Utopie Letali è un titolo spiazzante, che suscita curiosità e  perplessità. Questo perché si tratta in qualche modo di un ossimoro,  visto che siamo soliti associare un significato positivo alla parola  utopia, usandola come sinonimo di sogni, desideri e speranze in un mondo  migliore. Perché dunque affiancarle quell’aggettivo: letali? Eppure  sappiamo che, a volte, le utopie producono effetti imprevedibili, se non  catastrofici. Le destre, per esempio, ce lo ricordano continuamente,  soprattutto dopo la caduta dei regimi socialisti dell’Est Europa: avete  visto quanti orrori ha generato l’utopia comunista? Un ritornello che,  in campagna elettorale, viene usato per proiettare un’ombra inquietante  su una sinistra socialdemocratica che ha scontato da tempo i suoi  peccati e che, della parola comunista, non ricorda nemmeno il  significato, mentre, negli attacchi alle sinistre radicali, acquisisce  il sapore di un esorcismo contro il vecchio spettro che non si decide  sparire. Ma le utopie letali con cui polemizza questo libro sono di  tutt’altro genere: anche queste sono utopie “di sinistra”, ma hanno poco  a che fare con l’utopia comunista che ancora spaventa il capitale, si  tratta delle utopie di quelle sinistre “movimentiste” postmoderne,  postideologiche, postmateriali, postindustriali (l’elenco potrebbe  andare avanti per pagine e pagine, ma ve lo risparmio) che hanno  sostituito le velleità rivoluzionarie con il sogno di un crollo indolore  del capitalismo che dovrebbe essere provocato da improbabili mutazioni  della psicologia e dell’antropologia individuali, oppure dalle lunghe  marce per i nuovi diritti, o dall’invenzione di “terze vie” che ci  proiettino oltre la dicotomia fra pubblico e privato, oppure da tutto  questo assieme e da altro ancora.
La lista delle ideologie chiamate  in causa è lunga e, apparentemente, eterogenea: neo e postoperaisti, neo  anarchici, benecomunisti, girotondini, parte dei movimenti femministi,  ecologisti e pacifisti; soggetti in cerca di riconoscimento identitario;  entusiasti della democrazia di Rete; paladini dei nuovi diritti, ecc.  Ho detto apparentemente eterogenea perché, in realtà, le schegge di  questa galassia presentano molti tratti comuni: danno per scontata la  necessità di “andare oltre” (non di ripensare criticamente) la storia e  la cultura politiche del Novecento (dopodiché rispolverano ideologie  ottocentesche); sono antigerarchici e antiautoritari (ma si organizzano  in piccole sette guidate da piccoli leader carismatici); sono più  attenti ai diritti personali e individuali che ai diritti sociali e  collettivi; esaltano il ruolo democratizzante dei nuovi media (ignorando  il fatto che sono stati ormai colonizzati da governi e corporation);  hanno occhio solo per il lavoro immateriale di knowledge workers,  creativi o per il lavoro autonomo (che scambiano per una nuova  avanguardia politica e culturale, in barba all’incapacità di questi  soggetti di esprimere coscienza antagonista); rifiutano l’idea stessa di  partito come organizzazione degli interessi di una parte sociale contro  il “bene comune”, alla quale sostituiscono vaghi modelli movimentisti;  infine sono radicalmente “antistatalisti”, pretendendo di condurre la  lotta contro la proprietà privata in nome di un concetto di bene comune  proiettato “oltre il pubblico e il privato”. La tesi di fondo che  troverete nel libro che avete in mano, è che tali caratteristiche  attribuiscono a queste culture politiche un alto livello di contiguità  con l’ideologia liberale che vorrebbero combattere. Sono utopie letali  perché, invece di canalizzare l’energia antagonista che abita in un  corpo sociale martoriato da trent’anni di “guerra di classe dall’alto”,  la disperdono su obiettivi illusori o marginali e, quindi, indeboliscono  le possibilità di ripartenza di una “guerra di classe dal basso”.
Questa  la pars destruens del libro, la parte propositiva si articola viceversa  su quattro tesi di fondo che vengono argomentate in altrettante sezioni  del libro: 1) la crisi in corso segna un mutamento irreversibile del  modello di accumulazione capitalistica e ha provocato il definitivo  divorzio fra democrazia e mercato, per cui oggi viviamo sotto regimi  postdemocratici in cui gli interessi del capitale globale governano  direttamente, senza mediazione politica, le nostre vite; 2) le nuove  classi medie occidentali, che negli anni Novanta avevano accarezzato il  sogno di una economia della conoscenza e di un superamento pacifico del  capitalismo, sono state letteralmente fatte a pezzi dalla crisi; in  compenso, oggi assistiamo a una controtendenza alla concentrazione del  proletariato globale che ha i suoi nuclei di condensazione nella classe  operaia dei Paesi in via di sviluppo, e nei nuovi poveri dei Paesi  occidentali, perciò il fronte di opposizione antagonista al sistema  capitalistico può e deve essere ricostruito a partire da lì; 3) le  esperienze dei movimenti degli ultimi decenni insegnano che  spontaneismo, orizzontalismo organizzativo e culturalismo (si parte  dalle identità e non dall’appartenenza di classe) non pagano; occorre  quindi tornare a riflettere sull’idea di partito come organizzazione  antagonistica degli interessi di classe, un concetto che va tuttavia  adeguato alle attuali condizioni di frantumazione delle soggettività,  inventando nuove forme organizzative e nuove procedure decisionali; 4)  il capitalismo non cade da solo, né possiamo illuderci che siano le  richieste di diritti e riconoscimenti identitari a rovesciarlo, quindi  non basta tornare a ragionare sul partito, occorre tornare a ragionare,  con Gramsci, anche sul “farsi stato” delle classi subordinate e sulla  loro capacità egemonica, se si vuole gestire la transizione a una  civiltà postcapitalista.