L’ovovia a Trieste: i primi passi di una grande opera e il fronte dei boschi che si ribella
da Burjana
Vogliamo dare il nostro contributo sugli avvenimenti degli ultimi giorni intorno alla questione della cabinovia metropolitana di Trieste, progetto finanziato con i fondi del PNRR per la mobilità sostenibile che intende costruire un impianto a fune che colleghi la zona del Porto Vecchio in prossimità del centro città con l’altopiano del Carso in zona Opicina. Un’opera che, contrariamente al suo manto “green” costruito sulla retorica della sostenibilità e dell’innovazione, andrà ad impattare fortemente il territorio che attraversa e che, da tempo, vede una forte e variegata opposizione popolare. Le nostre riflessioni sono un punto di vista, una prospettiva tra le tante nel fronte dell’opposizione, che speriamo possano arricchire il dibattito e la mobilitazione in corso.
Ovovia: grande opera dannosa, inutile e costosa
Intorno al progetto dell’Ovovia aleggiano in città sentimenti ambigui, come se alla fine l’assurdità di questa opera inutile e dannosa bastasse di per sé a fermarne la realizzazione. Non è così. Le grandi opere – a maggior ragione quelle finanziate dal PNRR – hanno una funzione strategica, in termini generali sono ripristino delle catene di valore nel capitalismo in crisi. In soldoni, sono grossi affari di progettazione e costruzione (il finanziamento iniziale PNRR di 48 milioni è lievitato fino ad arrivare ad oltre 63 milioni, raggiunti con finanziamenti della Cassa Depositi e Prestiti e con fondi comunali) nella congiunzione tra pubblico e privato (nel nostro caso amministrazione comunale, governo, Unione Europea e la cordata dell’azienda Leitner) e poi, se non verrà fermato, anche di gestione dell’infrastruttura.
Come scrivono in altri luoghi, ma in situazioni per certi versi assimilabili, in fondo non è neppure necessario che l’opera si realizzi (anche se crediamo che, per come si stanno mettendo le cose, il rischio è reale, attuale e ormai pienamente dispiegato). “Ciò che appare evidente è invece come il “dispositivo ponte” [oppure “cabinovia”, o qualsiasi altra grande opera] serva a legittimare l’impianto ideologico sviluppista, una macchina di consenso e spesa intorno a qualcosa che probabilmente non esisterà mai. Un vero e proprio metodo, basato sulla “non fattibilità” di opere pubbliche e infrastrutture, in cui lungaggini burocratiche, dibattito politico drogato e permanere di grandi interessi che giustificano la necessità di apertura di cantieri diventano elementi funzionali a un processo che mira in realtà all’indirizzamento dei flussi finanziari, all’orientamento del consenso, alla gestione del territorio”.
Il punto, dunque, non è nemmeno solo l’opera di per sè, ma il piano complessivo di riorganizzazione di una fetta intera di città che, dall’enorme speculazione e riprogettazione di Porto Vecchio, passa per l’area di Barcola e risale sull’altopiano. La cabinovia è in questo senso un’infrastruttura strategica. Ecco cosa va fermato: non (solo) il progetto di una cabinovia, ma il processo complessivo di devastazione del territorio e accumulazione economica – non equamente distribuita – che si porta dietro.
In questa cornice, che alle volte sfugge per i suoi contorni così estesi e sfumati, abbiamo visto negli ultimi giorni muoversi le prime pedine sulla scacchiera. Sono iniziati i primi interventi propedeutici alla definizione del progetto: dopo i sopralluoghi della scorsa primavera ai fini degli espropri dei terreni, i rilievi sul territorio (come gli scavi effettuati in Via Pertsch a giugno e le trivellazioni ad Opicina), i movimenti di tecnici nelle strade limitrofe, ora arrivano le prime trivellazioni impattanti nella zona di strada del Friuli.
Molti hanno fatto notare che “il progetto di fattibilità tecnica ed economica approvato dal Comune nel dicembre 2022 e messo a gara, presenta vistose lacune sotto diversi profili: ambientale, geologico, trasportistico, finanziario, urbanistico”. Nonostante queste lacune, dal momento in cui è stato elaborato un progetto ‘preliminare’ per la realizzazione di una cabinovia metropolitana, si è messo in moto un processo che non si fermerà da solo.
Le prime trivellazioni
Cosa succede quindi? Accade che sfruttando un’ordinanza sulla manutenzione del verde pubblico il Comune invia in Strada del Friuli una ditta che abbatte un ciliegio, il primo albero dei tanti che è previsto cadano per spianare la strada all’ecomostro. La vigilanza popolare è all’erta: possibile che avvenga un sacrosanto intervento di manutenzione e sfalcio del verde – a detta dei residenti, intervento sostanzialmente non pervenuto negli ultimi 15 anni – con la presenza di ben 5 tecnici comunali a dirigere i lavori, in un punto per giunta toccato dal progetto della cabinovia? Quello che apparentemente sembrava un normale intervento di manutenzione era un piccolo ma significativo moto nell’ingranaggio della megamacchina che si è messa in movimento.
Il gioco viene presto svelato. Dopo il pretestuoso intervento di rimozione di un albero, compaiono i primi divieti di sosta per “esecuzione di sondaggi funzionali al progetto della cabinovia”, riguardanti le aree di Via del Perarolo, Strada del Friuli (nei pressi del civico 118), Via Braidotti e Via del Calcare (intersezione Via Carsia). La ditta esecutrice è la Tecno Geologia Perforazioni di Brescia.
Il lunedì successivo, quindi, una convocazione informale di residenti e solidali si dà appuntamento in zona, per monitorare i movimenti e verificare quanto accade. Una prima “utilità” decisiva della mobilitazione è questa: il presidio e il controllo popolare permette di leggere e interpretare i primi passi della grande opera, contro l’opacità con cui si muovono istituzioni, autorità e imprese coinvolte. Non basta, insomma, affermare con sicurezza che il progetto è “preliminare”, che ci sono pareri contrari, che i ricorsi al TAR sono ancora pendenti. Come dimostrano centinaia di casi in altri luoghi e altre situazioni, progetti di questo tipo si muovono come macchine schiacciasassi sul territorio, strisciando di volta in volta tra ostacoli burocratici ed iter autorizzativi sullo slancio del loro avvio e dell’inerzia che li tiene in moto. Il business è la priorità.
Il meccanismo va inceppato sul piano pratico. Il lunedì ci pensa un nubifragio, che si abbatte su Trieste e sulle zone interessate dai primi sondaggi, mostrandone la fragilità idrogeologica: smottamenti, alberi abbattuti e allagamenti sono l’espressione feroce del fronte della natura, che dobbiamo saper ascoltare.
È sorda invece la macchina. Il giorno successivo, arriva la trivella in Strada del Friuli. Viene parcheggiata a bordo strada, qualche decina di metri sotto al punto boschivo dove dovrebbe sorgere il pilone W6, insieme ad una cisterna con l’acqua di raffreddamento per la perforazione (di metri e metri) prevista dal carotaggio. Iniziano quindi i primi lavori.
Per tutta la giornata la presenza di un presidio spontaneo segue i lavori, interroga gli operai coinvolti, mette in discussione la legittimità dell’intervento, mostra il dissenso verso l’opera. È chiaro a tutti – a chi presidia, anche sotto la pioggia; ai tanti, di passaggio, che a centinaia mostrano solidarietà – che quei sondaggi non metteranno mai in discussione la realizzazione della cabinovia metropolitana del PNRR, perché sono appunto “funzionali” al suo compimento.
La mobilitazione: il fronte dei boschi, il presidio popolare, il sabotaggio
I giornali danno subito risalto alla notizia: il sabotaggio. Contrariamente al can can mediatico, agli scettici e ai politici, ci sembra del tutto superfluo interrogarsi sulla mano che ha compiuto il gesto. Un sabotaggio, come un blocco popolare, è una risposta possibile, e in alcuni casi necessaria, alla violenza istituzionale, alla devastazione del territorio, ai progetti del capitale pubblico-privato. Non si tratta nemmeno di dividere il fronte che si oppone all’opera: ognuno e ognuna si muove con i mezzi che ha disposizione, perché la partita non si gioca nel teatrino della politica e delle legittime posizioni di interesse, ma sul territorio che si abita, in carne ed ossa, senza mediazione. Se lo mettano in testa i politicanti che dal loro salotto fanno la morale, nella speranza di capitalizzare qualche consenso contro il doge demente (sì, parliamo proprio del sindaco alla prese in questi giorni con il complotto per indebolire il governo della sua amica Meloni). Qui parlano e agiscono le persone che vivono sul campo, che lo attraversano ogni giorno per andare a lavorare, che lo difendono e lo curano, che lo custodiscono. Giocano un’altra partita quelli che accumulano e valorizzano capitale – che sia economico, di potere, di consenso politico – che di quel territorio si fa beffe. Semplicemente una risorsa da sfruttare in un modo o nell’altro, per lorsignori. Per noi è altro: è vita, comunità, territorio liberato. In questi giorni, anche semplicemente un riparo fresco dalle torride giornate estive, perché il bosco a differenza del cemento mantiene un ambiente vivibile.
Crediamo che questo sia un buon esempio del modo in cui vada affrontata una lotta come quella contro l’ovovia: attraverso tutte quelle modalità che chi si sente aggredita dal progetto ha tempo e voglia di portare avanti. In quest’ottica apprezziamo molto il lavoro informativo e la lotta legale del Comitato No Ovovia. Ma visti i giochetti di imprenditori e Comune, che con una semplice deroga superano vincoli come quello di Natura 2000, non sembra sensato pensare che i procedimenti della giustizia possano da soli arrestare il progetto in così breve tempo.
La storia insegna: progetti faraonici come quello dell’ovovia, in cui si concentrano molti degli elementi del capitalismo odierno (trasferimento massiccio di soldi pubblici nel privato, sfruttamento di ogni pezzo di terra per il profitto di poche aziende, sfacciato greenwashing, autoritarismo decisionale travestito di processo democratico), vanno combattuti, per la loro complessità, da ogni fronte possibile. Un agire verso una stessa direzione che necessita del rispetto reciproco di tutte le modalità di lotta.
Un’altra cosa che vale la pena ricordare, in questi tempi di smobilitazione strutturale, è che agire dal basso serve a qualcosa. Non è solo un modo di esprimersi, di vivere, ma anche un modo di cambiare veramente ciò che ci sta attorno. Pensiamo alla lotta No TAV, che da più di venticinque anni riesce a difendere il proprio territorio mettendo sotto scacco uno dei progetti più distruttivi e costosi della storia italiana recente. Ma pensiamo anche alle lotte locali, quelle che spesso passano quasi inosservate, ma che hanno senz’altro effetti nella gestione del nostro territorio.
Il presidio spontaneo si convoca e si riconvoca in continuazione, il martedì e il mercoledì successivi, di volta in volta scegliendo come agire. Con la semplice presenza, disturbando i lavori, denunciando le irregolarità, facendo muro, chiacchierando con gli operai, alzandogli la voce (siamo umani, non carte bollate). La risposta istituzionale è chiara: già dal martedì aumenta la presenza delle forze dell’ordine a sorveglianza dei lavori, a difesa degli interessi di una manciata di tecnici, politici e capitali contro la volontà popolare. La trivella viene transennata, nasce il primo fortino dell’opera, la sua piccola prima trincea sul campo. Dura poco, perché – contro il tentativo iniziale di muoversi in sordina e il successivo, a cose fatte, di farne una questione di ordine pubblico – il fronte dei boschi e dei resistenti la spunta.
Dopo tre giorni di lavori a scatti, gli operai comunicano che non ci sono le condizioni per proseguire i sondaggi. Hanno bucato per 7/8 metri il terreno, senza arrivare ai 10 che si erano prefissati, ma preferiscono caricare macchinari e bagagli e ripartire. I giornali ne parlano? In alcun modo, tacciono. Perché ormai è chiaro che la notiziabilità di questo grande affare passa per i faraonici annunci di un grande cabinovia metropolitana per la mobilità (dei turisti, in realtà, ma non si può dire apertamente perché altrimenti cadrebbe la ragione del finanziamento del PNRR), sogno di un capitalismo delle grandi opere che fa finta che la natura non esista se non come risorsa da spremere. Molto meno interessa ai media la contestazione reale, quella che avviene fuori dai social e che ha effetti materiali.
Ecco un secondo punto decisivo: dopo la fase degli annunci, delle carte, dei progetti, ora la partita si cala nella realtà e da lì deve venire la risposta.
Le trivelle ripartono, la mobilitazione continua
Le trivelle sono ripartite, ma il fronte dei boschi continua a vivere, a sorvegliare il Bovedo, le strade lì attorno, la casa comune che abita, contro lo sfruttamento e l’abuso di chi vorrebbe governarlo, sfruttarlo e valorizzarlo con la forza.
“Invitiamo tutte e tutti a tenere gli occhi aperti, a partecipare in questa lotta attivamente. Siamo responsabili per gli spazi che abitiamo.”
Con queste parole, un gruppo di cittadine, residenti e solidali della zona direttamente colpita dal mega progetto rilanciava la mobilitazione dopo la prima occasione in cui ci si è opposte fisicamente alla costruzione dell’ovovia. Uno “stare in piedi” – in linea con le tradizioni della disobbedienza civile – che ha rallentato i lavori di trivellamento propedeutici all’impiantamento dei famigerati piloni. Una piccolissima – ma comunque rilevante – vittoria, complici le forte pioggie e pure i piccoli sabotaggi che qualcuno ha portato a termine.
Teniamone conto: là – tra i boschi, le strade e i sentieri – c’è un mondo intero che si ribella.
Ti è piaciuto questo articolo? Infoaut è un network indipendente che si basa sul lavoro volontario e militante di molte persone. Puoi darci una mano diffondendo i nostri articoli, approfondimenti e reportage ad un pubblico il più vasto possibile e supportarci iscrivendoti al nostro canale telegram, o seguendo le nostre pagine social di facebook, instagram e youtube.