molti degli interrogativi che accompagnano quelle singolari e sorprendenti giornate sono gli stessi che ho avuto io nell’attraversarle, dapprima come semplice spettatore e poi con un coinvolgimento empatico sempre maggiore.
Come militante attivo ormai da diversi anni nei movimenti universitari, passai le settimane precedenti al #9D cercando di capire cosa si nascondesse dietro questo fantomatico coordinamento che, all’improvviso, godeva di una visibilità mediatica (parlo dei social network) che nessuna manifestazione promossa da un qualunque collettivo autorganizzato si sarebbe mai potuta sognare. Le parole con cui si inneggiava alla rivolta erano altisonanti e retoriche, molto spesso rivelavano un’ambiguità di fondo che tanti riconducevano, a ragione o a torto, all’ennesimo travestimento della destra “sociale” italiana, anche a causa dei personaggi che si erano eletti portavoce ufficiali del movimento.
All’impresentabilità – politica e umana – degli organizzatori, però, faceva sponda una composizione variegata ed eterogenea di cittadinanza, dai mercatari più incazzati ai negozianti, dai giovani disoccupati agli ultras, tutti legati dal comune denominatore della rabbia e della disperazione, a loro volta causate da una crisi economica che si sta ormai palesando nella sua forma più endemica: la povertà.
Ciò che accadde in quelle giornate, il 9 in particolare, è noto a tutti, e non starò qui a dilungarmi sul perchè e sul come ciò sia accaduto. Il dato di fatto, però, è stato che la rabbia, la frustrazione e il senso di impotenza che erano stati accumulati per anni negli anfratti più dimenticati della nostra società – i quartieri popolari, i mercati rionali, i call center e le agenzie interinali – avevano trovato espressione in un momento di conflittualità reale, scevra da mediazioni e dai tentativi di assuefazione alle dinamiche più “politiciste” degli organizzatori.
Nei giorni successivi questa effervescenza fu declinata in diversi modi, trovando particolare successo di riuscita grazie alla radicalità e alla imprevedibilità delle pratiche di lotta e di resistenza messe in atto. La cosa più interessante fu vedere come persone assai differenti per provenienza e ruolo sociale si mettessero in gioco spontaneamente, con una disponibilità alla lotta che mi era capitato di vedere solo nella tenace risposta della popolazione valsusina durante la lotta No Tav.
Si potrebbe parlare a lungo di quella che verrà ricordata come una delle più calde settimane che Torino abbia conosciuto negli ultimi 30 anni, e non è mia intenzione esaurire con una lettera tutti gli interrogativi e le perplessità che ci hanno lasciato in eredità le giornate di dicembre.
Certo, non tutto ciò che avvenne in quelle giornate è condivisibile o ascrivibile ad un processo insorgente di massa, e sarei nel torto se dicessi il contrario. Allo stesso tempo, però, non me la sento di etichettare tutto come un puro e semplice exploit dell’estrema destra – come hanno fatto alcuni – né tantomeno di sottrarmi ad un’analisi contestuale e attenta di un processo a cui io stesso ho preso parte e che, dunque, rifiuto di catalogare sotto le categorie di un presunto allarmismo sociale.
So che questa presa di posizione farà storcere il naso a molti, ma mi sento anche di rivolgermi a chi, consapevole del mio percorso politico e umano, stenta o rifiuta di approcciarsi ad un fenomeno reale di trasformazione anche quando se lo ritrova sotto casa.
La mia condizione di detenuto “sui generis”, a causa della peculiarità e della difficile elaborazione politica della lotta per la quale sono stato inquisito, non mi impedisce di rivendicare, nel mio piccolo, una grande affinità con le pratiche messe in atto dalle piazze di quei giorni e di suggerire – con estrema semplicità e senza arroganza – un approccio più pragmatico nell’osservazione dei movimenti che si faranno breccia negli anni a venire.
Mi riservo un’ultima riflessione rispetto a quella che è stata la reazione di polizia e magistratura nei confronti delle persone inquisite insieme a me. Come siamo ormai tristemente abituati a vedere, la sola risposta giudiziaria nei confronti dei movimenti sociali è la repressione pura e semplice. In questo caso specifico, poi, essa è legata a due scopi evidenti: il primo è quello intimidatorio, che trova conferma nella giovanissima età degli inquisiti, e che vale come un tentativo di ri-educazione forzata volto a sopprimere sul nascere gli istinti più genuinamente ribelli di una componente giovanile non più disponibile a sottomettere i propri tempi e i propri spazi per le necessità di una controparte (quest’ultima ancora poco definibile ma evidentemente metabolizzata come tale); il secondo è quello più strettamente punitivo, come si evince dalla durezza delle misure cautelari, che punta fondamentalmente all’obiettivo di scongiurare un eventuale ripetersi degli eventi di dicembre tramite un avvertimento chiaro e semplice: “Ribellarsi è sbagliato e fa male”.
Poco importa ora analizzare nello specifico quali saranno le reazioni di chi, ritrovatosi da un giorno all’altro privato della propria libertà, è stato additato come nemico pubblico numero 1 da una classe politica ansiosa di assegnare l’ennesima “punizione esemplare” per poi darsi tante pacche sulle spalle nella speranza che quanto successo non ricapiti più. E’ ovvio che coloro che sono stati raggiunti da quest’operazione fungeranno da capri espiatori, e non a caso ripropongono in piccolo l’eterogenea composizione sociale scesa in piazza sette mesi fa: ultras, precari, commercianti e, ovviamente, militanti dei centri sociali. I meccanismi della solidarietà, in questo caso, sono differenti e stentano ad assumere una dimensione collettiva e rivendicativa delle pratiche assunte dagli imputati; ovviamente è necessario tentare, per quanto possibile, di non abbandonare a loro stessi coloro che si dimostreranno intenzionati a proseguire un percorso di lotta reale che passi anche attraverso queste dinamiche, ma allo stesso tempo è bene saper distinguere e, nel caso, selezionare i compagni di viaggio col quale continuare questo percorso.
Nel mio piccolo, affronterò questa situazione con la tranquillità e la determinazione che ho imparato negli anni vedendo centinaia di amici, fratelli e compagni rimanere sempre a testa alta anche nelle situazioni in cui le difficoltà sembravano insormontabili.
Colgo l’occasione per ringraziare, ancora una volta, chi mi è stato vicino in questi mesi esprimendomi solidarietà immediata, con la speranza di poter riabbracciare tutti e tutte il più presto possibile!
Tommaso
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