
25 aprile 2025 a Trst – Una controinchiesta
Pubblichiamo di seguito un testo dell’Assemblea 25 Aprile di Trieste sui fatti avvenuti durante la scorsa Giornata della Liberazione.
Il 25 aprile 2025 un corteo antifascista è stato bloccato a Trieste, rinchiuso e caricato in Via dell’Istria, mentre andava in direzione della Risiera di San Sabba, lager di sterminio e tradizionale luogo di commemorazione per la Festa della Liberazione. Come già accaduto in passato, la Questura di Trieste – dopo aver militarizzato la gestione degli ingressi in Risiera, e di conseguenza il giorno della Liberazione tout court – decide di intervenire con manganelli e camionette, in nome della “sicurezza”. Si è scatenato un gran baccano mediatico a causa del fatto che, anziché assistere silenziosamente ad una violenza statale che si è esplicata nel blocco di una manifestazione e quindi nella violazione del diritto a manifestare, le persone in corteo si sono difese senza arretrare di fronte all’improvvisa violenza poliziesca. Con questa controinchiesta vorremmo affrontare alcune questioni emerse nelle ore successive, con parole lontane dal piagnisteo generalizzato dei sindacati di polizia e dell’ANPI.
Chi gestiva l’ordine pubblico a Trieste il 25 aprile? Prima parte di una controinchiesta
25 aprile 2025, Trieste. Un corteo antifascista parte da Campo San Giacomo e imbocca Via Dell’Istria diretto verso la Risiera. La cosa più normale del mondo nel giorno in cui si ricorda la Liberazione. Di punto in bianco, nel giro di pochi secondi, viene sbarrato in un punto deciso a tavolino dalla questura, ovvero un tratto di strada senza via laterali di fuga, bloccato da un cordone di carabinieri e polizia in antisommossa davanti (supportate da tre camionette che con una manovra veloce chiudono completamente la strada) e da un cordone di carabinieri alle spalle (insieme ad altre due camionette). Tra i funzionari della questura che hanno deciso la manovra si può notare lo stesso personaggio che qualche anno prima aveva decretato lo sgombero del porto durante le proteste contro il green pass. Quella volta, indossando fieramente la fascia tricolore, aveva teso il braccio “in nome della legge”, facendo saluti romani nell’ordinare la carica. Si tratta del Primo Dirigente della Polizia di Stato, Fabio Soldatich, già dirigente della polizia di frontiera, la stessa che effettuava “riammissioni informali” dei richiedenti asilo (ovvero respingimenti a catena fino in Bosnia, fuori dalla Fortezza Europa), ritenuti poi illegali e sospesi dal Tribunale di Roma. Insomma, Soldatich: un professionista del disordine che ama la violenza.
I fatti parlano chiaro. Di fronte all’arroganza dello stato di polizia (puntellato recentemente dall’ex ddl 1660, ora decreto legge), al piagnisteo falso e furbo dei suoi sindacati, alla superficialità giornalistica, che si senta la voce di chi era in strada e ha preso le botte per la sola colpa di manifestare il proprio antifascismo.
Moltiplichiamo la controinchiesta dal basso!
“Poteva scapparci il morto”. Seconda parte di una controinchiesta
Nelle immancabili polemiche del giorno dopo, oltre alle veline della questura che non hanno bisogno di fact-checking né di contradditoriosi, c’è stato un profluvio di comunicati dei sindacati di polizia (forse quattro in un giorno solo?), diventati direttamente l’unica opinione pubblica dello Stato in cui viviamo. Commentano, sbraitano, piagnucolano continuamente su ogni cosa, stracciandosi le vesti e inventando fatti per avere più uomini, più armamenti, più leggi, più libertà per poter reprimere il dissenso interno e militarizzare lo spazio pubblico. A Trieste si sono raggiunti livelli parossistici e, non a caso, la sfilza di commenti si è chiusa in bellezza con le sparate del sig. Tamaro, del SAP, uomo in odore di vicinanze con Salvini e grande patrocinatore delle torsioni autoritarie a cui assistiamo. Sicurezza per lui è blindare confini, respingere uomini, donne, bambini, avere mano libera per far chinare la testa a tutti a colpi di manganello. Il perfetto fascista in divisa da poliziotto.
Ebbene, è arrivato persino a dichiarare che durante il corteo antifascista del 25 aprile poteva “scapparci il morto”. Evidentemente, poliziotto nell’animo, ha avuto un rigurgito di memoria, perché di morti a dire il vero ne sono scappati tanti, troppi, proprio per mano delle forze dell’ordine, nella storia repubblicana. Dalle stragi di contadini e operai in sciopero degli anni ’50, sarebbe impossibile ricordarli tutti: ci limitiamo a citare Vakhtang, morto di botte nel CPR di Gradisca, i tredici morti della strage delle carceri nel 2020 e Ramy, ucciso in un inseguimento dei carabinieri.
Il morto è già scappato, i morti invadono la coscienza sporca della polizia e delle forze di sicurezza. Questo sipario mediatico è propedeutico al rodaggio del nuovo decreto sicurezza, gonfio di falsità ed esagerazioni. Smentiamone alcune sul corteo del 25 aprile, senza giri di parole: è stato comunicato alla Questura, nessun funzionario dello Stato ha dato prescrizioni, il corteo è rimasto pacifico fino al mamento in cui è stato bloccato. Le manganellate hanno aperto teste, rotto nasi, distorto mani, lasciato lividi neri sulle cosce e sul costato a diverse persone. I capi di celere e carabinieri sono giunti, dopo le manganellate, a dirci di tenere i cordoni in antisommossa a distanza (noi! A loro!) perché “non siamo in grado di tenerli”. A un certo punto, è stato comunicato che “in cinque minuti” avrebbero fatto passare il corteo, comunicazione che è diventata l’ennesima provocazione, visto che i cordoni di celerini non sono rimasti fermi – manganellando qua e là – per ancora mezz’ora.
La rabbia che si è vista nelle immagini è stata la minima reazione difensiva – non c’erano infatti veri oggetti offensivi – di un di un gruppo di antifascistə a cui la libertà più basilare, quella di manifestare, viene sostituita dall’impedimento di quest’ultimo e dalle manganellate.
Di fronte all’arroganza e alle falsità delle “forze dell’ordine”, al piagnisteo dei loro sindacati, alla superficialità giornalistica, moltiplichiamo la controinchiesta dal basso!
“Chi lancia le bombe carta non è un vero antifascista”. Terza parte di una controinchiesta
Tra i commenti che abbiamo letto in merito al corteo antifascista del 25 aprile, ci sono state anche le tristi dichiarazioni dell’Anpi/Vzpi, per il tramite del presidente del comitato provinciale Fabio Vallon. Ora, è evidente che la frase non ha senso, perché anche il presidente dell’Anpi dovrà ammettere che gappisti, partigiani, ribelli e banditi della liberazione di bombe ne hanno lanciate parecchie, ma bombe vere, non petardi. Passi dunque l’affermazione in senso polemico: è facile rigettare anche questa.
Primo: un corteo, se attaccato, ha tutto il diritto di autodifendersi. È quello che è successo il 25 aprile, quando di punto in bianco lo sbarramento di agenti in antisommossa ha bloccato il corteo in un punto senza vie di uscita per caricarlo. Avrà preso anche Vallon qualche manganellata nella sua vita (lo speriamo, altrimenti significa che è stato sempre dall’altra parte della barricata, se non lui stesso la barricata) e saprà che lì ci si difende come si può, a bastoni, braccia nude, petardi, quel poco che si ha. Altrimenti ti aprono la testa e finisce la festa. Altro che liberazione.
Secondo: bombe-carta non sappiamo bene cosa siano, ce lo spieghi Vallon o i sindacati di polizia o le fonti questurine che han dato la notizia. Intendono i botti? Sì, sono esplosi per respingere le cariche, i manganelli che infuriavano sulle teste del corteo. Il resto è propaganda spicciola, per rovesciare la violenza dello stato di polizia sui manifestanti e far passare la favoletta degli “antagonisti cattivi” e della polizia che difende l’ordine democratico. Anche l’Anpi leggerà ogni tanto i rapporti di Amnesty International, no? Mica pretendiamo tanto.
Terzo: contribuire al clima di caccia alle streghe è una mossa quantomeno da paraculo, se non da complice e delatore. Allora è meglio ricordare, una volta di più il 25 aprile, tutti quei partigiani che non hanno riconsegnato le armi, che hanno creduto nella liberazione e nella trasformazione sociale, che hanno combattuto la continuità istituzionale tra regime fascista e repubblicano (motivi per cui sono stati repressi dai giudici democratici). Questori, magistrati, poliziotti, funzionari della pubblica amministrazione che prima si sono imboscati e poi sono stati recuperati per mantenere l’ordine: gli eredi li vediamo ovunque. Come si vede, ognuno ha la sua storia di antifascismo a cui appellarsi: da un lato l’antifascismo militante e di un certo spirito dell’insurrezione (sì, proprio insurrezione) partigiana, dall’altro l’antifascismo di facciata, conformista, istituzionale, ipocrita, quello che Pasolini (poi mistificato) definiva il fascismo degli antifascisti.
Di fronte all’arroganza dello stato di polizia, al piagnisteo di chi dovrebbe difendere partigiani e antifascisti, ai pennivendoli che copia-incollano propaganda poliziesca, moltiplichiamo la controinchiesta dal basso!
I feriti. Quarta parte di una controinchiesta
Fa sempre sorridere leggere i bollettini del giorno dopo quando i cortei finiscono in scontri. Ricordiamo i celerini che si facevano refertare storte alla caviglie perché inciampavano nei boschi della Valsusa, o quell’immancabile numero nei titoli delle notizie, “feriti x poliziotti”. Mai una volta che si indaghi sull’armamento con cui reprimono il dissenso nelle strade, o le cause che portano a questi “ferimenti”. Per quanto riguarda le dotazioni, si tratta di caschi, scudi, parastinchi, paragomiti, paraspalle, para-tutto, in materiale tecnico e leggero sviluppato per scenari di guerra. Protetti di tutto punto e dotati di armi (alla cintola hanno pur sempre una pistola – viva Carlo Giuliani! – e si portano dietro gas CS nei candelotti, manette e manganelli), attaccano, manganellano, provocano. Ogni tanto qualche colpo arriva pure a loro, sotto tutti gli strati di protezione.
In ogni caso, capita spesso che debbano imbastire delle inchieste e inventarsi delle lesioni personali per ingigantire le accuse, renderle più pesanti. Ce n’è capitata una particolarmente divertente, ma tragicamente paradigmatica. Il corteo antifascista del 25 aprile 2023 era stato bloccato e caricato prima di poter arrivare in Risiera – prassi, dunque, che si ripete. Per quei fatti 7 antifascistə sono tuttora rinviati a giudizio per reati di manifestazione non autorizzata, oltraggio, resistenza, getto di oggetti. Tra le carte è comparso il referto di uno dei famosi “feriti” in questo genere di vicende. Si tratta di un agente delle forze dell’ordine, in antisommossa, che si è presentato al pronto soccorso di Cattinara lamentando “algie a entrambe le spalle dopo collutazione”. Cosa mai lo avrà colpito? Letteralmente niente: da referto, “avrebbe menato delle manganellate con il braccio destro e [occhio che qui si raggiunge il parossismo] issato un collega da terra con il braccio sinistro; dopo tali eventi, lamenterebbe delle algie…”. Le frasi, tratte dal referto, letteralmente riportano che l’agente si sarebbe fatto male (il condizionale è d’obbligo di fronte a questa fantasia) mulinando manganellate e alzando un suo collega da terra. Sette giorni di prognosi.
Cosa avrà provocato il ferimento dei due agenti nel corso delle medesime situazioni nel 2025? Lesioni guaribili in pochi giorni uno e in tre settimane l’altro. Spoiler: per quest’ultimo si tratta di lesioni alla spalla, dice la stampa. Forse anche lui ha menato troppo forte? Parebbe di sì, a giudicare dalle ferite, lesioni, colpi in testa ricevuti dai manifestanti che, con molta più dignità, si curano quando necessario e semplicemente sopportano, senza ricorrere a stratagemmi vittimistici per portare a processo qualcuno.
Forse un giorno vi racconteremo anche di quel celerino che, dietro il suo scudo, si è fatto refertare quaranta giorni di prognosi per un colpo al mignolo, diversi giorni dopo i fatti in cui se lo è procurato.
Intanto, un appello va al personale del pronto soccorso, dove abbiamo trovato anche medici e infermieri con senso critico e grande professionalità: diffidate dei dolori, delle algie, degli acufeni dei celerini in servizio, servono solo a intasare la sanità pubblica e portare a processo manifestanti!
Insomma, prima ti fanno la guerra e poi si leccano ferite inesistenti con annunci in pompa magna sui giornali.
Di fronte all’arroganza dello stato di polizia, al piagnisteo dei sindacati di polizia, alla superficialità giornalistica, ecco le nostre parole.
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